Come i social influiscono sulle nostre emozioni
I social influiscono sulle nostre emozioni? Come? Come possiamo gestirle?
Una nuova forma di comunità
Analizzare la società attraverso lo studio dei canali social, è possibile?
Di certo i canali social sono il campo di osservazione privilegiato e più aggiornato per capire la società e stare al passo con la sua evoluzione e i suoi cambiamenti.
Essi rappresentano una comunità che seppur virtuale, è sempre una comunità e come tale ha le sue regole, i suoi valori, le sue rappresentazioni.
Palestra e palcoscenico. Nelle comunità social, infatti, si sperimentano e si allenano emozioni, atteggiamenti, idee ma soprattutto si esprime la propria interiorità. Basta poco per renderci conto che questa nuova forma di comunità ha radicalmente rivoluzionato il nostro modo di comunicare e ha impattato fortemente sul nostro mondo emotivo, sulla nostra vita e sulle nostre abitudini.
I social network contano miliardi di utenti iscritti in tutto il mondo e riempiono il nostro tempo, rendendo più leggere le attese e più ricca e attiva la nostra comunicazione. Ci permettono di dare e ricevere informazioni e di condividere momenti, importanti o quotidiani, della nostra vita. Questo significa che ad essere pienamente convolti, nel loro utilizzo, sono il nostro corpo, i nostri sensi, la nostra identità e le nostre relazioni.
I social sono diventati un diario giornaliero, un luogo in cui esprimersi e confrontarsi, un posto dove sentirsi sicuri o minacciati. Il tutto attraverso un semplice click.
Il digitale, i nuovi media e le nuove tecnologie rappresentano il nuovo potente scenario esistenziale nel quale oggi siamo immersi fin dal momento in cui si viene al mondo e relazionarsi ad esso rappresenta necessità e opportunità. Difatti spazio, tempo e relazioni sono stati e sono fortemente influenzati da questo nuovo scenario esistenziale e questo ha significato fissare nuovi orizzonti e prospettive. Da circa due decenni infatti la quotidianità è stata ridefinita, dai concetti di spazio e tempo alle relazioni interpersonali come anche all’idea di sé e del proprio registro emotivo.
Il ruolo delle emozioni al tempo dei social
“Tutti sanno cos’è un’emozione fino a che non si chiede loro di definirla” (Fehr e Russell, 1984).
Le emozioni sono coinvolte in tutte le nostre attività cerebrali. Sono inoltre fondamentali e indispensabili nei processi di elaborazione, scrittura, memorizzazione, lettura, calcolo.
Protagoniste assolute del nostro vivere e sentire quotidiano, difatti ogni relazione umana si fonda sulle emozioni. Il filosofo greco Aristotele diceva che noi uomini siamo animali sociali: abbiamo bisogno degli altri per sopravvivere e questo significa fare i conti quotidianamente con emozioni e sensazioni diverse.
Le emozioni abitano le nostre vite e, in un mondo sempre più interconnesso nel quale entriamo costantemente in contatto con persone, idee e culture differenti è essenziale imparare a leggere ogni stimolo come occasione di crescita, di esplorazione, come scintilla di vita.
I social hanno avviato un nuovo modo di vivere e sperimentare le nostre emozioni. Penso all’amore e a come il primo approccio avviene sempre più spesso attraverso lo schermo di un computer o di un cellulare. I sentimenti e il loro bisogno di toccarsi hanno iniziato a sperimentarsi in nuove dimensioni mantenendo, perdendo o addirittura amplificando la loro intensità.
La nostra intimità, il nostro privato sono continuamente esposti al mondo esterno. Tutto quello che facciamo o pensiamo viene mostrato o raccontato agli altri in tempo reale. Umberto Galimberti parla di “crollo di quelle pareti che consentono di distinguere l’interiorità dall’esteriorità”.
Il mondo virtuale ha acceso i riflettori anche sullo sperimentare nuove emozioni come la paura di restare fuori, FOMO (fear of missing out). Gli effetti di questa paura sono adolescenti o adulti in ansia se non riescono a controllare il proprio smartphone che non è solo un telefono ma la chiave d’accesso allo stare insieme, all’esserci. Adolescenti o adulti alla ricerca costante e talvolta esasperata di un like che risponde ad un bisogno di approvazione, di essere accettati dagli altri.
Come gestire le socialemozioni negative?
La comunicazione social, con i suoi like, le emoji, i messaggi vocali, i video, i filtri, le applicazioni, ha certamente sdoganato le emozioni dalla difficoltà di esprimerle con le sole parole e con i gesti. Ha fatto crescere le opportunità di interazione sociale e rinforzato le competenze sociali.
I social possono però aggravare anche le fragilità emotive o psicologiche che già esistono nel mondo offline.
Il rischio è che l’immediatezza e la compulsività con cui ci viene chiesto di esprimere i nostri stati emotivi, nell’universo online, sembrano renderci più impulsivi e meno consapevoli di quello che proviamo e di come sappiamo o riusciamo a gestirlo. Montiamo infatti continuamente, tra la nostra interiorità e la nostra esteriorità, filtri e protezioni. Volendo usare una metafora, i social sono un tipo speciale di tapparella: quella con fessure piccole che permette di guardare fuori ma non concede sempre, da fuori, di guardare dentro.
Le emozioni umane e le loro tortuosità trovano protezione ma anche prigione in questi filtri. Vi è infatti grande differenza tra il mondo che abbiamo dentro di noi e la vita vera, quella che accade al di fuori.
La rete è la più grande invenzione di tutti i tempi, un cambiamento epocale di cui bisogna saper cogliere opportunità e potenza. Gestire le emozioni, nuove e antiche, che il tempo social ci pone dinanzi significa attraversare la linea d’ombra e dunque mettersi a cercare per conoscersi, ascoltarsi, avere il coraggio di essere se stessi fuori e dentro la rete.
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Riferimenti bibliografici
Della Seta L, Vivere le emozioni: per capire i disturbi dell’umore e liberarsi dall’ansia, Venezia, Sonzogno, 2014
Galimberti U., I vizi capitali e i nuovi vizi, Milano, Feltrinelli, 2020
Tempera D., I ragazzi italiani passano due mesi all’anno sui social: cos’è la dipendenza da smartphone e come difendersi, www.ilsecoloxix.it, 4 dicembre 2020
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
Come smettere di rimuginare
Come smettere di rimuginare? In questo articolo scopriremo cosa significa rimuginare e come puoi smettere.
L’erba cattiva non muore mai, ma a volte…
Pensare è fondamentale per l’uomo, è quello che ci distingue dagli altri esseri viventi. Ma quando pensare diventa troppo, “pensare oltre il pensabile” (Nardone, 2011), anche il pensiero non è più utile e funzionale.
Hai presente i pensieri che non se ne vanno via, che ronzano come una zanzara fastidiosa intorno al tuo cuscino di notte? O che ti tartassano rumorosamente come un martello pneumatico? Questo pensiero ricorrente e fastidioso è chiamato Rimuginio.
Immagina questo tuo pensiero fisso come un’erba infestante che cresce a dismisura. Rimuginare non è altro che mettere fertilizzante su questa pianta.
Ma come smettere di pensare? Ovviamente non si può smettere totalmente di pensare, né si può smettere di rimuginare su una determinata cosa semplicemente volendolo. Non si può semplicemente sradicare l’erbaccia.
Gli effetti dell’erba cattiva
Il rimuginio fa ripetere in maniera persistente gli elementi del problema, ti intrappola tra rami e foglie sempre più fitte portandoti a un sempre crescente disagio che ti può dare l’impressione di non risuscire più a vedere la luce tra il fitto fogliame.
Inoltre anche se ogni tanto ti sembra di intravedere qualche raggio di sole tra le fronde, qualche soluzione possibile al problema che ti affligge non riesci a credere che questa sia realmente sufficiente per risolvere i dubbi tanto grandi che ti ronzano in testa.
Ma ci sono diverse strategie che si possono utilizzare per interrompere il rimuginio e per far avvizzire questa erbaccia, eccone un paio.
Schiocca e dimentica
La tecnica dello schiocco consiste semplicemente nello schioccare le dita e dirsi: “ Giulia, torna qui!” ovviamente con il tuo nome. Fai questo ogni volta che ti accorgi di essere travolto dal tuo martello pneumatico di pensieri. Questa è una semplice tecnica di distrazione, ma se la metti in atto abbastanza a lungo ti porterà a modificare l’abitudine di rimuginare. Ti permetterà quindi di togliere il fertilizzante di cui parlavamo prima e di far seccare l’erbaccia, pian piano, fino alle radici.
Sicuramente all’inizio schioccherai le dita ma il pensare e ripensare riprenderà perché l’erbaccia è ben radicata, è normale sicome questa è un’abitudine per te. Per modificarla bisogna che continui a schioccare le dita, a fermare il fertilizzante, piano piano la pianta si seccherà.
Pensiero su carta
Un’altra tecnica di distrazione è scrivere i tuoi pensieri anziché pensarli, non solo una volta al giorno come in un diario, ma trasformando costantemente il pensiero in scrittura. Invece di pensare, scrivere tutto, ogni 5 minuti.
Mi raccomando scrivi a mano con carta e penna. Una serie di studi mostrano che i processi cognitivi coinvolti nello scrivere in carta e penna sono diversi o sono processati in modo differente rispetto allo scrivere in digitale.
Inoltre non rileggere mai ciò che hai scritto. Se rileggi infatti stai tornando a nutrire la tua erbaccia, alimenti il pensiero con il fertilizzante. Scrivere invece ti permette di interrompere tale nutrimento,
togliendo i tuoi pensieri dalla testa e ponendoli sulla carta. Questo, sempre piano piano, ti permetterà di far seccare la pianta infestante.
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Riferimenti bibliografici
Cannistrà, F., & Hoyt, M. F. (2020). The nine logics beneath brief therapy interventions: A framework to help therapists achieve their purpose. Journal of Systemic Therapies, 39(1), 19–34
Nardone, G., De Santis, G., (2011). Cogito ergo soffro. Quando pensare troppo fa male. Ponte alle Grazie
Pennebaker, J.W. (2004). Scrivi cosa ti dice il cuore. Milano: Erickson.
Lo psicologo nelle aziende: perchè è utile?
Quando pensiamo al connubio psicologo e aziende, pensiamo facilmente agli aspetti di reclutamento e selezione del personale. Ma ciò che ci viene facilmente in mente, non è forse riduttivo rispetto a ciò che ci può davvero essere utile?
In questo articolo poniamo l’attenzione su altri, quanto importanti aspetti a favore dello psicologo nelle aziende: dalla cura del benessere individuale del lavoratore, al miglioramento dell’ambiente organizzativo e della performance.
Benessere mentale e performance
Lo psicologo nelle aziende può intervenire su diverse problematiche inerenti il benessere mentale e il lavoro, quali stress, burnout e ansia.
In Italia la metà dei lavoratori riporta di non sentirsi a proprio agio sul posto di lavoro. Oltre il 10% avrebbe sperimentato vissuti legati a stress lavoro correlato, quali affaticamento cronico, difficoltà di concentrazione e irritabilità.
Nei casi più gravi i sintomi possono configurarsi come “burnout”, definito dall’OMS come sindrome da stress cronico mal gestito. Questa condizione si caratterizza per esaurimento emotivo, disinvestimento lavorativo e ridotta efficacia professionale. Inoltre pone l’attenzione sull’importanza di interventi tempestivi e preventivi sui posti di lavoro.
Tali condizioni non solo riducono la qualità della vita dei lavoratori, ma hanno anche un impatto negativo sulla produttività aziendale, aumentando l’assenteismo e il turnover. La possibilità di poter accedere ad un colloquio con uno psicologo aziendale può aiutare a ridurre (e prevenire) queste problematiche, aumentando anche la produttività e la qualità del lavoro svolto: una persona che sta bene lavora in maniera più efficace ed è maggiormente in grado di accedere alle proprie capacità creative e di problem solving.
La formazione e il team
Uno psicologo in azienda può avere un ruolo fondamentale nel monitorare bisogni e necessità aziendali in termini di formazione e sviluppo. Gli psicologi sono in grado di effettuare valutazioni accurate dei bisogni formativi attraverso analisi delle prestazioni, valutazione dei feedback e conduzione di interviste ad hoc. Questo risponde alla necessità della formazione continua in azienda ponendo attenzione non solo alle competenze tecniche, ma anche alle competenze trasversali, sempre più rilevanti nel mondo del lavoro.
Attraverso la raccolta dei dati lo psicologo aziendale può progettare programmi di formazione specifici su temi cruciali come la comunicazione efficace, la gestione dei conflitti e il lavoro in team. Quante volte abbiamo sperimentato la situazione in cui un progetto aziendale è rimbalzato da reparto a reparto, con una mancanza di visione globale che porta a rallentamenti e incomprensioni, con risultati negativi sul prodotto finale, il bilancio delle risorse impiegate e sul grado di soddisfazione interna?
Lo sviluppo di queste competenze non solo migliorano la produttività ma promuovono un ambiente di lavoro più efficiente e sano riducendo malintesi e conflitti, permettono di crescere a livello personale e professionale e favoriscono la coesione del gruppo e la collaborazione.
Attrattività dell’organizzazione
Il mercato del lavoro è in costante evoluzione e le persone oggi scelgono il luogo di lavoro in base anche a fattori quali la cultura aziendale, la possibilità di un buon bilanciamento vita-lavoro, la presenza di benefit e welfare aziendali.
La presenza di uno psicologo in azienda permette di sviluppare una cultura aziendale basata su una comunicazione efficace, un progresso costante a livello sistemico, migliorando la performance del singolo quanto del gruppo.
Lo psicologo in azienda, oltre a migliorare le competenze relazionali, attraverso i singoli colloqui e i programmi formativi sopra citati, può occuparsi della crescita personale e professionale dei dipendenti. Questo include lo sviluppo di capacità di leadership, gestione del tempo, public speaking ecc. Inoltre, lo psicologo può supportare lo sviluppo e la promozione di piani di carriera personalizzati basati sull’analisi e il progresso delle competenze, trasmettendo ai dipendenti meritocrazia e valorizzazione. Tutti elementi cruciali per il successo e il mantenimento della motivazione a lungo termine.
L’insieme di tutte queste opportunità può favorire l’appetibilità dell’azienda agli occhi dei candidati. La coesione e la diffusione della cultura aziendale aiutano a sviluppare inoltre un maggiore senso di appartenenza che favorisce a sua volta la permanenza dei talenti, riducendo il turnover e i costi associati alla formazione di nuovi dipendenti.
Il benessere dei dipendenti non è solo una questione etica, ma anche un investimento strategico che può portare a significativi miglioramenti nella produttività aziendale e nell’attrattività di nuovi talenti.
Riferimenti bibliografici
Harter, J. K., Schmidt, F. L., & Keyes, C. L. M. (2003). Well-being in the workplace and its relationship to business outcomes: A review of the Gallup studies. In C. L. M. Keyes & J. Haidt (Eds.), Flourishing: Positive psychology and the life well-lived (pp. 205–224)
Senge, P. M. (2006). The Fifth Discipline: The Art & Practice of The Learning Organization. Currency Doubleday
https://www.ilsole24ore.com/ (consulato in data 1/7/2024)
Psicologa specializzanda in psicoterapie brevi, supporto le persone a ritrovare le proprie risorse in periodi di blocco, supportandole nel trovare a propria strada sia a livello personale che professionale.
Blocco dello studente: come la Terapia a Seduta Singola può aiutare
Sei vittima del “blocco dello studente”? Sei nel mezzo della sessione e, per quanto ti sforzi in tutti i modi a concentrarti, ogni tentativo è vano?
La Terapia a Seduta Singola può aiutarti ad affrontarlo!
Pensare di poter risolvere un problema, magari che dura da tempo, in un solo incontro e avere effetti duraturi crea spesso scetticismo e poca fiducia.
Ciascuno di noi ha dei bisogni. La possibilità di soddisfarli in un tempo breve, può diventare una grande conquista sia temporale che psicologica.
La Terapia a Seduta Singola è un metodo, che si pone come obiettivo di fare psicoterapia o consulenza psicologica puntando a raggiungere il massimo da ogni incontro. Si focalizza sui bisogni urgenti della persona utilizzando manovre e interventi che possono, anche in un solo incontro, rendere utile e concreto l’intervento del professionista. Soluzioni su misura, capaci di rendere possibile il cambiamento anche in una sola seduta.
Sarà poi la persona a valutare se pensa di poter affrontare da sola la difficoltà che lo ha portato in terapia oppure scegliere di varcare nuovamente quella “porta”, la porta del terapeuta, che resterà sempre aperta.
Terapia a Seduta Singola: conosciamola meglio
La Terapia a Seduta Singola affonda le sue radici teoriche nel costruttivismo, dando alla persona la possibilità di cercare e costruire nuove realtà e di innescare un cambiamento consequenziale. Un cambiamento nella percezione di se stessi, degli altri e del mondo.
L’idea di una terapia al bisogno può sembrare forte e rivoluzionaria ma in realtà la applichiamo in tanti ambiti della nostra vita. Lo facciamo senza accorgercene. Andiamo dall’oculista perché ci dia una nuova prescrizione di lenti, dal momento che notiamo di non vedere bene da lontano.
Ci rivolgiamo al gommista per sostituire la ruota bucata.
Chiamiamo il dentista per curare una carie.
Funziona così anche per i bisogni psicologici. Certo ci saranno situazioni che necessiteranno di tempi maggiori, ma allo stesso tempo ci saranno problemi risolvibili in tempi brevi.
A fare la differenza sono sia la persona con le sue risorse che lo psicoterapeuta con la sua capacità di porre al centro la persona.
La Terapia a Seduta Singola può essere utile per: ansia, attacchi di panico, fobie specifiche, insonnia ma anche per prendere una decisione, per gestire lo stress o una crisi improvvisa, per avere un confronto.
Superare una prova
Nel 1973 va in scena una commedia del grande drammaturgo napoletano Edoardo De Filippo, “Gli esami non finiscono mai”. Il racconto della vita del protagonista, dal giorno in cui si laurea a quello della sua morte, è segnato dagli infiniti esami che la vita gli riserva in ogni campo.
Ogni giorno siamo chiamati a sostenere una prova. Nel lavoro, nelle relazioni, a scuola, all’università, nella società, in famiglia.
Questo significa fare i conti con ansia e stress. Se poi la posta in gioco è alta, come inseguire il proprio futuro e i propri desideri, la situazione si complica.
Affrontare un esame universitario è un’esperienza impegnativa dal punto di vista emotivo e dello stress. Studiare, ripassare per settimane, mesi e poi concentrare tutto lo sforzo in un unico momento. Pochi attimi in cui ci viene richiesta una prestazione adeguata e capace di centrare l’obiettivo, sia dal punto di vista tecnico che psicologico.
Sostenere un esame significa infatti fare i conti con possibili vuoti di memoria, attacchi di ansia, imbarazzo. Sensazioni dovute alla paura di non essere preparati abbastanza, al modo in cui si studia, al tempo che si dedica all’esame. Una vera e propria sfida per la nostra mente e per il nostro organismo.
Nel momento in cui si conosce la data dell’esame, si iniziano a sperimentare diversi livelli di stress, la cui intensità varia all’avvicinarsi della prova. Il corpo e la mente vivranno dunque molti momenti di alti e bassi per gestire la tensione a lungo termine.
Lo stress infatti ci mette in allerta da un pericolo imminente, tempi prolungati richiedono pertanto un’adeguata padronanza della situazione e una corretta capacità di autoregolarsi.
L’ansia da esame è innanzitutto legata al fatto che un esame è una prova che prevede la valutazione di terze persone, i docenti, e la valutazione significa essere esposti al giudizio altrui. Un’ansia da prestazione che può colpire tutti, in maniera più o meno intensa.
Talvolta poi l’apprensione per la prova orale sembra essere maggiore rispetto a quella per la prova scritta perché mette in gioco rischi più alti per lo studente legati ad una esposizione più diretta.
Terapia a Seduta Singola e blocco dello studente
Prepararsi psicologicamente ad affrontare un esame è compito necessario ma non di certo semplice.
Questo non significa sottovalutare o ignorare lo stress ma riconoscere se è normale o eccessivo. Lo stress eccessivo può arrivare ad esprimersi con attacchi di panico, crisi di pianto, somatizzazioni, blocchi emotivi.
Il primo passo dunque è riconoscere lo stato ansioso che accompagna la paura degli esami. Stato che si manifesta in sintomi, disturbi fisici e psicologici che possono sfociare in una serie di comportamenti che penalizzano il rendimento dello studente che si ritroverà dinanzi al docente in uno stato confusionale e bloccato nell’esprimere tutto quanto ha assimilato.
“La paura è sempre inclinata a vedere le cose più brutte di quelle che sono”, diceva il poeta latino Tito Livio.
Un singolo incontro inoltre può aiutare la persona, in tal caso lo studente, a individuare quei comportamenti, quegli atteggiamenti, quelle azioni, ripetuti e consolidati, che tendono a mantenere il problema e lo possono far addirittura peggiorare nel tempo.
Le tentate soluzioni sono spesso l’unica modalità che sia ha a propria disposizione per affrontare una difficoltà. Sono automatismi che attiviamo per risolvere un problema.
Evitamento, eccessivo controllo e parlare tanto della propria ansia sono le soluzioni più comuni che la persona mette in atto quando vive il “blocco dello studente”
Un incontro di Terapia a Seduta Singola tocca tre momenti importanti:
- Definizione del problema in termini operativi e individuazione dell’obiettivo al quale la persona punta. Obiettivo che deve essere SMART (Specifico, Misurabile, Attribuibile, Realistico, Temporalmente definito);
- Individuazione delle eccezioni positive per capire quali risorse sono state usate dalla persona e indagine delle tentate soluzioni;
- Riassunto di quanto emerso e prescrizione di un compito o di un esercizio.
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Stai sperimentando il blocco dello studente? Ti senti paralizzato?
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Per maggiori informazioni, ppuoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
Bartoletti A, Lo studente strategico, Milano, Ponte alle Grazie, 2013
Cannistrà, F., & Piccirilli, F., Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Firenze, Giunti, 2018
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
Critiche costruttive e distruttive: come imparare a criticare
Tutti quanti abbiamo avuto almeno un’esperienza in cui abbiamo ricevuto qualche critica e, quando questa è stata troppo diretta, offensiva o svalutante, sarà stata sicuramente poco gradita. Talvolta alcune critiche possono essere così sprezzanti da rimanere impresse nella nostra memoria a lungo o rappresentare quasi delle sentenze che ci hanno segnato l’esistenza.
Perché la critica è difficile da digerire?
Perché se non è ben posta può essere percepita più come un giudizio che come una critica. Ma dove sta la differenza? Il giudizio esprime quello che si reputa di una persona o addirittura può richiamare una morale a cui attenersi. La critica invece implica sì una valutazione ma riguarda più il comportamento, le azioni o i fatti piuttosto che l’identità della persona.
Ecco che già questa impercettibile denotazione può essere un valido aiuto nel formulare una critica.
Infatti, saremo stati sicuramente anche noi qualche volta “giudici” di qualche comportamento, situazione o peggio, di qualche persona! E così come non ci piace ricevere critiche distruttive, dobbiamo a nostra volta metterci in discussione per capire se sappiamo formulare una critica in modo da non ferire o sminuire l’altro. Vediamo come!
Le critiche distruttive
La critica distruttiva è una critica che mira a svalutare la persona, tende a sottolineare gli errori e i difetti piuttosto che il margine di miglioramento, e a volte può essere offensiva se si usano toni sarcastici e denigratori. Questo tipo di critiche lascia un senso di frustrazione nella persona che può sentirsi umiliata, svalutata e demoralizzata. Alcuni modi di esprimersi possono addirittura ledere l’autostima dell’altro.
Uno dei modi per capire subito se una critica è stata posta nel modo sbagliato è fare caso al verbo usato: molto spesso una critica distruttiva comincia con “sei…”, andando quindi a giudicare la persona e la sua identità, piuttosto che il suo modo di comportarsi. “Sei un incapace!”, “Sei un disastro!”, “Sei proprio un insensibile”.
Un altro modo di porre le critiche malamente è quello di usare un linguaggio perentorio e disfattista, usando le negazioni e gli assolutismi: “Non farai mai nulla di buono nella vita!”, “Sei il solito scansafatiche!”, “Guarda cosa hai fatto! Combini sempre pasticci!”
Questo modo di esprimersi non lascia infatti alcuna possibilità di cambiamento e miglioramento e, specie se ripetuto, può incrinare la sicurezza e il potere di agire efficacemente per il proprio futuro. Attenzione quindi a usare certe espressioni con persone sensibili, come i bambini e le persone che vivono un momento di fragilità.
Le critiche costruttive
La critica costruttiva è al contrario una critica che esprime un parere con l’obiettivo di aiutare la persona a crescere e a migliorare. Si tratta quindi di un giudizio non di valore, mosso con riguardo e rispetto verso la persona, aspettandosi quindi che possa fare meglio considerando le sue attitudini e le sue risorse. Il termine costruttiva infatti lascia intendere che ci sia dietro un atteggiamento positivo, volto a incoraggiare e motivare la persona a fare di più. Questo implica che prima di aprire bocca abbiamo in mente di costruire nuove possibilità facendo la nostra critica, che sì, abbiamo notato un limite o una difficoltà nell’altro, ma non per questo lo azzeriamo. Quando una critica è ben posta infatti, può lasciare nella persona che la riceve un senso di fiducia e speranza che le cose possano cambiare.
Come imparare a fare una critica
Un modo per imparare a porre critiche costruttive è quello di individuare un punto di forza nella persona a cui abbiamo da dire qualcosa: sottolineare un errore ad esempio tenendo conto delle risorse che la persona ha, può aiutarci a costruire frasi come: “Ho notato che hai fatto fatica in questa situazione, ma credo che grazie alla tua tenacia saprai trovare una soluzione per andare avanti”.
Tutti infatti hanno delle capacità che spesso sono sottovalutate anche dall’individuo stesso, venire riconosciuti anche per queste capacità gioca un punto a favore dell’autostima e della motivazione al cambiamento.
Inoltre, come abbiamo accennato, la critica costruttiva si concentra sui comportamenti e sulle azioni: esse sono finalizzate a offrire suggerimenti concreti per migliorare. Ad esempio “Penso che potresti migliorare se facessi così”, oppure “Voglio aiutarti a raggiungere il tuo obiettivo: cosa ne pensi di questo suggerimento?”. Occhio però a non dare troppi consigli non richiesti: questo può far sentire la persona incapace di trovare da sola una strategia.
Per ovviare a questo, possiamo far uso di domande nelle quali chiediamo il parere o il punto di vista di chi abbiamo di fronte.
Un altro punto da tenere in conto quando formuliamo una critica è il contesto: prima di muovere una critica è necessario considerare le circostanze e il vissuto della persona, valutare l’ambiente in cui siamo, se in pubblico o in una situazione privata, immaginare che la persona possa vivere delle difficoltà transitorie e ammettere che, anche se conosciamo bene quella persona, non possiamo sapere tutto quello che gli passa per la testa né le motivazioni che l’hanno spinta ad agire in quel modo.
Come reagire alle critiche
E quando siamo noi l’oggetto della critica, come possiamo reagire al meglio?
Innanzitutto ricordiamoci che la nostra autostima e il nostro valore non dipendono dal giudizio degli altri. Se una critica ci sembra troppo tagliente e distruttiva, chiediamoci se c’è qualcosa di vero in quello che ci viene detto. Se la risposta è negativa, consideriamo che quella critica così mal posta ci dice qualcosa piuttosto su chi ce la muove, che su di noi.
Se riceviamo invece una critica costruttiva, ascoltiamo attentamente cosa ci dice quella persona e ringraziamo per il feedback ricevuto. Rifletti poi su quel suggerimento chiedendoti in che modo può esserti utile: se può aiutarti a imparare e a crescere, prendi spunto dal feedback per migliorarti. Una certa dose di umiltà e flessibilità è infatti sinonimo di intelligenza e saggezza.
In conclusione, saper fare delle critiche con rispetto è una abilità che fa parte della comunicazione assertiva, quel tipo di comunicazione che ha un atteggiamento partecipe e non in contrapposizione con l’altro. La critica sortisce il suo effetto se fatta con amicizia e riguardo. Per questo è importante anche ascoltare attentamente l’altro dopo che gli abbiamo fatto una critica, capire le sue ragioni e metterci sempre in discussione con un atteggiamento propositivo.
Riferimenti bibliografici
De Panfilis, A. & Romeo, P. (2020) La cultura del feedback: Dare e ricevere feedback con efficacia ed eleganza per stimolare lo sviluppo professionale ed organizzativo. Fym.it
Nardone, G., & Salvini, A. (2010). Il dialogo strategico. Ponte alle Grazie.
Thomas, G. (1994). Genitori efficaci. Ed. La Meridiana.
Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana. URL consultato il 14 marzo 2024.
Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.
Cambiare, facendo un po’ di ordine
Cambiare mette ansia
Quante volte ci sarà capitato di cambiare, nella nostra vita?
Non ce ne rendiamo conto, ma è qualcosa che accade quasi in un secondo. Non ci piace più un certo tipo di pasta, passiamo a un altro genere musicale, cominciamo a leggere libri che mai avremmo pensato prima di leggere: sappiamo che qualcosa in noi è avvenuto ma non sappiamo spiegarci quando e come.
La vita è un continuo cambiare. Alcuni cambiamenti avvengono in modo spontaneo, altri hanno bisogno di una piccola spinta. E quando pensiamo che questa spinta non potremmo darcela mai, ecco che arriva. Come sopra, senza spiegarci quando e come. Però ci siamo, varchiamo la soglia del “momento di passaggio”, pronti ad assaporare tutto quello che comporta. Spoiler: quasi sempre si tratta di ansia.
L’ansia è una reazione fisiologica che la maggior parte di noi conosce molto bene, è il modo in cui il nostro corpo cerca di proteggerci facendoci però sentire schiacciati o bloccati al pensiero di quello che potrebbe succedere se le cose non dovessero andare come speriamo. Infondo, non è mai facile confrontarsi con le nostre aspettative, così come quelle che gli altri ripongono in noi.
Ma quando a stuzzicarci è la possibilità che un nostro sogno nel cassetto si avveri sul serio, non c’è paura che tenga. O meglio, la paura resta ma ognuno di noi può trovare il proprio modo di affrontarla senza lasciare che ci schiacci.
Se anche tu ti trovi a un bivio e stai valutando di intraprendere un percorso che non sai cosa e dove ti porterà ma non hai alcuna voglia di tirarti indietro, questo articolo potrebbe fare proprio al caso tuo.
Scopri insieme a noi terapeuti di OneSession come accogliere le tue paure e fartele amiche, per provare a cambiare nel modo in cui più desideri.
Un passo alla volta
Quando ci fermiamo a immaginare come sarà la nostra vita o cosa ne verrà dalle nostre scelte, a volte per la nostra testa passano così tanti pensieri che le cose finiscono per sembrarci più complicate di quanto siano in realtà. Per quanto paradossale, ciò che potrebbe davvero esserci d’aiuto in questi momenti è trovare il modo di semplificarle: ma come si fa?
Il primo passo sta nel mettere in ordine tutti quei pensieri che si affollano intorno alla nostra volontà di cambiare, proprio come farebbe un vigile munito di paletta e fischietto quando dirige il traffico autostradale in prossimità di un incrocio. Immaginiamo che al centro di questo incrocio ci sia l’obiettivo che vogliamo raggiungere, o il nostro sogno nel cassetto da far avverare, e che le auto da dirigere siano tutti i pensieri che, senza regole, gravitano intorno a questo obiettivo o a questo sogno. Immaginiamo di essere il vigile e di poter sollevare la nostra bella paletta rossa per far passare una sola auto alla volta, tenendo a bada tutte le altre.
Soffermarci su un solo pensiero alla volta produce questo stesso effetto: ci permette di tenere a bada le interferenze prodotte dagli altri pensieri, facendoci percepire meno caos di fronte a quello che sentiamo di voler realmente cambiare. Solo così possiamo riuscire a far chiarezza sulle nostre paure e su come possiamo attivarci per affrontarle. Il segreto è anche qui: una paura alla volta.
Non tutte le paure sono uguali, non tutte ci attraversano con la stessa intensità. Alcune sono blande, altre accompagnano pensieri che gareggiano a chi è il più forte. Come le auto, riusciamo a distinguerle soltanto quando non si affollano troppo. Sta a noi decidere su quale pensiero o paura apporre lo sguardo, a seconda di quale nodo sentiamo più impellente in un particolare momento.
E quando lo abbiamo trovato?
Individuare le nostre paure prioritarie è di per sé un altro piccolo passo in direzione del nostro desiderio di cambiamento. Infatti, quando le riconosciamo e le mettiamo per bene a fuoco,
implicitamente ci stiamo già domandando di cosa abbiamo bisogno per fronteggiarle. Ed eccoci al passetto successivo!
Non sempre le risorse che ci servono vanno ricercate ex novo. Per cambiare, spesso, occorre ripartire da tre, parafrasando quello che diceva Massimo Troisi nel famoso film del 1981: ovvero, ripartire da tutte le strategie che hai già provato in passato per affrontare le tue paure e che ti sono addirittura riuscite. Così risparmi tempo ed energie, puntando direttamente a cosa più funziona per te.
Torniamo, ad esempio, all’ansia di cui si legge sopra.
Tutti noi proviamo ansia ma non la proviamo sempre, dico bene? Se pensiamo alle volte in cui non l’abbiamo avvertita, o in cui l’abbiamo avvertita ma con meno intensità, ci vengono in mente situazioni, persone, azioni che hanno contribuito a farci stare bene. Alcuni di noi trovano utile distrarsi, ad esempio introducendo una passeggiata rigenerante tra gli impegni della giornata, altri provano a cambiare qualcosa nella propria routine, andando a coltivare di più le proprie relazioni e le proprie passioni, mentre altri ancora preferiscono affrontare il proprio problema scomponendolo in parti più piccole, rendendolo così più tollerabile.
Sorge, dunque, spontaneo pensare che quello che facciamo per abbassare i nostri livelli di ansia ci permette di notare o fare qualcosa di diverso quando poi quell’ansia non c’è più.
La molla del cambiamento scatta, infatti, quando cominci a guardare da un’altra prospettiva ciò che ti preoccupa e ti rendi conto che alcune risposte ce le hai già: ti basta soltanto fare un po’ di ordine per goderti, a piccoli passi, l’entusiasmo e la gioia per il percorso che verrà.
Riferimenti bibliografici
Cannistrà, F., & Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti Editore Firenze.
Nardone, G. (2009) Problem solving strategico da tasca. Firenze: Ponte alle Grazie
Nardone, G., & De Santis, G. (2011). Cogito ergo soffro: Quando pensare troppo fa male. Ponte alle Grazie.
Ciao! Grazie per aver letto fin qui. Sono una psicologa iscritta all’Ordine della regione Campania (9009-A), pronta a raggiungere insieme a te i tuoi obiettivi: già in un’ora, col giusto atteggiamento, possiamo fare grandi cose!
Come gestire il conflitto sul posto di lavoro
Il conflitto nel lavoro
Non esistono storie e relazioni senza conflitto.
Il conflitto è una discordia sociale causata da differenze reali o percepite. Può riguardare interessi, identità, valori.
Uno dei luoghi in cui trascorriamo molto del nostro tempo e in cui si registrano più attriti è sicuramente il luogo di lavoro.
Chi di noi non ha almeno un aneddoto da condividere a tal proposito?
Nei contesti di lavoro, i conflitti possono impattare fortemente sia sul benessere e sulla salute mentale, sia sulla performance lavorativa delle persone. Lo stress esercita infatti un effetto determinante sugli aspetti cognitivi ed emotivi degli individui e pertanto sul loro rendimento.
Le cause possono essere dovute a questioni attinenti i compiti lavorativi (obiettivi, decisioni, procedure…) oppure aspetti relazionali e interpersonali (tratti caratteriali, stile comunicativo…).
Il conflitto che nasce da questioni attinenti i compiti lavorativi ha una funzione positiva quando da esso nasce il confronto tra punti di vista differenti e la possibilità di trovare innovative soluzioni comuni. Questo perché gli interessi sono negoziabili e quindi il compromesso o la prevalenza del più forte sono la soluzione.
Il conflitto che nasce da aspetti relazionali e interpersonali nasconde invece molte insidie, in quanto legato ad aspetti più complessi da cambiare e mediare. Identità e valori non sono infatti negoziabili e le soluzioni richiedono procedure più complesse basate sul riconoscimento, la discussione, il ragionamento. Questi sono di fatto conflitti più complessi e spesso laceranti.
Le discussioni o incomprensioni sul lavoro possono nascere tra colleghi di uno stesso team, tra professionisti di team diversi o tra te (e/o i tuoi colleghi) con il capo.
Stress, diminuzione della produttività, rallentamento delle attività, compromissione del benessere fisico, psichico e sociale. Sono queste le principali conseguenze dei conflitti e delle discussioni sul lavoro che riportano all’importanza, come sottolineato dagli psicologi delle organizzazioni aziendali, di saper trasformare qualcosa di fisiologico in nuove risorse.
Cause e conseguenze del conflitto
Trascorriamo molto tempo a lavoro a contatto con colleghi. Le cause di conflitto possono essere svariate, dalle più banali alle più importanti e possono sfociare in vere e proprie divergenze.
Perché nascono le discussioni sul lavoro?
- Personalità inconciliabili. Ciascuno di noi ha una propria visione, un proprio sistema di valori e credenze e un proprio modo di affrontare le situazioni e gestire le attività. Non sempre troviamo colleghi con affinità caratteriali e personali;
- Difficoltà comunicative. Le persone comunicano il messaggio da trasmettere in modo diverso e con un livello di sensibilità differente;
- Stress e pressione psicologica. Alcuni dei fattori scatenanti dello stress possono essere legati ad una scorretta distribuzione dei compiti, ad un conflitto lavoro/famiglia, ad una iniquità organizzativa, ad una insicurezza lavorativa, alla presenza di condotte di mobbing, alla soddisfazione lavorativa, allo stile di leadership preminente, ad uno squilibrio tra sforzo e ricompensa.
- Eccessiva competitività. Una sana competizione rende le persone più propense ad ottenere prestazioni migliori e persino a collaborare in maniera più proficua. Quando la competizione travalica i confini rende le persone ostili tra loro e le spinge a vedere gli altri come avversari piuttosto che come collaboratori.
Le discussioni non risolte hanno conseguenze importanti sulla persona e si manifestano attraverso lo stress che è una risposta psicofisica dell’organismo.
A livello psicologico gli stati sperimentati riguardano vissuti di insoddisfazione, affaticamento, tensione, rabbia, ansia, depressione, perdita di prospettiva e progettualità, difficoltà di concentrazione.
Sul piano fisiologico possono apparire sensazione di fatica/stanchezza, tensione muscolare, difficoltà digestive, difficoltà del sonno, aumento nel consumo di alcool o farmaci, modifica dell’appetito.
Per quanto riguarda il livello comportamentale si manifesta una diminuzione dei contatti sociali, riduzione del desiderio sessuale.
Il burnout è uno stato di esaurimento emotivo dovuto all’esperienza di stress cronico nell’ambiente lavorativo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito il burnout tra i fattori che influenzano negativamente lo stato di salute della persona.
Come litigare in modo utile e positivo?
Mi piace molto una frase della scrittrice statunitense Amy Tan: “Se vuoi cambiare il tuo destino, cambia il tuo atteggiamento”. Questa frase riporta all’idea che possiamo modificare il corso delle cose e diventare padroni del nostro agire e delle conseguenze che da esso derivano.
Abbiamo il potere di orientare le nostre relazioni alla crescita e alla dinamicità.
Un importante punto di partenza è che, nonostante le cause del disaccordo possono essere molto differenti, è determinante non perdere mai di vista gli obiettivi da raggiungere, sia a livello individuale sia di gruppo.
Come gestire strategicamente i conflitti sul lavoro?
- Comunicare in maniera chiara e diretta significa ridurre drasticamente le incomprensioni;
- Essere aperti e disponibili a trovare un punto di incontro. Questo significa non restare ostili ma propensi alla ricerca di una soluzione efficace;
- Provare a comprendere i bisogni e le esigenze della persona che si ha di fronte;
- Capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni e quelle altrui;
Non rimandare le discussioni, anche se spinose, ma affrontarle. Matteo Rampin, psichiatra e psicoterapeuta specializzato in problem solving, « la nostra mente evita di confrontarsi con ciò che ci minaccia. Il problema è che, facendo gli struzzi e non affrontando i problemi, si rischia di ingigantirli a dismisura dentro la nostra testa.».
Per fare questo è necessario aver chiaro qual è l’obiettivo da raggiungere. Talvolta quello che desideriamo è solo affermare la nostra posizione. Se il nostro scopo non è prevalere sull’altro, ma risolvere un problema, diventerà prioritario prestare attenzione alle strategie sopra richiamate.
Il confronto ha sempre una connotazione positiva, perché porta le parti a scambiarsi punti di vista nel desiderio di costruire qualcosa; è la discussione e lo scontro a essere lesivo, inconcludente e deleterio. Discutere in modo sano permette di crescere insieme, superare le difficoltà per un bene comune e rafforzarsi come persone e colleghi.
Stai sperimentando delle difficoltà sul luogo di lavoro? Non sai come gestirle?
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, gli psicologi di OneSession.it ti offrono la possibilità di prenotare un primo colloquio gratuito. Per prenotare il tuo incontro, puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
Come affrontare la gelosia
Quante volte hai sentito quel pizzico di gelosia intrecciarsi con la tua fiducia?
Oppure, hai mai dovuto frenarti dal controllare quel telefono, solo per vedere se c’è qualcosa di cui preoccuparti?
La gelosia può agire come una marea impetuosa, trascinandoci in acque tormentate di insicurezza.
Se lasciata incontrollata, può minare le fondamenta della relazione e compromettere il benessere personale.
Tuttavia, la gelosia ha una radice evolutiva, nata per proteggere il legame e l’investimento nella relazione.
Ecco perché è essenziale trovare un equilibrio tra il riconoscimento di questa emozione e il suo gestirla con saggezza.
La gelosia patologica
La gelosia patologica è come un vortice che inghiotte tutto ciò che è sano e sereno.
In questa spirale di ansia e sospetto costante, ogni azione del partner è interpretata come prova di un tradimento.
Per chi ne soffre, la gelosia può diventare una prigione emotiva, portando a sentirsi inadeguati e impotenti.
Rassicurazioni che non rassicurano
Chi è schiavo della propria gelosia, spesso mette in atto dei tentativi per metterla a tacere, che però hanno l’effetto di peggiorare la situazione.
Questi tentativi generalmente sono:
- Richiesta costante di rassicurazioni. Chi lotta con la gelosia spesso cerca rassicurazioni costanti dal partner per placare l’ansia e il timore dell’abbandono o dell’infedeltà. Tuttavia, questa pratica può diventare una sorta di dipendenza emotiva, dove la persona gelosa non riesce a trovare stabilità senza queste conferme continue. Inoltre il partner può iniziare a sentirsi soffocato, come se non fosse mai abbastanza per soddisfare il bisogno di rassicurazioni dell’altro. Ciò può portare a un senso di frustrazione e impotenza nel partner.
- Controllo costante. Un’altra strategia comune è quella di cercare di tenere il partner sotto controllo, controllando i suoi spostamenti, monitorando i messaggi e persino cercando di limitare le sue interazioni sociali. Questo deriva da una profonda paura di essere traditi o abbandonati. Il partner sottoposto a questo costante controllo può sentirsi intrappolato e privato della propria libertà individuale.
Spesso, per effetto contrario, il partner comincerà a nascondere anche cose piccole ed insignificanti, per scampare alle continue richieste.
La “profezia che si autoavvera” in negativo
La “profezia che si autoavvera” si riferisce a una situazione in cui una credenza o una previsione influenzano il comportamento di una persona in modo tale che la previsione stessa si avvera. Ad esempio, se qualcuno crede fortemente che un evento negativo accadrà, questa convinzione può condurre a comportamenti che, ironicamente, rendono più probabile che l’evento si verifichi.
Nella gelosia, questo concetto può essere applicato in questo modo:
- Credenza Negativa: Una persona gelosa può avere una profonda convinzione che il partner sia incline all’infedeltà o che stia cercando attivamente di tradirla.
- Comportamento Correlato: Basandosi su questa credenza, la persona gelosa può iniziare ad adottare comportamenti di controllo o richiedere costantemente rassicurazioni dal partner.
- Effetto sull’Altro Partner: Questi comportamenti possono mettere una pressione notevole sul partner, che potrebbe iniziare a sentirsi soffocato o limitato nella sua libertà.
- Risposta del Partner: A causa di questa pressione, il partner potrebbe iniziare a provare frustrazione, e forse persino ribellione contro il controllo eccessivo.
- Effetto sulla Relazione: Questi comportamenti possono gradualmente minare la fiducia e la sicurezza nella relazione. Il partner potrebbe cominciare a sentirsi imprigionato, mentre la persona gelosa vedrà questo come una conferma delle sue paure.
- Autoavveramento della Gelosia: Di conseguenza, la gelosia della persona può “autoavverarsi”. Il comportamento controllante e la richiesta costante di rassicurazioni possono mettere a dura prova la relazione, portando alla possibilità di un deterioramento o di una rottura effettiva.
La “profezia che si autoavvera” per uscire da questo vortice
Lo stesso concetto di “Profezia che si autoavvera” può essere però utilizzato per risolvere il problema dell’eccessiva gelosia ed instaurare, al contrario, un circolo virtuoso.
Se si sceglie di indossare le ‘lenti’ della fiducia e della lealtà, ci si orienta verso una prospettiva positiva e costruttiva. Questo atteggiamento apre la porta a comportamenti basati sulla fiducia, come la comunicazione aperta e onesta, il sostegno reciproco e il rispetto per l’individualità di ciascun partner.
La profezia che si autoavvera entra in gioco quando questa fiducia reciproca viene costantemente riaffermata attraverso azioni coerenti. Ad esempio, se un partner mostra di fidarsi dell’altro dando spazio alla sua libertà e rispettando la sua privacy, ciò crea un ambiente di fiducia in cui entrambi possono crescere e prosperare.
Pertanto, scegliere deliberatamente di vedere la relazione attraverso le ‘lenti’ della fiducia e dell’ottimismo può iniziare un ciclo virtuoso. Questo ciclo si alimenta da solo: la fiducia porta a comportamenti di fiducia, che a loro volta rafforzano ulteriormente la fiducia. Con il tempo, questa dinamica positiva può crescere e solidificarsi, fornendo una base stabile e amorevole su cui costruire una relazione duratura e appagante.
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Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
One Session Center: il cambiamento in una sola seduta
Fin dal suo lancio nel 2019, One Session ha trasformato la vita di centinaia di individui, offrendo loro un’esperienza tangibile di crescita personale.
I terapeuti di One Session sono tutti formati in Terapia a Seduta Singola (TSS).
Grazie a loro otterrai un aiuto mirato, ricevendo soluzioni personalizzate.
La Terapia a Seduta Singola è più che una semplice conversazione.
Rappresenta un’opportunità per scoprire nuove prospettive e sviluppare competenze. Potrai trasformare il tuo modo di vedere il mondo e la tua capacità di affrontare le sfide quotidiane.
Sotto la guida esperta dei terapeuti di One Session, avrai l’opportunità di esplorare le tue risorse interiori, individuare soluzioni su misura e ricevere un supporto immediato per superare gli ostacoli che potresti incontrare.
Nuova Data a Roma
Siamo lieti di invitarti il 15 settembre presso la nostra sede in Via Nomentana 60, a Roma.
Puoi semplicemente presentarti al nostro centro clinico tra le 9:00 e le 13:00 e suonare il campanello ICSST – ICNOS oppure prenotare un appuntamento specifico attraverso questo link: https://forms.gle/ASfR546AK6nTfahXA
Disponibile Anche Online
Ricorda che i terapeuti di One Session sono disponibili online dal lunedì al sabato. Puoi prenotare un colloquio online comodamente da casa tua, scegliendo i giorni e gli orari che meglio si adattano alla tua routine (clicca qui).
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Ti aspettiamo con entusiasmo il 15 settembre presso la nostra sede in Via Nomentana 60, a Roma, oppure online.
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Genitori e rabbia: come gestire quest’emozione
Le cause della rabbia
I bambini sono creature adorabili, un loro sorriso ci riempie di gioia, ci amano con tutto il loro essere e noi li amiamo con un’intensità che solo il rapporto genitore-figlio può raggiungere.
Nonostante questo, i figli riescono a tirare fuori il peggio il noi, e a volte la nostra rabbia è così violenta che ci troviamo a gridare, punire, chiuderci in noi stessi e poi soffriamo per le nostre reazioni.
La ferocia e l’intensità della rabbia che proviamo ci lascia confusi e spaventati, sappiamo di sbagliare ma non riusciamo a controllare le nostre reazioni.
La rabbia nei confronti dei nostri figli è un’emozione frequente e normale, che ci impedisce però di svolgere al meglio il nostro compito di genitori e di fare le scelte giuste. Non ci aiuta ad insegnare ai nostri bambini ciò che vorremmo trasmettere loro.
La rabbia influenza il nostro modo di pensare, di comportarci e di vivere la vita di tutti i giorni. Genera tensione e insoddisfazione in noi e nei nostri figli.
Comprendere le cause che generano la rabbia è il primo passo per controllare gli impulsi collerici e per avviarci verso la loro prevenzione e verso possibili soluzioni.
- La mancanza di supporto e sostegno alla famiglia può essere una causa all’irritabilità e stanchezza del genitore.
- Non poter contare su nessuno genera molta fatica. Questa produce un circolo vizioso tale per cui si perde più facilmente la calma ed essendo molto stanchi ed affaticati non si riesce a gestire in modo funzionale le fatiche quotidiane.
- Talvolta le aspettative che abbiamo sui nostri figli non sono in sintonia con la vita reale e questo produce frustrazione.
- La rabbia inoltre può nascondere ulteriori emozioni: preoccupazione, disagio e paura.
Come ridurre le situazioni che provocano rabbia
- Uscite dal ruolo di genitori e dedicate del tempo a voi stessi.
- Create un calendario o un programma della settimana dove annotate gli impegni per evitare di dovervi muovere nel caos.
- Realizzate e appendete un cartellone con le norme familiari chiare e comprensibili da parte di ogni componente.
- Quando è possibile offrite a vostro figlio scelte invece di avanzare richieste.
- Esprimetevi in prima persona “io” evitando di fare affermazioni su vostro figlio “tu” che potrebbero creare conflitti.
- Parlate a vostro figlio guardandolo negli occhi, sintonizzatevi con lo sguardo.
Come mantenere la calma
La prima azione che è possibile fare è quella di identificare la rabbia, in particolare riconoscere i segnali del vostro corpo e comprendere l’attivazione fisiologica che sta avvenendo. Ciò aiuta a essere consapevoli di ciò che sta accadendo e potete prevenire razionalmente l’ira che sta emergendo bloccandola per esempio smettendo di discutere.
Potete allontanarvi dalla situazione, in alternativa potete abbracciare vostro figlio, abbasserete così il livello di tensione.
Concedetevi del tempo per ritrovare la calma, per esempio spostando l’attenzione su attività che vi producono rilassamento come per esempio ascoltare musica, fare un gran respiro chiudendo gli occhi.
Potete analizzare la situazione ripercorrendo nella vostra mente l’accaduto, ciò vi consentirà di essere più obiettivi.
Annunciate il “problema” cioè definite in modo chiaro: “il problema è..”
Agite decidendo quali tecniche genitoriali mettere in pratica, stabilite inoltre un ventaglio di possibili soluzioni da adottare. Mettete in atto le vostre decisioni, questo produrrà coerenza rispetto ai vostri pensieri e comportamenti.
Se pensi di non riuscire a gestire da solo questo aspetto dell’essere genitori puoi rivolgerti a un professionista del One Session Center (clicca qui), con il quale trovare nuove strategie per uscire dai problemi che vivi in famiglia.
Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262
One Session ti aspetta a Roma!
One Session apre le porte del suo centro clinico di Roma!
Scopri cos’è One Session, come ottenere il tuo colloquio gratuito e la grande novità che ti permetterà di conoscere i nostri terapeuti dal vivo.
One Session: cos’è
One Session è un servizio gratuito di Terapia a Seduta Singola.
Nato nel 2019 a Monterotondo, nel 2020 si è trasformando divenendo un servizio completamente online.
Grazie alla Terapia a Seduta Singola, offriamo a chi usufruisce del servizio l’opportunità di acquisire nuove prospettive, sviluppare competenze e identificare soluzioni personalizzate, tutto in un solo colloquio.
I terapeuti di di One Session in questi anni hanno già aiutato centinaia di persone ad ottenere un cambiamento concreto e duraturo nella loro vita.
Terapia a Seduta Singola: davvero può aiutarmi un solo colloquio?
Ebbene sì. La Terapia a Seduta Singola è un metodo studiato da oltre 30 anni che ha sempre dimostrato la sua efficacia, sia con semplici difficoltà che con problematiche puù invalidanti.
Cosa può succedere in un incontro di Terapia a Seduta Singola?
Puoi:
– imparare a vedere la situazione da un altro punto di vista
– riscoprire le tue risorse e trovare il modo di utilizzarle
– acquisire strategie per risolvere il tuo problema
Vuoi prenotare il tuo colloquio gratuito? Ecco come fare
1️⃣ Compila il form a questo link https://forms.gle/rJGugrK6TnpZ5QB18, descrivendo brevemente il tuo problema e indicando giorni e fasce orarie in cui desideri essere contattato per il colloquio.
2️⃣ Controlla la mail: entro 24 ore riceverai conferma del tuo appuntamento!
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Sei di Roma? Non perdere quest’occasione!
Da giugno 2023 One Session apre le porte del suo centro clinico di Roma.
La prima data sarà venerdì 23 giugno, dalle 9 alle 13.
Potrai finalmente conoscere i nostri terapeuti dal vivo e ricevere il supporto di cui hai bisogno.
Non serve prenotare: ti basterà presentarti nella nostra sede, suonando il campanello ICSST.
Per informazioni, puoi contattarci a questo indirizzo: info@onesession.it
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Modelli di famiglia: la famiglia sacrificante
Nell’articolo di oggi parleremo della famiglia sacrificante, uno dei modelli di famiglia largamente diffuso.
La famiglia è un cardine fondamentale della nostra società ed è spesso oggetto di attenzioni da parte dei media e sui social, dal momento che investe gran parte della vita di ogni individuo. Esistono dei modelli di famiglia che altro non sono che letture dei copioni più ricorrenti nello stile di educazione genitoriale. Sebbene ogni genitore possa portare diversi modi di interagire con i figli, col tempo alcuni comportamenti, dinamiche e giochi comunicativi finiscono per cristallizzarsi e caratterizzare il tipo di interazione tra i componenti della famiglia.
Molte di queste modalità di interazione possono risultare in alcune occasioni congrue con l’idea che si ha di famiglia ma l’irrigidirsi di certi meccanismi può risultare disfunzionale nel tempo e comportare delle conseguenze per la crescita dei figli.
In questo articolo abbiamo già parlato di uno stile genitoriale iperprotettivo e di come questo possa comportare dei rischi nello sviluppo psicologico dei figli.
Nelle famiglie sacrificanti, il valore del sacrificio assume un significato importante per tutti i membri che ne fanno parte, sebbene abbia un risvolto diverso per i genitori e per i figli. Di solito infatti si tratta di uno stile orientato al sacrificio da parte dei genitori, i quali abdicano ai loro desideri in favore del benessere dei figli. Vediamo in che modo.
Tratti distintivi dei genitori sacrificanti
Il genitore sacrificante sposa un modello di vita basato sul sacrificio per far sì che i figli abbiano soddisfazioni e un futuro positivo. A differenza del modello iperprotettivo però, in queste famiglie i genitori manifestano continuamente la fatica e le rinunce che stanno facendo aspettandosi di venire un giorno ricompensati dai successi che i figli otterranno grazie ai sacrifici fatti da loro.
Spesso si innesca in tal senso una specie di ricatto emotivo, dove il genitore assume un atteggiamento vittimistico quando il figlio non riconosce il sacrificio da lui fatto e il figlio finisce per passare come un egoista. L’ambivalenza del messaggio “lo faccio per te, quindi impegnati” insinua un debito e l’esigenza di doversi dimostrare all’altezza dell’aiuto (spesso non richiesto).
Obblighi e rinunce sono quindi comportamenti visti in modo positivo dai genitori, per i quali l’imperativo è dare, dare, dare per il benessere della famiglia. Questo messaggio di “dovere” permea l’intero nucleo familiare, dove il piacere e le soddisfazioni sono invece messi da parte e visti come una trasgressione o vissuti con senso di colpa.
Può accadere che nella coppia di genitori solo uno abbia questo atteggiamento: in questo caso anche il partner può essere oggetto di questo altruismo non richiesto e la felicità degli altri membri riveste un’importanza esagerata per il genitore sacrificante, che diventa la colonna portante su cui regge l’intera famiglia (molto spesso si tratta della mamma).
A prescindere da chi veste il ruolo sacrificante, la narrazione che risulta in queste famiglie è che l’amore passa attraverso il sacrificio: solo dando sarò accettato dagli altri e in virtù del sacrificio che faccio otterrò l’affetto dei familiari.
I rischi di uno stile sacrificante
Come accennavamo, la relazione di questi genitori con i figli è basata su un altruismo insano che genera malcontenti da entrambe le parti. Da una parte il genitore non vede riconosciute le sue fatiche e privazioni e di conseguenza si arrabbia e accusa i figli di ingratitudine. Oppure usa lunghi silenzi come forma di comunicazione passivo-aggressiva, stabilendo a conti fatti una posizione di superiorità facendo sentire gli altri in debito o in colpa.
Dall’altra parte i figli vivono in un clima di costante tensione. Piuttosto che apprezzare gli sforzi e i sacrifici dei genitori, finiscono per rifiutare o addirittura accusare i genitori del loro scontento. Non di rado possono nascere veri e propri episodi di violenza da parte dei figli nei confronti dei genitori.
La mancanza di piacere e divertimento contribuisce inoltre a mantenere un clima non proprio allegro e spesso i figli esortano i genitori a uscire di più, a viaggiare, a divertirsi ma questo è inammissibile o rimandato a un futuro lontano quando i figli avranno ottenuto quel benessere per il quale si lavora sodo.
Può accadere anche che il figlio accetti il modello sacrificante e lo faccia proprio. In questo caso troviamo figli che si impegnano molto nello studio o nella professione, che accantonano i divertimenti e le uscite con gli amici per aiutare i genitori o fare qualcosa di utile per la famiglia, adottando di fatto il modello che gli viene trasmesso.
I figli di queste famiglie possono sviluppare diverse problematiche psicologiche, sia di tipo sociale. Possono sviluppare difficoltà di inserimento e conseguente ritiro sociale, sia condotte violente e devianti, sia disturbi alimentari, depressione ed episodi psicotici (Nardone et al. 2012).
Come uscire dal modello sacrificante
Come spesso accade, sono proprio le azioni fatte con buone intenzioni che, reiterate nel tempo, mantengono il problema. Così anche per questi genitori, è importante capire che dare questo aiuto incondizionato attraverso il sacrificio non favorisce la realizzazione personale dei figli. Al contrario, può inibire completamente le loro capacità. “Lo faccio io per te” è la modalità di aiuto che molto spesso genera e alimenta dubbi sulle proprie abilità e disconferma le potenzialità nell’altro. Sentendosi deresponsabilizzato, il bambino può chiedere continue conferme o scoraggiarsi.
Bloccando al contrario questo atteggiamento sacrificante si dà al figlio la possibilità di realizzarsi e responsabilizzarsi, perché sollevato dal peso delle rinunce e delle fatiche che i genitori gli hanno addossato.
E’ fondamentale modificare in tal senso anche lo stile comunicativo e i messaggi che si trasmettono ai figli e disinnescare quel gioco di debiti e ricatti che si è instaurato nel tempo.
Se pensi di non riuscire a gestire da solo questo aspetto dell’essere genitori puoi rivolgerti a un professionista del One Session Center (clicca qui), con il quale trovare nuove strategie per uscire dai problemi che vivi in famiglia.
Riferimenti bibliografici
Bartoletti, A. (2013). Lo studente strategico: come risolvere rapidamente i problemi di studio. Ponte alle Grazie.
Nardone, G., Giannotti, E., & Rocchi, R. (2012). Modelli di famiglia. Ponte alle Grazie.
Thomas, G. (1994). Genitori efficaci. Ed. La Meridiana.
Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.
Come trovare il lavoro dei sogni
Esiste il lavoro dei sogni? Come fare a trovarlo?
I sogni sono degli obiettivi che hanno bisogno di essere concretizzati…
altrimenti rimangono sogni!
Alla ricerca del lavoro dei sogni
La ricerca di un lavoro, o meglio la ricerca del lavoro che risponde alle nostre aspirazioni, alle nostre passioni, è un obiettivo senza dubbio sfidante. Il suo raggiungimento necessita di un forte mix di motivazione, forza di volontà, autodeterminazione e, soprattutto, la capacità di gestire in maniera efficace un piano d’azione appositamente definito.
La strada per trovare il lavoro dei sogni è infatti un percorso lungo il quale possono incontrarsi ostacoli di vario genere e che potrebbero, in determinati momenti, far sprofondare la persona in uno stato di sconforto e di scarsa fiducia nelle proprie capacità di riuscita.
La ricerca del lavoro desiderato non è un percorso privo di ostacoli….
Pensiamo ai momenti inevitabili di stallo, a chiamate per colloqui che non arrivano o a colloqui che vanno in un modo diverso da quello che ci eravamo aspettati.
Tutto questo potrebbe facilmente portare la persona, che già sta vivendo un momento di vulnerabilità, a pensare che non ne valga la pena, che tanto le cose non cambieranno nonostante tutti gli sforzi possibili.
Il lavoro, oltre a garantirci una sicurezza economica, è anche e soprattutto una fonte di benessere e di equilibrio psicologico e sociale.
La sua mancanza, al contrario, incide profondamente sulla nostra autostima e sul senso di efficacia personale. Non riuscire a provvedere a sé stessi, o peggio ancora alla propria famiglia, possono alimentare l’insorgere di un senso di profonda inadeguatezza. Questo può alimentare credenze circa la propria incapacità, il fatto di essere dei buoni a nulla, degli/delle sfortunat/e o peggio ancora che non ci meritiamo nulla di buono.
Il tempo: una risorsa preziosa per trovare il proprio lavoro desiderato
Un aspetto che spesso si tende a sottovalutare è l’utilizzo della risorsa tempo. In realtà, la gestione efficace e produttiva della risorsa tempo diventa uno dei più importanti elementi di riuscita del proprio progetto professionale di ricerca del lavoro desiderato.
Come riuscire allora a rendere produttivo il proprio progetto professionale di ricerca del lavoro desiderato? Di seguito propongo alcune tips e approfondimenti utili per non lasciare nulla al caso, che ti aiuteranno a gestire efficacemente il tempo dedicato alla ricerca del lavoro desiderato.
Alcune tips utili per una ricerca efficiente ed efficace
- Chiarisci i tuoi valori professionali, il perché vuoi fare proprio quel lavoro, perché è importante per te.
- Definisci un obiettivo “ben formato”. Un obiettivo ben formato dovrebbe innanzitutto essere espresso in positivo (Voglio trovare il lavoro che desidero vs Non voglio più essere disoccupato), dovrebbe essere concreto (che lavoro voglio cercare? Quali caratteristiche deve avere?), essere realistico (in relazione alle mie possibilità e alle possibilità dell’ambiente di riferimento), essere ecologico (i costi non devono superare i benefici) ed infine, essere misurabile (ovvero è fondamentale stabilire una timeline di azione).
- Fai un’analisi delle tue competenze. Cosa hai fatto fino ad oggi, quali sono i tuoi punti di forza a livello di skills e quali sono invece le capacità che potresti migliorare per rendere più accattivante e più competitiva la tua presentazione.
- Stabilisci delle priorità. Quali sono per te, in questo momento, gli aspetti più importanti, quelli che per te sono un punto fermo nella ricerca di un lavoro (la retribuzione, l’area geografica, l’inquadramento professionale etc)?
- Lavora sul tuo atteggiamento che deve essere positivo, proattivo e orientato al risultato.
- Costruisci una strategia di comunicazione efficace e, in generale, allinea tutti gli strumenti di comunicazione (profili social, LinkedIn, Facebook…..lettera di presentazione)che devono essere coerenti, gradevoli, focalizzati e funzionali all’obiettivo.
- Definisci un piano d’azione e mettilo subito in pratica. La metodicità è un fattore molto importante che ha una forte influenza in percorsi come quello della ricerca del lavoro. Crea dei micro-obiettivi e cerca di perseguirli ogni giorno (questo ti aiuterà anche ad evitare la tendenza a procrastinare).
- Non buttarti a caso, la tua comunicazione deve essere sempre coerente e strategica rispetto al tuo obiettivo. Fai piuttosto un’analisi di mercato e seleziona i target che potrebbero essere potenzialmente in linea con il tuo profilo professionale.
- Lavora anche sul tuo network personale: vecchi amici e conoscenze (reali!) che possono contribuire con un utile apporto e con utili informazioni per la causa.
- Lavora sui momenti di tristezza e di scoramento: sono naturali ed inevitabili ma potrebbero essere la vera chiave del tuo cambiamento.
- Sii curioso/a di sperimentarti anche in qualcosa di alternativo/diverso dalle tue competenze: potresti riscoprirti appassionato/a e particolarmente bravo/a in qualcosa che mai avresti immaginato.
Hai bisogno di un aiuto in più?
In caso di necessità, puoi far riferimento anche ad un professionista del settore dell’orientamento professionale. Potrà supportarti con gli strumenti giusti, nella definizione del tuo obiettivo professionale e nella preparazione di un piano d’azione.
Bibliografia di riferimento
Tucciarelli, M. (2014), Coaching e sviluppo delle soft skills, Editrice La Scuola
Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile
Prendere una decisione con la Terapia a Seduta Singola
“Possano le tue scelte riflettere le tue speranze, non le tue paure”
Nelson Mandela
Quanto è difficile prendere una decisione?
Prendere una decisione nella propria vita, per alcune persone potrebbe essere un’esperienza stimolante e divertente: il solo fatto di avere di fronte un ventaglio di possibilità può stimolare la nostra curiosità e renderci entusiasti. In questo caso, la scelta viene fatta a cuor leggero, senza starci a pensare troppo su.
Per altre persone invece, prendere una decisione può essere qualcosa di estremamente pesante, difficile e stressante: orientarsi in un mare di possibilità potrebbe farci affondare in un baratro di incertezza, da cui può essere difficile emergere. Questo non solo quando si ha a che fare con scelte importanti (es. cambiare lavoro, comprare o no quella casa, perdonare o meno un torto subito…) ma anche le scelte apparentemente più semplici possono diventare motivo di forte angoscia. Si può andare in crisi per decidere che cosa indossare al mattino, cosa mettere in una valigia o ancora cosa ordinare al ristorante. Così facendo, in un battibaleno quello che avrebbe potuto essere un atto di libertà, può diventare la nostra peggiore prigione.
Ti riconosci in queste parole? Se stai affrontando male le tue prese di decisioni e non sai come venirne a capo, ti do una buona notizia: con la Terapia a Seduta Singola è possibile riuscire in una sola seduta a sbloccarti e aiutarti a vederci più chiaro. Se vuoi sapere come fare, continua la lettura di questo articolo!
Che cosa fa una persona incastrata nell’indecisione?
Ci sono diverse azioni che possono essere messe in atto nel tentativo di uscire dalla confusione che si prova, con la speranza di stare meglio e prendere la decisione che tanto cerchiamo. Spesso però proprio questi comportamenti diventano delle “trappole” che finiscono per ancorarci al problema, invece che aiutarci ad uscirne. Vediamone alcune:
- Chiedere aiuto ad altre persone e far decidere loro al posto nostro.
Diciamocelo: quando si è in crisi, spesso si sente il bisogno di andare da qualcuno di fidato a chiedere un consiglio, un aiuto nel prendere la propria decisione. Se siamo fortunati e possiamo effettivamente contare sul supporto di amici o parenti, senz’altro così avremo l’impressione di aver risolto quel problema. “Ok faccio così perché me lo ha detto X”. Questo aiuto chiesto e ottenuto, tuttavia, se ci pensiamo ci dà due messaggi contraddittori: il primo, è che gli altri ci vogliono bene e sono sempre pronti ad aiutarci. Ma il secondo, è che senza di loro effettivamente non possiamo farcela. - Arrovellarsi sul problema.
Avete mai visto un vortice? Fa impressione se ci pensiamo: è come una spirale infinita che si aggroviglia su se stessa e gira, gira, gira senza fine. E più gira, più sembra farsi più profonda, forte e nera. I pensieri, talvolta, possono prendere un po’ la stessa forma: invece di andare in una direzione, si aggrovigliano in un loop senza fine.
Nel prendere una decisione può apparire un misterioso compagno: il dubbio. Si presenta subdolamente sotto forma di una prima domanda, a cui ingenuamente diamo una risposta.
Ma la risposta, genera un’altra domanda e via così. Solitamente ci incastriamo a pensare che a suon di risposte, si darà un senso alle domande e tutto sarà chiaro. Ma se invece il problema non fossero le risposte, ma le domande? Siamo sicuri che tutte le domande possano effettivamente avere delle risposte? Ed esistono risposte intelligenti a domande stupide? (ps. lo vedi il vortice?) - Procrastinare. Quando proprio non riusciamo a prendere una decisione, un altro modo per provare ad uscirne è quello di rimandare la presa di decisione stessa: “Non lo so, ci pensiamo domani.” “Poi vediamo” “Oggi no, ma prima o poi lo faccio”.
Ti è mai capitato di reagire così di fronte ad una decisione da dover prendere? Anche qui, questo comportamento ci aiuta a sentirci meglio nell’immediato e abbassa la tensione interna, ma è destinato a durare poco: rimandare una presa di decisione non farà altro che ingigantirla sempre di più e il rischio è quello di restare bloccati senza avere il coraggio di affrontarla.
Che cosa possiamo fare di diverso, invece, per prendere una decisione?
Ti propongo un esperimento curioso ma che potrebbe aiutarti ad affrontare questa difficoltà. La prossima volta che devi prendere una decisione, scegli di affidarti ad una monetina.
Prendi una moneta tra le mani e osservala attentamente: scegli il significato da dare a ciascuno dei suoi lati (ad esempio: lato A: andare al mare; lato B: andare in montagna). Una volta fatto, mettila nel palmo della mano, chiudi le dita e con un gesto deciso lanciala in aria: guardala quando raggiunge il punto più alto e in quel momento pensa a cosa vorresti che uscisse. Raccogli poi la monetina e guarda da quale lato è caduta.
Potrai sorprenderti nello scoprire che:
- scegliendo i significati dei lati della monetina e affidando al caso la tua scelta, potrai sentire una maggiore chiarezza dentro di te su quello che realmente vuoi di più. Magari, sceglierai di non lanciare quella monetina, ma di essere finalmente tu a decidere.
- al momento del lancio, potresti sentire forte e chiara la speranza che esca proprio quello che desideri di più. Ascoltando le tue emozioni, capirai subito qual è la scelta davvero giusta per te.
- non proverai nulla di tutto questo, ma avrai comunque preso la decisione di affidare al caso la risoluzione del tuo dubbio. E così facendo, finalmente avrai una direzione da seguire.
Prova e fammi sapere nei commenti se questo esperimento ti è stato utile.
Nota bene: puoi provare a sperimentare questo metodo su scelte semplici di vita quotidiana; se ti trovi invece alle prese con una decisione davvero difficile per te e non riesci ad uscirne, puoi sempre chiedere una consulenza agli Psicologi di One session.it: puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
Jaffé, M. E., Reutner, L., & Greifeneder, R. (2019). Catalyzing decisions: How a coin flip strengthens affective reactions. PloS one, 14(8), e0220736. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0220736
Nardone, G., & De Santis, G. (2011). Cogito ergo soffro: Quando pensare troppo fa male. Ponte alle Grazie.
Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.
Smettere di procrastinare: i primi passi
Come smettere di procrastinare? In questo articolo scoprirai le principali paure che stanno alla base della procrastinazione, ma soprattutto troverai alcuni suggerimenti utili per iniziare a smettere!
“Mai rimandare a domani ciò che puoi fare benissimo dopodomani.”
“Lo faccio domani, ora mi rilasso un momento.”
“Devo prima pianificare nel dettaglio e poi lo farò.”
“È meglio farlo quando mi sentirò ispirato o dell’umore giusto.”
“Quando mi sentirò sicuro allora mi butterò.”
Ognuno di noi si sarà detto almeno una volta una di queste frasi, sperimentando di fatto la procrastinazione in qualche ambito della propria vita.
Tutti quanti rimandiamo spesso azioni o cose da fare, ma quando la procrastinazione diventa un’abitudine regolare, allora nascono problemi che possono compromettere la qualità della nostra vita. Scadenze mancate, bollette non pagate, la casa in disordine, progetti lasciati a metà. In realtà la procrastinazione può toccare non solo aspetti organizzativi, ma anche sfere più importanti della nostra vita. Ad esempio succede di rimandare anche il momento di dormire, magari continuando a guardare quella serie in tv o scorrendo il cellulare sui social e questo può influenzare la qualità del sonno. Si può procrastinare anche in amore, rimandando all’infinito una decisione da prendere o una conversazione da fare.
La procrastinazione inoltre può riguardare sia iniziare una nuova attività, sia proseguirla, sia concluderla.
Procrastinare è molto facile, ma ciò non vuol dire che sia sano e funzionale.
Questo problema può avere conseguenze di cui non siamo neanche consapevoli: forte stress, ansia, pensieri di autosvalutazione, senso di colpa, insonnia, difficoltà a concentrarsi e sensazione di essere sopraffatti.
Spesso ci sembra di essere pieni di impegni e occupati ma in realtà stiamo solo facendo le cose più facili, evitando di fare quelle più faticose ma che avrebbero esiti più importanti per noi. Altre volte non troviamo la motivazione ad iniziare una nuova attività programmata, altre ancora rincorriamo la condizione ideale per poterla fare. Il procrastinatore seriale è come uno scalatore che vorrebbe raggiungere la vetta della montagna ma con uno zaino pieno di sassi.
Perchè procrastiniamo?
Se davvero capita a tutti o quasi di rimandare dei compiti, come mai lo facciamo tanto spesso? E come mai ci succede non solo per le attività più noiose ma anche per quelle a cui teniamo di più?
In qualche modo procrastinare vuol dire auto-sabotarsi, darsi la zappa sui piedi, eppure è qualcosa più forte di noi. Il più delle volte infatti siamo consapevoli delle conseguenze a cui andremo incontro rimandando le nostre azioni, ma ci illudiamo di poterle affrontare in futuro.
Le paure alla base della procrastinazione
Alla base di questo comportamento disfunzionale ci possono essere diverse cause, che non ti permettono di smettere di procrastinare.
- La paura di fallire: la paura di non riuscire a raggiungere i propri obiettivi o di sbagliare è spesso legata a un’ansia da performance o al timore di non essere all’altezza, per cui si rimanda perché si è convinti di fallire.
- La paura del successo: alcune persone hanno paura di ottenere successi nella propria vita, a volte per paura delle conseguenze del successo, altre perché ritengono di non meritarselo, per questo motivo rimandano all’infinito attività in cui potrebbero vincere.
- Il perfezionismo: il perfezionista tende a rimandare perché vuole che il risultato sia perfetto e molto spesso non si sente mai pronto finché non trova la situazione ideale per affrontare un compito. I perfezionisti inoltre tendono a voler programmare nel dettaglio ogni attività, perdendosi nella fase organizzativa e non riuscendo ad andare oltre.
- Troppo carico di impegni: quando la mole di lavoro e di compiti è eccessiva, il nostro cervello finisce per chiederci time-out e ci dirotta su compiti di svago e di distrazione. In questi casi entrano in gioco sia la gestione del tempo sia l’equilibrio tra dovere e piacere.
- Mancanza di motivazione: se il compito che stiamo facendo non ci entusiasma, è difficile riuscire a mantenere la motivazione e ogni scusa sarà buona per rimandare ciò che non ci appassiona.
Ad ogni modo, si potrebbe riassumere che alla base della procrastinazione ci sia una forma di evitamento cronica, che da un lato ha lo scopo di non farci affrontare ciò che temiamo, dall’altra innesca un giudice interno che alimenta il senso di colpa e la sfiducia verso noi stessi. In realtà, dal punto di vista dell’esito non c’è differenza su quale sia la causa della procrastinazione, perché in tutti questi casi ciò che ne risente di più è la nostra capacità di prendere decisioni e di affrontare la realtà. Questo significa che se ci illudiamo di essere in grado di fare ciò che rimandiamo, ci rendiamo inermi e privi di spirito d’iniziativa di fronte al mondo (Nardone, 2013).
Piccoli passi per smettere di procrastinare
Vediamo quindi come fare per smettere di procrastinare.
Considerando che la paura evitata viene solo alimentata, la prima cosa da fare è iniziare a temere di rimandare. In tal senso può esserci d’aiuto immaginare quotidianamente gli effetti devastanti che il rimandare costantemente può avere sulla nostra vita. Spesso infatti visualizzare lo scenario peggiore che potrebbe verificarsi se continuiamo a rimandare è il modo migliore per smuoverci da quell’immobilismo e riappropriarci della nostra capacità decisionale.
Un altro primo passo per uscire dalla procrastinazione è l’utilizzo di liste. La pianificazione strategica (Leonardi e Tinacci, 2022) può essere utile soprattutto quando ciò che rimandiamo riguarda la gestione del tempo a livello organizzativo. Compilando ogni mattina una lista di attività da fare secondo un ordine di priorità o di tempo, potremo procedere con un’attività alla volta, senza passare alla successiva se non si è terminata quella prima.
Quando invece ci sentiamo sopraffatti dalla complessità del compito, può esserci utile suddividere il nostro obiettivo in piccole azioni e cominciare da quella più semplice fino a quella che pensavamo più complicata. La tecnica dei piccoli passi può essere utile anche quando non troviamo la motivazione e facciamo fatica a iniziare un nuovo compito. Il più delle volte basta cominciare e il resto vien da sé. In questi casi inoltre, dobbiamo focalizzarci sul progetto allargato e sull’obiettivo finale, per non perderci d’animo quando non troviamo più la spinta ad andare avanti.
Quando infine la procrastinazione ci porta a cercare distrazioni e svago, chiediamoci se la nostra vita sia piena solamente di doveri e regole. A volte concedendosi spazi di piacere per sé, programmando ad esempio attività ludiche o coltivando degli hobby personali potremmo sbloccare delle energie che possiamo poi incanalare anche nel lavoro o nello studio.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, gli psicologi di OneSession.it ti offrono la possibilità di prenotare un primo colloquio gratuito. Per prenotare il tuo incontro, puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti biblilografici
Leonardi, F., & Tinacci, F. (2022). Manuale di psicoterapia strategica: 80 tecniche di intervento. Edizioni Centro Studi Erickson.
Nardone, G. (2013). Psicotrappole. Ponte alle Grazie.
Milanese, R. (2020). L’ingannevole paura di non essere all’altezza: Strategie per riconoscere il proprio valore. Ponte alle Grazie.
Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.
Sentirsi sbagliati: tutti sembrano realizzati e io no!
Ti è mai capitato che attorno a te tutti sembrano realizzati, al punto da sentirti sbagliato/a?
“Cosa farai da grande?” è la domanda che ciascuno di noi si è sentito rivolgere almeno una volta nella vita.
A questa domanda, molto spesso, ci siamo sentiti in dovere di rispondere perché il non avere una risposta chiara e definitiva avrebbe significato avere qualcosa che non andava, perché tutti devono sapere cosa fare della propria vita, almeno da un certo momento in poi.
I percorsi formativi, d’altro canto, sono organizzati in modo tale da mettere una sorta di “data di scadenza” rispetto a quello che le persone possono diventare e realizzare arrivati ad un certo punto della propria vita. Ti vengono illustrate le possibili scelte, le possibili opzioni, e sta a quel punto a te decidere che strada prendere.
Il tempo in cui decidere cosa realizzare della propria vita non è uguale per tutti
La verità è che non tutti arrivano ad elaborare queste risposte nello stesso momento, con la spiacevole conseguenze che potremmo trovarci a fare delle scelte forzate che non “sentiamo nostre” .
Scelte che non tengono conto dei nostri valori e delle nostre vere motivazioni, e che con il tempo potrebbero farci sentire sbagliati, non al nostro posto.
Queste scelte possono portarci a viverci come costantemente indietro rispetto a chi intorno a noi prosegue dritto e spedito sul proprio percorso di realizzazione personale e professionale.
Per la propria realizzazione personale e professionale è indispensabile svolgere attività che abbiano per noi un significato
Per realizzare delle scelte che ci facciano davvero sentire bene e realizzati, è indispensabile conoscere noi stessi e le forze che guidano le nostre azioni. Non si tratta solo di capire cosa per noi è importante ma anche perché lo è, perché quell’attività ci fa stare bene e ci genera gratificazione.
Ovviamente non è scontato conoscere i propri perché o ciò che per noi ha un significato. Solo sperimentando è possibile capire se un ambito o una professione ci trasmettono quel senso, quel significato che cerchiamo e, allo stesso tempo, conoscere già i nostri perché può aiutarci a capire da dove cominciare a sperimentare.
Va benissimo avere solo un perché, ovvero solo una forza trainante che guida tutte le nostre azioni, va anche bene averne molteplici. Non dobbiamo obbligatoriamente ostinarci a ricondurre necessariamente tutta la nostra esistenza ad un unico perché, non c’è una regola (questo, per sfatare anche il mito “dell’unica vera vocazione” – una persona, infatti, potrebbe trarre soddisfazione dallo svolgere diverse attività o cambiare nel corso della vita).
Come individuare i tuoi perché?
Per aiutarti ad individuare i tuoi perché, e quindi tutte quelle attività che hanno per te un significato, un esercizio da cui partire potrebbe essere il seguente (tratto e riadattato dal testo di Wapnick “Diventa chi sei”):
- Ripensa ad una occasione in cui ti sei sentito/a veramente vivo, felice ed entusiasta. Cosa stavi facendo in quell’occasione? Cerca di trovare più dettagli possibili dedicando qualche minuto a questa attività
- Dopo aver risposto a questa prima domanda, prova a chiederti ora perché amavi fare quella cosa, cosa ti spingeva a farla.
- Ripeti questo esercizio per tutte quelle occasioni in cui ti sei sentito vivo ed appagato, non deve essere necessariamente una.
Un altro strumento indispensabile per la propria realizzazione professionale sono le àncore di carriera di Edgar Schein
Cosa sono le àncore di carriera e perché è cosi importante conoscerle per la propria realizzazione?
Perché esse rappresentano l’insieme delle nostre competenze, delle nostre motivazioni e valori: Schein, il padre di questo importante costrutto, le definisce come una sorta di immagine che si sviluppa dentro ognuno di noi e che ci aiuta, ci guida nel compiere scelte, nel prendere decisioni, che sono nel nostro interesse e non nell’interesse di altri.
Non conoscere le proprie àncore rischia di esporci a scelte, a soluzioni che con il tempo potrebbero rivelarsi insoddisfacenti, semplicemente perché non ci rappresentano.
Schein ha individuato 8 àncore di carriera supportate da un questionario di autovalutazione, che non vuole rappresentare un test diagnostico quanto piuttosto un modo efficace per descrivere se stessi in un determinato momento di vita, per aiutare a capire e conoscere le proprie priorità e quindi compiere delle scelte professionali quanto più soddisfacenti possibile.
- Prima àncora: la competenza tecnico-funzionale
Le persone ancorate a questa competenza sono più attratte dalla specializzazione tecnica che dai contenuti gestionali del lavoro.
- Seconda àncora: la competenza manageriale generale
Quest’àncora motiva le persone che cercano la responsabilità, la possibilità di influire mediante decisioni, l’ascesa nella struttura aziendale. Vogliono essere responsabili, nel bene e nel male, dei risultati e identificano il proprio lavoro con il successo dell’organizzazione per la quale lavorano.
- Terza àncora: l’autonomia/indipendenza
Questa àncora caratterizza le persone che non possono rinunciare alla possibilità di definire il proprio lavoro in modo autonomo. Nonostante esistano alcune posizioni all’interno delle organizzazioni che permettono in una certa misura questa libertà, la maggior parte delle persone con quest’àncora sceglie lavori autonomi.
- Quarta àncora: la sicurezza/stabilità
Le persone motivate da quest’àncora non possono rinunciare alla sicurezza di un impiego e alla relativa posizione all’interno dell’organizzazione. In altre parole, sono alla ricerca del cosiddetto “posto fisso”.
- Quinta àncora: la creatività imprenditoriale
Le persone che ottengono il punteggio più elevato a questa àncora generalmente non riescono a rinunciare all’idea di poter creare un’impresa, un progetto proprio, costruito con le proprie forze e risorse, accettando di assumersi anche tutti i rischi del caso.
- Sesta àncora: il servizio/dedizione alla causa
Le persone che raggiungono il punteggio più alto a quest’àncora non possono rinunciare a servire/dedicarsi ad una buona causa attraverso il lavoro che svolgono.
- Settima àncora: la sfida/paura
Le persone motivate da quest’àncora non possono rinunciare alla possibilità di misurarsi con sfide impossibili, situazioni avverse che sembrano insuperabili. Generalmente queste persone quando accettano una posizione è perché in questa vedono la possibilità di misurarsi con problemi e sfide complesse, sia di natura intellettuale che fisica.
- Ottava àncora: lo stile di vita
Le persone che ottengono il punteggio più alto a questa àncora non possono rinunciare a trovare un equilibrio tra bisogni personali, famigliari e di carriera. Generalmente sono orientate verso opportunità professionali che offrano una certa flessibilità cosi da poter trovare più facilmente questo equilibrio e questa integrazione tra i diversi ambiti di vita.
Il ruolo dell’orientamento professionale: una risorsa indispensabile
Negli ultimi anni, soprattutto di fronte ai repentini cambiamenti nel mondo del lavoro, l’orientamento sta diventando sempre di più un supporto indispensabile per accompagnare le persone nei momenti di scelta, di cambiamento, tanto in ambito formativo che lavorativo.
L’orientamento si configura come un vero e proprio percorso di conoscenza e scoperta individuale, in grado di guidare la persona verso scelte consapevoli e quanto più soddisfacenti, prestando particolare attenzione:
- all’individuazione e all’attivazione delle capacità e potenzialità personali;
- all’analisi delle motivazioni, desideri e aspirazioni personali e professionali;
- all’analisi dell’ esperienza formativa e professionale;
- per finire con l’elaborazione di un vero e proprio progetto di vita personale e professionale.
Se senti il bisogno di un aiuto in più per capire quale strada personale e professionale intraprendere, gli psicologi di OneSession.it ti offrono la possibilità di prenotare un primo colloquio gratuito. Per prenotare il tuo incontro, puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
Schein, E.H., Van Maanen,J. (2019, trad.it.), Le àncore di carriera, Giorgio Pozzi Editore.
Wapnick, Emilie, (2018, trad.it.), Diventa di chi sei, MGMT Edizioni.
Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile
Ansia: i primi passi da compiere per gestirla
L’ansia non ci sottrae il dolore di domani, ma ci priva della felicità di oggi. Leo Buscaglia
In questo articolo andremo a vedere quali sono i primi passi che puoi iniziare a compiere per gestire l’ansia. Ma prima…
Si fa presto a dire ansia!
L’ansia è forse uno dei termini psicologici più utilizzati nel linguaggio comune.
Chi di noi non ha mai sentito un amico o un parente dire di sentirsi “un po’ ansioso?”.
Questo perché l’ansia fa parte della nostra vita, è di fatto un meccanismo utile e potenzialmente funzionale per la nostra sopravvivenza. Questa parola però a volte viene utilizzata in modo improprio, come “un’etichetta” per provare a dare senso a una gamma di reazioni spiacevoli che sentiamo ma a cui non sappiamo dare un senso. Ed è un attimo che ci sentiamo tutti delle “persone ansiose”.
Riuscire a capire effettivamente che cosa sia l’ansia, come si manifesta e che cosa possiamo fare per iniziare a gestirla quando diventa invalidante può risultare una bella sfida.
In questo articolo proverò a fare chiarezza su questo argomento e a darti alcune indicazioni utili per muovere i primi passi per affrontarla, cominciando con il capire di che cosa stiamo parlando.
Che cos’è l’ansia?
Alcune persone tendono a confondere la paura con l’ansia: la prima, è l’emozione di base che abbiamo di fronte ad uno stimolo definito e specifico, percepito come pericoloso per la nostra incolumità. La paura solitamente, quando lo stimolo minaccioso viene meno, scompare.
L’ansia invece potremmo descriverla come “la paura della paura”: si tratta di una costellazione di reazioni anticipatorie rispetto a qualcosa che potrebbe accadere. Si può manifestare con diverse reazioni psicofisiologiche: a livello di pensiero, emozione e sensazioni fisiche.
Nella sfera cognitiva, potremmo avere un senso di vuoto e confusione mentale, pensieri pervasivi di forte preoccupazione sul passato, il presente o il futuro (che possono presentarsi anche sotto forma di immagini e ricordi). A livello emotivo potremmo sperimentare forte angoscia, smarrimento, sofferenza. Per quanto riguarda le sensazioni fisiche invece, potremmo provare tensione muscolare negli arti inferiori, superiori o su collo e schiena, palpitazioni, sensazione di fiato corto, dolori addominali o intestinali fino ad avere veri e propri crampi e nausea. Si possono inoltre verificare anche tremori, vertigini e forte sudorazione.
Tutte queste sue manifestazioni, possono essere funzionali per preparare il corpo ad attivarsi per fronteggiare il pericolo imminente con 3 possibili reazioni comportamentali: la fuga, l’attacco o il freezing (che in natura spesso anche gli animali mettono in atto “paralizzandosi” come per fingersi morti e scampare così il pericolo).
L’ansia quindi, ci può difendere di fatto da ciò che ci minaccia, dandoci la possibilità di reagire.
Quando l’ansia diventa un problema?
L’ansia può diventare un problema quando si verifica in modo eccessivo ed immotivato e se diventa pervasiva per la vita di chi la prova. Può condizionare talmente tanto la nostra vita da non permetterci più di funzionare bene nella nostra sfera personale, lavorativa e sociale. Questa è la differenza tra provare saltuariamente e in casi specifici una sana ansia (reazione naturale a scopo difensivo) e soffrire invece di un disturbo d’ansia (inappropriato, ricorrente e limitante).
Che cosa fa una persona quando soffre d’ansia?
Ci sono diverse azioni che le persone provano a mettere in atto spontaneamente quando iniziano a soffrire d’ansia. Sono tentativi fatti per cercare di risolvere e controllare il problema, cercando di liberarsene. Purtroppo però a volte, è proprio quello che facciamo per far andare via l’ansia che la fa peggiorare. Vediamo insieme alcuni esempi e i primi passi che possiamo fare per risolvere questo problema.
L’evitamento
Se qualcosa ci mette ansia, una delle prime cose che ci viene da fare è evitarla.
Prova a pensare di provare fortissima angoscia alla sola idea di dover parlare in pubblico: potresti pensare che smettere di farlo ti metterà al sicuro. Così facendo però, a lungo andare potresti rinunciare ad alcune occasioni importanti lavorative o sociali. La tua soluzione, invece di aiutarti, potrebbe diventare per te un altro problema.
Parlare del problema e chiedere aiuto ad amici/parenti.
Un disturbo d’ansia è come un fiume che ci invade fino ad esondare ed invadere tutta la nostra vita. Può essere frequente quindi cedere all’impulso di lasciarglielo fare, condividendo con le persone che ci circondano il nostro malessere parlandone in continuazione. Se all’inizio sfogarci può farci sentire meglio, a lungo andare potrebbe ingigantire il problema. Più ne parliamo infatti, più ci concentriamo sui suoi aspetti negativi, su quanto siamo infelici/sofferenti e togliamo spazio invece agli aspetti belli della nostra vita. Così facendo, finiamo per dare all’ansia molto più potere di quanto già ne abbia.
Inoltre, le persone che ci stanno intorno potrebbero non apprezzare più così tanto la nostra compagnia, in quanto sentirsi invadere dall’ansia altrui, non è affatto piacevole.
Cercare di controllarla.
L’ansia, come abbiamo detto, è una reazione di per sé naturale. Provare a reprimerla razionalmente, cercando di controllarne le reazioni psicofisiologiche, paradossalmente potrebbe farla peggiorare. Se ad esempio abbiamo le palpitazioni, provare a concentrarsi sul proprio battito e imporsi di rallentarlo, non farà altro che aumentare la nostra tensione, amplificandolo. Non riuscire nel controllo, ci fa sentire di aver perso ancor di più il controllo. E questo è come gettare una miccia accesa in un pagliaio.
I primi passi per gestire l’ansia: passo uno
Un primo passo per iniziare a gestire l’ansia, è innanzitutto capire nel tuo caso specifico di cosa stiamo parlando. Inizia a disegnare un vero e proprio identikit della tua ansia, ragionando su quello che provi nei 3 assi di cui ho parlato in questo articolo: pensiero, emozione e sensazione.
Passo due
Come secondo passo, cerca di riflettere anche su quando, dove, con chi e quanto frequentemente si verifica. Questo processo è di per sé già molto utile per circoscriverla e capire come affrontarla concretamente. Spesso noi stessi rendiamo più grandi i nostri problemi di quanto siano effettivamente. Potremmo invece scoprire che non soffriamo “sempre” di ansia, ma solo in alcuni contesti. Questo già potrebbe farci sentire meglio, non pensi?
Passo 3
Come terzo passo, prova a individuare che cosa fai solitamente per cercare di affrontare l’ansia e chiediti se sta funzionando bene per te. Se la risposta è no, ti faccio i miei complimenti: intanto, sei riuscit* a capire che cosa sta mantenendo il problema. A questo punto, potresti provare a interrompere quel comportamento e vedere se succede qualcosa di diverso (ad esempio, piuttosto che parlare dell’ansia con amici e parenti, prova a scrivere di getto tutto quello che provi su un pezzo di carta e a gettarlo via senza neanche rileggerlo, per lasciar defluire il fiume dell’ansia senza invadere la tua vita privata).
Se questi passi non fossero sufficienti per te, ricordati che con la consulenza a seduta singola è possibile individuare in una sola seduta delle strategie concrete per fronteggiare l’ansia.
Gli psicologi di OneSession.it ti offrono la possibilità di prenotare un primo colloquio gratuito per uscire da questo problema. Per prenotare il tuo incontro, puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Bibliografia
Secci, E. M. (2005). Le Tattiche del Cambiamento. Manuale di Psicoterapia Strategica.
Leonardi, F., & Tinacci, F. (2021). Manuale di Psicoterapia Strategica. 80 tecniche di intervento. Erickson.
Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.
Come creare dei buoni propositi che funzionino
Quando arrivano i buoni propositi?
Ogni anno all’arrivo del fatidico “10…9…8”, prima della mezzanotte dell’ultimo giorno dell’anno, si pensa a tutto ciò che abbiamo fatto nei 365 giorni appena trascorsi. Ci prepariamo alla lista dei buoni propositi che butteremo giù nei primi giorni del nuovo anno.
Scrivo nel penultimo giorno di un anno che ci ha visti protagonisti di moltissimi eventi. Il passaggio da pandemia da Covid-19 a endemia, la guerra in Ucraina, la morte della Regina Elisabetta dopo 70 anni di regno, la vittoria della Francia ai mondiali di calcio del Qatar, l’elezione del primo Presidente del Consiglio donna nel nostro Paese, la scoperta del Metaverso che segna l’inizio del secondo tempo di facebook.
Con il nuovo anno arriva inesorabile anche il desiderio di cambiare qualcosa nella nostra vita.
È come se ci sentissimo più motivati e pronti al cambiamento.
Più aperti alle novità.
Più desiderosi di nuovi o ambiziosi progetti sui quali concentrare le nostre energie e forze.
Può trattarsi anche di obiettivi piccoli ma per noi importanti. Migliorare il nostro stile di vita, le relazioni o la condizione professionale.
Alzi la mano chi non ha mai detto: “Quest’anno mi iscrivo in palestra…”, “Quest’anno voglio viaggiare di più…”, “Quest’anno smetterò di fumare…” e così via.
Alzi la mano chi non ha mai compilato la sua lista di buoni propositi a inizio anno. Si tratta quasi di una tradizione che, a livello psicologico, rappresenta una vera e propria rinascita. Migliorare aree della nostra vita, abbandonare delle abitudini, dare il via a tutte quelle cose che sono state a lungo rimandate.
Spesso però la cosa più difficile non è crearli i buoni propositi, bensì mantenerli nel tempo.
Abramo Lincoln disse: “Il modo migliore per predire il tuo futuro è crearlo”. E lui lo creò, desiderando e attuando l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti nel 1865.
Il significato psicologico dei buoni propositi
Quando un nuovo periodo si avvia, sentiamo la possibilità di far nascere altre opportunità, di curare le imperfezioni e gli errori che ci hanno accompagnato o visti protagonisti nel nostro passato.
Il lunedì, l’arrivo della primavera, l’ingresso della stagione autunnale, l’inizio del nuovo anno sono di solito momenti iconici. Periodi ideali per riflettere, fare bilanci, lanciarsi in nuovi progetti.
Quando fissiamo dei nuovi propositi è come se ci vedessimo riconosciuta una seconda possibilità, la possibilità di voltare pagina. È come se ci venisse dato in dotazione dell’altro tempo per fissare i nostri traguardi. Questo ci consente di prepararci agli eventi futuri e avere un piano B in caso di imprevisti o fallimenti.
In noi c’è un innato bisogno a progredire, ad andare avanti. I buoni propositi ci permettono di salvaguardare la nostra esistenza e di guardare e ambire ad una versione migliore di noi stessi.
I buoni propositi (se buone sono le loro prerogative e dopo lo vedremo!) ci permettono di coltivare la nostra motivazione al cambiamento.
Ci aiutano a prendere il controllo della nostra vita attraverso l’attuazione di piccoli gesti.
Ci portano a nutrire maggiore fiducia in noi stessi quando sentiamo di aver raggiunto e realizzato il nostro obiettivo.
Soprattutto rappresentano la capacità di individuare nuove strategie, finalizzate a mantenere o migliorare la nostra condizione.
I buoni propositi sono in realtà i nostri desideri.
Definirli può avere un grande impatto sia sul nostro comportamento che sul nostro stato d’animo perché iniziare a pensare significa attivarsi.
Ci invitano a migliorare, a creare nuove sfide. Costruirli significa avanzare e ampliare ciò che sappiamo e siamo.
Quando la nostra mente immagina uno scopo da raggiungere in maniera positiva e orientato al nostro benessere, si attiva mettendo in atto tutte le risorse necessarie.
Perchè falliscono i buoni propositi?
La magia dei buoni propositi spesso però fallisce miseramente.
La difficoltà a perseguire intenzioni che vanno nella direzione del cambiamento è cosa comune e ci pone dinanzi diversi interrogativi.
Fissiamo i buoni propositi nel momento giusto per noi?
Ci appartengono davvero?
Li formuliamo in maniera specifica, realistica e non generica?
Cerchiamo di tradurre un obiettivo generico, ad esempio “Quest’anno cambio vita…”, in azioni concrete e quotidiane?
Cerchiamo di attuarli con un certo metodo?
Teniamo conto davvero delle nostre capacità e dei nostri mezzi?
I buoni propositi vanno adeguati sempre al proprio quotidiano.
Vanno fissati alla propria realtà e trasformati, passando per prove, fallimenti e successi, in consuetudini e azioni nuove e praticabili.
Una volta definiti, i buoni propositi, vanno osservati per capire cosa ci dicono di noi e dell’immagine che abbiamo di noi, della direzione che vogliamo intraprendere e della nostra capacità di “stare con i piedi per terra”.
Darsi un tempo poi ci permette di verificare passo dopo passo i nostri progressi e di aggiustare il tiro in corso d’opera. Questo significa che segnare nella mia agenda sensoriale un inizio e una fine per il raggiungimento di un obiettivo, mi permetterà di verificarne i risultati intermedi e rafforzare così autostima e motivazione oppure decidere di cambiare strategia di attuazione o addirittura l’obiettivo stesso.
Realistico. Misurabile. Raggiungibile. Un buon proposito dovrebbe essere questo.
Quando un obiettivo è poco definito, perché magari descrive un’aspirazione generica, “Vorrei stare bene…”, “Vorrei essere felice…”, è necessario trasformarlo in azioni concrete.
Questo richiede consapevolezza e buona conoscenza di sé e dei propri meccanismi sia interiori che esteriori. Ma soprattutto ci può dare la possibilità di vedere realizzato qualcosa della nostra lista.
E tu hai segnato già i tuoi buoni propositi?
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Riferimenti bibliografici
https://www.flaviocannistra.it/2019/03/27/come-creare-obiettivi-smart-in-terapia-breve/
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
Come imparare dagli errori
Cos’è un errore? Come possiamo imparare dagli errori?
In questo articolo cercheremo di capire significati e valori degli errori.
Significati
“Errare humanum est”, dicevano gli antichi.
Sbagliare fa parte della natura umana, gli errori sono parte integrante delle esperienze di vita.
Siamo esseri fallibili e come tali è sano poter convivere con l’idea di commettere delle imprecisioni che potrebbero portare ad esiti non sempre felici da accogliere.
Il nostro cervello si è evoluto per sbagliare.
“Sbagliando si impara” non è solo un proverbio: il nostro cervello da quando nasciamo è strutturato per fare degli errori e apprendere da essi.
Se osserviamo i processi di apprendimento di un bambino che si applica per andare in bicicletta è possibile notare i numerosi tentativi per trovare il giusto equilibrio.
Le cadute e gli sbandamenti fanno parte del processo di crescita.
Gli errori non rappresentano solo un pericolo ma anche un’opportunità.
Essi ci permettono di sperimentare, di esplorare diverse possibilità per individuare il percorso migliore o la scelta più confacente.
L’errore certamente può avere conseguenze disastrose, negative, se agire con prudenza è necessario per prevenire i rischi, lasciare che la paura di sbagliare ci blocchi è molto rischioso.
Carl Jung diceva “Chi evita l’errore elude la vita”, evitare di sbagliare è impossibile, il primo passo è cominciare a fare pace con la nostra fallibilità.
Il valore dell’errore
Per imparare dagli errori bisogna cominciare a riconoscerli.
Molto spesso si fatica a vederli, osservarli poiché si genera dissonanza cognitiva, cioè uno stato di tensione psicologica ed emotiva dovuto al presentarsi di due pensieri in contrasto fra loro.
Ammettere un errore entra in conflitto con la nostra autostima.
Talvolta attribuiamo ad altri i comportamenti poco corretti piuttosto che ammettere di aver sbagliato.
Tendiamo a ripetere un comportamento che una volta si è dimostrato vantaggioso senza renderci conto che la situazione e il contesto si sono modificati.
La rigidità di pensiero e l’applicazione stabile e fissa di alcune nostre convinzioni ci fanno sbagliare.
Lo psicologo austriaco Paul Watzlawich chiamava questi comportamenti “tentate soluzioni”.
Siamo talmente convinti che ciò che facciamo sia giusto che continuiamo a ripeterlo.
Spostare il punto di vista e accettare i propri limiti è il secondo passo che possiamo attuare per migliorarci ed evolvere.
Per fare questo dobbiamo osservaci con più attenzione.
Strategie in pratica
Partendo dal presupposto che l’errore è utile e ci fa progredire, proviamo ad allenare un pensiero che ci possa condurre ad una visione più costruttiva di ciò che ci può apparire come insuperabile.
Ammettere di aver sbagliato è un importante atto di coraggio e richiede molta apertura mentale e rispetto verso se stessi.
Dedicarsi del tempo per riflettere sulle circostanze e comportamenti praticati è una buona e sana abitudine che ci consente di entrare più in vicinanza con noi stessi, dobbiamo essere complici non punitivi verso i nostri difetti.
Prendere la giusta distanza da ciò che ci preoccupa e ci turba è un aspetto rilevante poiché il rischio è quello di essere inghiottiti da ciò che vediamo poco funzionale ed influisce negativamente sui pensieri orientati alla soluzione.
Investiamo le nostre energie mentali per pensare a ciò che può essere recuperato piuttosto che rimuginare e attirare a noi pensieri dannosi.
Essere coerenti aiuta ad avere un equilibrio fra pensieri e comportamenti, impariamo ad osservare causa e conseguenze di ciò che ci accade e confrontiamoci con altri per condividere idee e pensieri.
Confidarsi con chi non giudica offre opportunità di cambiamento.
Uscire dal perfezionismo è un ulteriore passo necessario per liberarsi dall’idea che lo sbaglio in qualche modo non è consentito.
Qualunque imperfezione è inaccettabile.
Spesso il perfezionismo rappresenta un bisogno di estremo controllo, si cerca di controllare emozioni, pensieri, comportamenti e le performance.
Un atteggiamento più flessibile, pensare in modo meno rigido e prendere in considerazione una vasta gamma di interpretazioni possibili all’errore aiuteranno a gestire meglio emozioni e comportamenti.
Pensare alle risorse, in termini di ciò che si è fatto in passato e che ha funzionato aiuta a sostituire i pensieri improntanti al problema o al fallimento.
Le energie vanno concentrate per motivazione e raggiungimento dell’obiettivo, una buona pianificazione può ridurre gli errori e aiuta a prevenire gli imprevisti.
Imparare ad osservare è una buona abitudine.
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Riferimenti bibliografici
https://psiche.santagostino.it (consultato in data26/09/2022)
https://www.crescita-personale.it/articoli/crescita-personale/psicologia/errore-psicologia.html (consultato in data 26/09/2022)
https://www.lostudiodellopsicologo.it/ (consultato in data 26/09/2022)
Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262
Quando basta una sola seduta per risolvere un problema
Quando basta una sola seduta per risolvere un problema?
O meglio, può davvero bastare una sola seduta per risolvere un problema?
È molto diffusa l’idea che, dato che ci sono voluti anni per creare i nostri problemi, servono altrettanti anni per risolverli.
Questo in realtà non è affatto vero!
Per esempio ci vogliono anni a costruire una diga, ma una breccia nel punto giusto può farla crollare in qualche ora e modificare in maniera sostanziale e definitiva tutto l’ambiente circostante!
E potrei farvi molti altri esempi a questo riguardo!
Quindi cosa fa la differenza e quando basta una sola seduta per risolvere un problema?
Sono molti i fattori che possono influire sulla riuscita o meno di una sola seduta anche perché, ci tengo a sottolinearlo, non è detto che basti una sola seduta.
Anzi spesso terapeuta e paziente scoprono solo alla fine della seduta stessa se questa può essere considerata soddisfacente oppure no.
La Terapia a Seduta Singola non è efficace perché è breve, ma è breve proprio perché è efficace.
In particolare si è dimostrata utile perché:
- La persona riesce a focalizzare in maniera chiara e semplice il problema e lo trasforma in un obiettivo concreto e raggiungibile.
- Una volta messo a fuoco il problema, spesso la persone realizza che la sua situazione è risolvibile e non richiede un tempo lungo per essere risolta.
- Allo stesso modo, identificando le proprie risorse e le eccezioni al problema, ossia le volte in cui spontaneamente il problema non si presenta, spesso la persona scopre che con un cambiamento piccolo si può innescare un circolo virtuoso che porta al superamento della difficoltà stessa.
Ma cosa ci dice la ricerca?
Negli anni ’80, Moshe Talmon si rese conto che un gran numero di pazienti del Kaiser Permanente, la struttura ospedaliera presso cui lavorava, si presentava per una sola seduta di psicoterapia per poi non tornare più.
Iniziò quindi a chiamare 200 pazienti della struttura chiedendogli il motivo della fine del proprio percorso e scoprì con stupore che il 78% di quei pazienti non veniva più perché, semplicemente, riteneva quell’unica seduta sufficiente.
Gli studi che si sono susseguiti poi nel tempo ci hanno portato a tre consapevolezze:
- Quando viene proposta il 30/40% delle persone pensa che una sola seduta possa essere sufficiente. La differenza la fa il sentire di quella persona in quel momento, non il problema. Per questo ci possono essere persone diverse, in momenti diversi della loro vita, che per lo stesso problema hanno bisogno di una sola seduta oppure richiederne di più.
- il 60/80% di queste persone, ricontattate dopo mesi, conferma che il problema non c’è più o che comunque si è ridotto di molto e che quindi non ritiene di aver bisogno di fare altre sedute.
- Solo alla fine della seduta la persona sarà in grado di dire se quella seduta è sufficiente o meno. E comunque, per la natura stessa della Terapia a Seduta Singola, qualora dopo tempo dalla seduta la persona sentisse di aver bisogno di un altro incontro, basterà semplicemente ricontattare il terapeuta e fissare un nuovo incontro.
In concreto quando può essere utile fare una sola seduta?
Sono molti i motivi che possono portarti a richiedere una singola seduta.
Vediamone alcuni.
1- Per risolvere un problema.
A volte, in questi casi, ciò che serve è semplicemente iniziare a fare il primo passo. E’ in queste situazioni che la Terapia a Seduta Singola mostra tutta la sua efficacia.
2- Per trovare le strategie per risolvere un problema.
Andare dallo psicologo spesso non significa ammettere di non farcela da sola. Anzi, vuol dire andare alla ricerca delle strategie più efficaci per poter risolvere i propri problemi e poi utilizzarle in autonomia.
3- Per cercare un confronto.
Per la sua formazione e il suo mindset lo psicologo è preparato ad essere un confronto oggettivo e, allo stesso tempo, aperto nei confronti della persona.
Questo lo porta ad avere la capacità di guidare la persona da un lato a scoprire le proprie risorse e, dall’altro, a vedere le situazioni da punti di vista diversi così da trovare la strategia più efficace per ognuno.
4- Per gestire un’emergenza o una crisi.
Spesso nel momento più acuto di un’esperienza ci si può sentire sopraffatti.
Per questo può essere utile ricorrere ad uno specialista. Può essere uno sfogo o la ricerca di un confronto, un momento di ascolto o la ricerca di strategie per superare la crisi.
5- Avviare o consolidare un cambiamento.
A volte nel mezzo del cammino ci si può sentire disorientati. In questi casi confrontarsi con un professionista può aiutare a comprendere il proprio percorso ed eventualmente aggiustare la rotta.
Conclusioni
Fare una Terapia a Seduta Singola non vuol dire fare per forza una sola seduta. Vuol dire massimizzare l’efficacia di quest’ultima e spesso questo porta le persone a sentirsi soddisfatte anche dopo un solo incontro.
O anche no.
Perché non c’è una regola fissa, ma solo il vissuto della persona e i propri bisogni contestuali.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, contatta OneSession!
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
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Riferimenti bibliografici
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Firenze: Giunti.
Hoyt, M.F. & Talmon, M. (eds.) (2014). Capturing the Moment. Single Session Therapy and Walk-In Services. Bancyfelin, UK: Crown House