Ortoressia: l’ossessione per il cibo sano
L’ortoressia è l’ossessione per il cibo sano.
La parola Ortoressia deriva dal greco Orthos (giusto) e Orexis (appetito).
Bratman nel 1997, fu il primo a coniarne il termine.
Secondo i dati diffusi in Italia dal Ministero della Salute, le persone con ortoressia sarebbero 300 mila, a fronte di 3 milioni di pazienti con disturbi del comportamento alimentare.
Tale disturbo ha una prevalenza del 11.3% tra gli uomini contro un 3.9% tra le donne (Donini e coll. 2004).
Tale fenomeno di genere è possibile rintracciarlo nelle ideologie culturali maschili legate alla forma fisica, in comorbilità con la Vigoressia, ossia la preoccupazione cronica di non avere un corpo sufficientemente muscoloso.
Come riconoscere l’ortoressia
- Ruminazione ossessiva sul cibo, cioè il pensare per piu di 3-4 ore al giorno a quali cibi salutari scegliere;
- Comportamenti ossessivi: la persona ortoressica pone estrema attenzione alla selezione, ricerca, preparazione ed il consumo degli alimenti; attenzione alla provenienza e alla modalità con cui viene lavorato il cibo scelto. Molto spesso il soggetto ortoressico sceglie di coltivare e produrre da solo il cibo, in modo tale da poterne seguire il processo.
- Insoddisfazione affettiva e isolamento sociale è causa di regole alimentari autoimposte molto rigide e di una persistente preoccupazione verso il cibo (Brytek-Matera, 2012).
Il non prestare particolare attenzione alle suddette regole, può innescare nella persona ortoressica conseguenze emotive importanti: sensi di colpa (ansia crescente), rabbia, umore depresso, sino alla comparsa di disturbi fisici (indigestioni, nausea, vomito).
Di contro, la riuscita nel osservare le regole alimentari, comporta elevati livelli di autostima e un livello elevato di soddisfazione emotiva.
L’isolamento sociale è causato dalla mancanza, da parte della persona ortoressica, di momenti di condivisione delle proprie abitudini con soggetti terzi.
Esse evitano eventi sociali come pranzi, aperitivi, ricevimenti. Tali occasioni si possono trasformare in un vero e proprio campo minato.
L’attenzione alla qualità del cibo prevale sui valori morali e sulle relazioni sociali, lavorative ed affettive, compromettendo il funzionamento globale e il benessere dell’individuo (Brytek-Matera, 2012).
Il paradosso dell’ortoressia
La persona ortoressica, accecata dal controllo e dalla ricerca ossessiva del cibo sano per il raggiungimento del proprio stato di benessere, si illude, che la propria salute ed il proprio benessere dipendano dal cibo.
Tale comportamento, si riflette poi su tutta la sfera personale del soggetto esercitandone pieno controllo.
L’ortoressico: fanatismo alimentare?
Coinvolta in un complesso di superiorità, la persona ortoressica, arriva a disprezzare tutti coloro che non mangiano sano.
Persone poco degne di essere frequentate e soprattutto ritenute poco intelligenti.
Questo fanatismo sembra essere basato su una conoscenza superficiale e semplicistica delle regole alimentari corrette.
Il soggetto con spiccato fanatismo alimentare non ricerca il confronto con professionisti del settore, né tanto meno si trova a supportarne l’operato.
Un trattamento efficacie contro l’Ortoressia è possibile?
Sebbene l’Ortoressia sia una patologia meno conosciuta e compresa nel panorama odierno dei disturbi del comportamento alimentare, essa è in realtà una forma di alimentazione irregolare che, se non curata, può causare difficoltà di salute irreversibili.
Le persone ortoressiche convinte del loro pensiero, non mostrano interesse alcuno nel impegnarsi attivamente nel percorso di trattamento, non riconoscendone un reale problema.
Una possibilità di trattamento, è andare a lavorare sulle emozioni, (dalla paura della contaminazione alla malattia che genera una vera e propria ossessione), il condurre la persona a riappropriarsi di una corretta percezione del proprio corpo.
L’obiettivo del trattamento sarà quello di ristabilire una relazione sana con il cibo, tale per cui la persona non veda più il cibo come fonte di malessere, ma piuttosto fonte di energia e piacere!
Fondamentale sarà durante il trattamento, la collaborazione con un’équipe multidisciplinare: psicoterapeuti, medici, nutrizionisti.
Lavoro che dovrà trovare supporto congiunto efficace ed efficiente nella famiglia della persona ortoressica.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, contatta OneSession!
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare le nostre pagine Facebook e Instagram
Riferimenti bibliografici
Bratman S., Knight D. (2000). Health food junkies. New York: Broadway Books
Brytek-Matera, A. (2012). Orthorexia nervosa-An eating disorder, obsessive- compulsive disorder or disturbed eating habit? Archives of Psychiatry and Psychotherapy, 4(1), 55-60
Donini, L.M., Marsili, D., Graziani, M.P., Imbriale, M., e Cannella, C. (2004). Orthorexianervosa: A preliminary study with a proposal for diagnosis and an attempt to measure the dimension of the phenomenon. Eating and weight disorders, 9, 151–1
Psicologa clinica e della riabilitazione, psicoterapeuta in formazione. Ho conseguito un Master in psicodiagnostica clinica e forense. Lavoro come libera professionista e collaboro con un centro di psicologia( Alternativamente) nella provincia di Roma. Sono mamma di tre bambini.
Lo stile genitoriale autorevole
Cos’è uno stile genitoriale? Come si connota lo stile autorevole?
Stili educativi genitoriali
Ogni genitore porta nel suo ruolo la sua unicità e specificità acquisite dalla propria famiglia di origine.
Le esperienze passate di ogni individuo contribuiscono in modo significativo al ruolo genitoriale acquisito.
Le peculiarità individuali non precludono la possibilità di potersi orientare tra differenti stili educativi genitoriali.
Essi danno la possibilità di stimolare il cambiamento di situazioni ricorsive, rimettendo in gioco risorse ed obiettivi più chiari.
All’interno di ogni famiglia gli stili educativi sono differenti, combinandosi fra loro creano un approccio unico.
E’ importante che i genitori imparino a collaborare e a combinare le loro differenze per creare coerenza e funzionalità.
Controllo e supporto, se ben bilanciati, sono parti fondamentali di ogni stile educativo.
Il controllo è riferito alle pressioni esercitate dai genitori per stimolare comportamenti adeguati attivando una supervisione sui figli.
Supportare è riferito a sostenere, con disponibilità e vicinanza emotiva, i bisogni dei figli, favorendo l’autoregolazione.
Dalla combinazione di queste due importanti variabili emergono quattro stili educativi:
autorevole, autoritario, permissivo, trascurante.
Lo stile autorevole è preferito. Esso stimola maggiormente l’autostima, l’assertività, la responsabilità e l’autonomia.
L’autorevolezza deve essere il frutto di qualità morali ed intellettuali. E’ una condizione necessaria allo sviluppo del bambino e al raggiungimento della sua maturità.
La famiglia autorevole
L’approccio autorevole è basato sullo stabilire regole e linee guida che il figlio è tenuto a seguire.
Lo stile autorevole è democratico poiché il genitore può adattare, per mezzo del dialogo, le regole alle esigenze e richieste dei figli.
Egli si impegnerà a dare valore all’indipendenza e all’autonomia, ma sa anche far valere la sua autorità.
E’ un genitore aperto alla negoziazione e disponibile a mettere in discussione il proprio punto di vista.
Le regole sono chiare, motivate, ed applicate in modo coerente.
Allo stesso tempo, con flessibilità, possono essere riadattate con le giuste motivazioni.
Al bambino viene data la possibilità di replicare eventuali decisioni ed esprimere la propria opinione.
Quando il figlio non riesce a soddisfare le aspettative, il genitore offre vicinanza emotiva e conforto.
Ciò che deve essere rilevante è che entrambi i genitori devono essere attivi sul piano educativo.
Questo non vuol dire che entrambi devono esprimere il loro ruolo con lo stesso stile e modalità.
Essi devono essere “squadra”, esaltando i punti di punti di forza dell’altro e sostenersi a vicenda nelle debolezze e difficoltà.
Genitori autorevoli consigli pratici
Essere coerenti è un modo di fornire sicurezza al bambino.
Seguire principi e valori per mezzo del dialogo e con i comportamenti è corretto, ed offre chiarezza.
Essere affidabili è imprescindibile, infonde fiducia e rispetto nell’altro. Il genitore diventa punto di riferimento.
Ammettere i propri errori è un insegnamento prezioso. L’errore è punto di partenza per migliorare. Chiedere scusa è importante anche per gli adulti.
Parlare di emozioni con il bambino permette al figlio di appropriarsi di un vocabolario emotivo fondamentale per il benessere. Offre la possibilità di riproporre in altri contesti messaggi, significati che possono essere meglio compresi anche nelle relazioni con gli altri. Fare esperienze ed offrirne è un allenamento per la vita, aiutare i bambini a dare un nome alle emozioni è il modo migliore per poterle esternare.
Il dialogo ed il confronto sono il motore di una crescita armoniosa e serena.
Chiedere opinioni e punti di vista ai propri figli li aiuterà a creare collegamenti, ad essere partecipi del proprio sapere, formarsi delle idee ed affermarsi nel gruppo.
Le scelte che faranno saranno dettate dall’esercizio sul confronto, il quale li renderà autonomi e liberi di poter intraprendere differenti percorsi.
Si può educare alla scelta ed al confronto valutando insieme ai genitori i pro e i contro di ogni alternativa, accompagnandoli con il dialogo alle riflessioni.
Riconoscere le qualità e le potenzialità nei propri figli aiuterà il genitore a comprendere come svilupparle e indirizzarle nel futuro.
Riferimenti bibliografici
https://www.centroarche.org/gli-stili-educativi-genitoriali-quattro-possibili-approcci/ (consultato in data 16/09/2022)
https://www.annabellsarpato.com/genitori-autorevoli/ (consultato in data 16/09/2022)
https://www.lenuovemamme.it/genitori-autorevoli/ (consultato in data 16/09/2022)
Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262
Come superare un trauma: 8 strategie utili
E’ possibile superare un trauma? Come?
In questo articolo approfondiremo cos’è il trauma e vedremo dei consigli utili per poterlo superare.
Si considera Trauma (dal greco “rottura, ferita”), l’esperienza imprevista diretta o indiretta di un evento, isolato o ripetuto, in cui ci si è sentiti in grave pericolo e impossibilitati a reagire.
Quell’evento probabilmente rimarrà nella memoria come trauma, producendo un cambiamento nella vita della persona, tale da esserci un prima e un dopo nella sua storia. È comune, infatti, sentir dire: “La mia vita prima era…. dopo invece…”, “Prima guidavo, da quel momento non più”, “Dopo quanto accaduto ho troppa paura di rivivere la stessa cosa”.
Un trauma porta insicurezza, ansia, rabbia, paura, vergogna, tristezza, senso di colpa, vulnerabilità e senso di impotenza.
Quale evento può generare un trauma?
Qualsiasi… Nel senso che non tutti gli eventi spiacevoli diventano traumi, ma ogni evento ha in sé un potenziale fattore di rischio traumatico, perché ogni ferita piccola o grande, invisibile e visibile, rivolta a sé o ad una persona cara, in base a come è vissuta dai protagonisti potrà diventare un trauma oppure no.
Dunque, non è l’evento X in sé e per sé a generare un trauma, ma la reazione soggettiva che la persona ha difronte alla minaccia, in quel momento storico della sua vita. Per questo non è possibile paragonare e giudicare i traumi, perché un evento può diventare uno spartiacque per me ma non per altri e viceversa. Pensiamo a un incidente, a un abuso, alla morte del proprio cane, a una diagnosi di malattia. C’è chi si sentirà perso, fragile, in colpa, senza la possibilità di aver scelto né di scelta futura, immaginerà scenari tortuosi e traumatici, alternerà rabbia, tristezza e solitudine. Vivrà un lutto, il lutto della vita precedente all’evento X.
Anche stress cronici di vita quotidiana, nella coppia o al lavoro, se non elaborati e gestiti, possono essere traumatizzanti e sviluppare finanche sintomi da disturbo post traumatico da stress (PTSD).
Alcuni accadimenti invece sono oggettivamente traumatici. L’11 Settembre 2001 o la Pandemia Covid-19, hanno avuto un impatto tale da esserci una vita che si conduceva prima e una dopo.
Lascio fuori dal discorso oggi i traumi complessi, costituiti da traumi cumulativi che non sempre hanno un evento spartiacque, e che richiedono uno spazio a parte.
Quali sono gli effetti di un trauma?
Quando abbiamo paura, attiviamo automaticamente dei meccanismi di difesa: attacco, fuga e congelamento, che condizionano scelte, pensieri, corpo ed emozioni in egual misura. Queste reazioni inconsapevoli e spontanee di sopravvivenza rimangono attive anche passato il momento di emergenza e pericolo. La persona si trova in allerta permanente, come se dovesse accadere improvvisamente qualcosa di spiacevole. Questi agiti creano reazioni fisiologiche, neurologiche ed emotive disfunzionali che coinvolgono ogni area psicofisica, sociale e cognitiva.
Il cervello e il corpo memorizzano la reazione di difesa e l’evento in ogni sua parte, creando una traccia che si riattiva ad ogni stimolo associato all’evento. Proprio come le tracce di un CD, al numero 5 corrisponderà sempre la canzone registrata. E allora possono manifestarsi:
- Pensieri e sogni o incubi ricorrenti, involontari e intrusivi associati all’evento traumatico
- Flashback, ossia improvvisi ricordi, in cui la persona percepisce suoni, odori, contatti, emozioni… come se l’evento, o parte di esso, stesse riaccadendo
- Livelli anomali di ormoni deputati alla gestione di stress e paura, che a lungo andare favoriscono stati emotivi negativi, emicranie e disagi gastrointestinali, patologie croniche, difficoltà mnemonica e di apprendimento, amnesie, dissociazione
- Disturbi del sonno e dell’alimentazione
- Ansia, Attacchi di panico, Fobie, Depressione
Gli effetti possono essere persistenti e invalidanti. Quando ciò accade la persona rimane incastrata nel passato, vivendo con grande difficoltà la possibilità di costruire un futuro desiderato. A lungo andare l’evento perde cronologia e coerenza all’interno della propria storia.
Questa atemporalità reattiva non permette alla persona di:
- essere vicino alla sua realtà quotidiana, nel qui ed ora,
- attingere alle sue risorse e ai punti di forza che le hanno permesso di sopravvivere fino a quel momento,
- vivere ma solo di arrancare.
È possibile superare un trauma?
Certo, ma serve affrontare e gestire il dolore, per rendere innocuo quel ricordo. Per fare dell’evento traumatico un passato che non impatti nel presente. Potremmo dire che il CD è riscrivibile, inserendo in archivio la traccia passata.
La maggior parte delle volte riusciamo a superare gli eventi che mettono a dura prova la nostra persona, esercitando le risorse necessarie per ripartire. Tuttavia, a volte si agiscono risoluzioni disfunzionali e che spesso bloccano le risorse e la possibilità di superarlo.
I 5 errori più comuni per superare un trauma
- Controllare i pensieri e voler dimenticare l’evento traumatico. Perché si ha paura di riviverlo. Ma, pensare di non pensare è pensare il doppio. Il nostro cervello per sapere a cosa non pensare deve pensare a cosa non dovrà pensare. Ma facendo così avremo sempre davanti ciò che non vogliamo, con la doppia fatica di combattere per non pensarlo. Ti conviene?
- Evitare tutte le situazioni che ci fanno ricordare o che attivano paure associate al trauma. Più evitiamo più aumenteranno le cose da evitare, perché aumenta la paura e la sensazione di impotenza. Fino ad impedirci di essere davvero liberi di scegliere. Evitare è come quella persona che gli dai un dito e si prende tutto il braccio. Ecco, lei è “evitare”.
- Chiedere rassicurazioni. Il senso di colpa di non farcela esige aiuto. L’ansia e il senso di vulnerabilità ci impongono di dipendere da qualcuno, dicendoci che da soli non possiamo riuscirci. Alimentiamo il nostro senso di incapacità e la consapevolezza nell’altro che non siamo in grado. Vorremmo che tutto si risolvesse automaticamente. Eppure, siamo nati per essere protagonisti della nostra vita.
- Abusare di sostanze o psicofarmaci, oppure tuffarsi nel lavoro per non pensare e non parlarne. La vergogna assale e si è ipersensibili e si vuole non esserlo.
- Credere che passato e imprevisti dolorosi ci condizioneranno per sempre, senza avere la possibilità cambiare le carte in tavola.
Cosa fare allora?
Usa le 8 strategie
- Prima di tutto, comprendi che superare la situazione, non dipende semplicemente dalla voglia che si ha, ma dal fatto che si ha bisogno di tempo e di aiuto.
- Chiediti: “come ho fatto a resistere fino ad oggi?” Quali capacità e risorse hai messo in atto?
- Sii gentile con te e grata/o a te stessa/o per quanto hai fatto e provato a fare.
- Fai qualcosa di nuovo ogni giorno. Riscoprirai risorse sepolte, ironia, sorriso.
- Dedicati del tempo piacevole per te e crea delle routine, ridanno sicurezza.
- Accetta che non tornerà tutto come prima, ma c’è un nuovo te da sperimentare.
- Accetta di aver bisogno di riscoprire chi sei al di là degli eventi e costruisci un futuro senza condizionamenti, un nuovo presente e nuove consapevolezze.
- Esprimi ciò che vivi e hai vissuto. Ascolta la musica, torna a dipingere, scrivi…
Raccontarsi mentre ci si riscopre pieni di risorse è importante, perchè bisogna passare il guado che fa paura. Non temere di doverne “parlare”. Se lo fai con un professionista sarai al sicuro nel guardare la tua storia e riscriverla. Ci sono tanti modi di parlare e narrarsi per ridare la giusta collocazione agli eventi, cronologicamente ed emotivamente, integrare la tua storia, la tua persona.
Il passato non puoi cambiarlo. Ma puoi scegliere come costruire il tuo domani a partire dal tuo Oggi.
Vuoi riprendere in mano la tua vita, nonostante il trauma? Contattaci.
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Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association, (2014). DSM 5 – Criteri Diagnostici. Raffaello Cortina Editore
Bessel A. van der Kolk, M.D. “Approaches to the Treatment of PTSD”, (pdf) https://somaticexperiencing.dk/wp-content/uploads/2017/02/Approaches-to-the-Treatment-of-PTSD-van-der-Kolk-et-al.pdf (consultato in data 20/7/2022)
Cagnoni F., Milanese R., (2009). Cambiare il passato. Superare le esperienze traumatiche con la terapia strategica. Ponte delle Grazie.
Fischer J. (2017). Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico. La Feltrinelli ed.
Garrido S., Baker F. A., et al., (2015), Music and trauma: the relationship between music, personality, and coping style, Frontiers in Psychology, 6: 977.
Herbert C., Didonna F., (2021). Capire e superare il trauma. Una guida per comprendere e fronteggiare i traumi psichici. Erickson ed.
Kazanxhi E., Ricci D., Loubser M., (2019) Trauma Integrazione e Movimenti Oculari: Un approccio multisensoriale nella cura del trauma. EMI Italy Edition
Steel K., Boon S., Van de Hart O., (2017). La cura della dissociazione traumatica. Un approccio pratico e integrativo. Mimesis ed.
Van der Kolk B. (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Raffaello Cortina Ed.
Genitori iperprotettivi: quali rischi?
I genitori iperprotettivi vogliono proteggere e prevenire qualsiasi forma di male, dolore e infelicità ai figli.
Potrebbe sembrare un nobile proposito, spinto dall’amore incondizionato per essi, ma dietro a questo si celano risvolti negativi.
Questo eccesso di premura porta infatti i genitori a soccorrere i figli dalle brutte esperienze, dai fallimenti, dal rifiuto dei pari e da qualsiasi forma di delusione. Inoltre, essendo molto attenti a ogni pericolo o rischio che può verificarsi nella vita dei figli, anticipano ogni eventuale difficoltà.
Visto da fuori, un genitore iperprotettivo non è un “cattivo” genitore, anzi i suoi modi sono accoglienti e premurosi. Cercando di rendere la vita più facile al figlio, interviene al primo ostacolo eliminando ogni problema che esso incontra lungo il percorso di crescita. Questo può portare anche a sostituirsi al figlio o addirittura a fare le cose più sgradevoli al posto suo.
Dietro alle cure eccessive del genitore iperprotettivo si nasconde la convinzione che il figlio non possa farcela da solo. Il genitore percepisce come vulnerabile il bambino/ragazzo e finisce per trasmettere questa insicurezza anche al figlio. Spesso questi genitori bilanciano uno scarso senso di controllo delle difficoltà genitoriali con strategie di iper-controllo.
Questa percezione del figlio come fragile impedisce inoltre al genitore di essere autorevole nei suoi confronti, per cui trova improprio punirlo, stabilire delle regole e mantenerle.
Questi genitori hanno la tendenza a giustificare sempre il figlio anche di fronte agli altri e talvolta anche di fronte a comportamenti scorretti. Questi genitori investono molte energie e impegno per il successo del figlio, perché questo qualifica l’immagine del genitore stesso.
I genitori iperprotettivi rappresentano un modello genitoriale dominante nella società italiana degli ultimi anni (Nardone et al. 2012), sebbene la vita attuale appaia molto più sicura di quanto non sia stata in passato.
Tratti distintivi del genitore iperprotettivo
Le preoccupazioni dei genitori iperprotettivi possono riguardare qualsiasi aspetto della vita del figlio: la salute, l’aspetto estetico, l’alimentazione, così come l’istruzione, l’attività sportiva o le amicizie. Ciò che non è direttamente controllabile da loro viene indagato attraverso molte domande rivolte al figlio su cosa fa fuori casa, chi frequenta, come si relazionano gli altri con lui, ecc.
In base all’età dei figli questi genitori possono mettere in atto diversi comportamenti.
In età prescolare tenderanno ad esempio a limitarne l’esplorazione temendo che possano farsi male, oppure accorrono immediatamente dopo una semplice caduta senza danni.
Con i figli in età scolare potrebbero preoccuparsi di organizzare loro lo zaino e i compiti da svolgere, oppure che il figlio sia vestito alla moda e abbia gli stessi giocattoli dei compagni.
In età adolescenziale infine, si assicurerebbe che il figlio sia all’altezza dello status symbol prevalente e per questo non gli farebbero mancare nulla, dal cellulare al motorino alla festa di compleanno nel locale più in.
Questi sono solo alcuni esempi, ma in linea generale i comportamenti dei genitori iperprotettivi seguono questo stile:
- Fa molte domande al figlio per sapere e avere pieno controllo della situazione;
- Di fronte a un problema del figlio cerca di risolverlo in prima persona e a volte se ne assume la responsabilità;
- Cerca di anticipare e prevenire le possibili difficoltà a cui può andare incontro il figlio;
- E’ molto coinvolto nella vita scolastica o sportiva del figlio;
- Limita la sua libertà ed esplorazione;
- Si preoccupa molto dell’immagine che il figlio può mostrare;
- Ricopre il figlio di attenzioni, beni e privilegi;
- Ha molta difficoltà a stabilire delle regole e a farle rispettare con punizioni e correzioni.
I rischi di uno stile iperprotettivo
La peggiore conseguenza dello stile genitoriale iperprotettivo è di crescere figli impreparati alla vita.
Soccorrendo sempre il figlio e gestendo la sua vita gli togliamo il bisogno di sperimentare il rischio e la possibilità di assumersi le responsabilità, perché c’è sempre qualcuno pronto a risolvere i problemi.
Ma c’è dell’altro. Sostituirsi a qualcuno equivale a trasmettere questo messaggio squalificante: “faccio tutto per te perché in fondo tu non sei capace”. Questo può sedimentare insicurezza nella personalità del futuro adulto. Quando un genitore mostra paura nei confronti di molte cose, il figlio a sua volta sarà eccessivamente timoroso e insicuro nell’affrontare il mondo.
Ci sono molti studi che mostrano una correlazione tra l’ipercontrollo parentale e l’insorgenza di disturbi d’ansia, disturbi fobici e ossessivi e sintomi depressivi (Thomasgard, 1998; Chockalingam et al, 2022).
Diffidenza verso gli altri, insicurezza, dipendenza dal sostegno dell’adulto, scarsa autostima e sfiducia sono altri possibili risvolti di questo stile genitoriale.
In adolescenza sono stati riscontrati sintomi somatici, comportamenti devianti e una tendenza a chiudersi o mentire ai genitori per sfuggire al loro ipercontrollo (Janssens et al, 2009).
C’è infine un altro rischio: non far mancare nulla al figlio può far passare l’idea che questi nella vita abbia diritto a tutto per il solo fatto di esistere, piuttosto che impegnarsi per raggiungere dei traguardi. Molti di questi figli finiscono per arrendersi senza combattere, demandando ai genitori le sfide evolutive della transizione all’età adulta.
Consigli per genitori iperprotettivi
Di fronte a tutti questi rischi ci si può chiedere: può il troppo amore fare così tanti danni? In fondo questi genitori sono così premurosi perché pensano di dimostrare in questo modo il loro amore per i figli. Ma come abbiamo visto, a fronte di un fine amorevole, i mezzi sono a discapito del figlio.
Ciò che possiamo fare se ci rendiamo conto di ricoprire di eccessive cure i nostri figli è innanzitutto immaginare che tipo di persona ci aspettiamo diventi un domani. E questo possiamo farlo già dalla tenera età.
Prima di elargire un ennesimo regalo non richiesto, prima di un mancato rimprovero o di un “pronto soccorso” al figlio, chiediamoci se questo comportamento può essere utile in un’ottica futura della sua crescita.
Altre piccole cose che possiamo fare:
- Di fronte a un pericolo, siediti vicino al bambino e spiegagli con calma perché quello che sta facendo è pericoloso. Reazioni esagerate non porterebbero a risultati migliori;
- Informati sulle capacità tipiche dell’età di tuo figlio: se a quell’età può già conquistare autonomia nel fare qualcosa, abbi pazienza che impari a farlo da solo e non sostituirti a lui/lei nel farlo;
- Quando tuo figlio si fa male, conta fino a 10 per vedere come reagisce lui prima di precipitarti;
- Di fronte a una difficoltà, chiedi prima a lui/lei come pensa di affrontarla e superarla;
- Piuttosto che riempire di domande tuo figlio per colmare il tuo bisogno di controllo, chiedigli cosa gli è piaciuto di più di quella giornata o cosa pensa di quella data situazione;
- Aspetta che sia tuo figlio a esprimere un bisogno prima di anticiparlo tu;
- Confrontati con genitori che hanno uno stile genitoriale più rilassato e autorevole.
Infine, ricordiamoci che è normale voler proteggere i nostri figli dalle brutte esperienze, ma avendo sempre presente che le difficoltà sono parte della vita.
Se pensi di non riuscire a gestire da solo questo aspetto dell’essere genitori puoi rivolgerti a un professionista del One Session Center.
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Riferimenti bibliografici
Chockalingam, M., Skinner, K., Melvin, G., & Yap, M. B. (2022). Modifiable Parent Factors Associated with Child and Adolescent School Refusal: A Systematic Review. Child Psychiatry & Human Development, 1-17.
Janssens, K. A., Oldehinkel, A. J., & Rosmalen, J. G. (2009). Parental overprotection predicts the development of functional somatic symptoms in young adolescents. The Journal of pediatrics, 154(6), 918-923.
Nardone, G., Giannotti, E., & Rocchi, R. (2012). Modelli di famiglia. Ponte alle Grazie.
Thomas, G. (1994). Genitori efficaci. Ed. La Meridiana.
Thomasgard, M. (1998). Parental perceptions of child vulnerability, overprotection, and parental psychological characteristics. Child Psychiatry and Human Development, 28(4), 223-240.
Ungar, M. (2009). Overprotective parenting: Helping parents provide children the right amount of risk and responsibility. The American Journal of Family Therapy, 37(3), 258-271.
https://www.canr.msu.edu/news/overprotective_parenting_style (consultato in data 27/06/2022).
Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.
Gestire la rabbia con la Terapia a Seduta Singola
Quali difficoltà possono insorgere se non si riesce a gestire la rabbia? In che modo la Terapia a Seduta Singola può venirci in aiuto? Lo scopriamo in questo articolo.
Definizione di rabbia e sue principali caratteristiche
La rabbia fa parte delle emozioni di base primarie (reazione affettive innate) ed è un’emozione universale e primordiale. A provare rabbia sono tutti gli esseri umani senza distinzione di età, di area geografica, di sesso.
Nella classificazione di Friesen ed Ekman la rabbia fa parte dell’elenco delle emozioni primarie: paura, rabbia, gioia, tristezza, disgusto e sorpresa.
Lo stesso nella classificazione di Plutchik dove le emozioni primarie sono: paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto, sorpresa, attesa, approvazione.
La rabbia ha come funzione adattiva quella di difendersi, di sopravvivere nell’ambiente. Essa aiuta l’individuo a mettere dei confini, ad affermarsi, è inoltre spinta all’attacco.
La rabbia come tutte le altre emozioni citate sopra non ha una connotazione negativa, è foriera anche essa di un messaggio che deve essere ascoltato e vissuto nella piena consapevolezza.
Nella vita di tutti i giorni rispondiamo con rabbia per esempio, di fronte ad un torto subito.
In alcuni casi la rabbia può essere espressa poi con dei comportamenti o delle espressioni verbali (urla, discussioni) in altri casi viene invece repressa o evitata.
Ad ogni modo qualunque sia la reazione, porta l’individuo ad uno stato tensivo molto forte.
L’andamento della rabbia si può presentare con dei picchi che tendono verso l’eccesso e a volte con intensità minore. Se l’andamento è verso l’eccesso la rabbia prenderà comunemente il nome di collera ed ira.
Se invece si dirigerà verso una intensità minore si chiamerà irritazione.
La rabbia, è un processo multi componenziale, in cui possiamo individuare almeno quattro componenti imprescindibili.
Esse sono la componente fisiologica, ossia la attivazione dell’organismo, la componente cognitiva, la componente espressiva e la componente comportamentale.
Nella esperienza individuale dello stato di rabbia rintracciamo tutti questi aspetti visibili nella persona: si accelera il battito, aumenta il flusso sanguigno, aumenta la tensione muscolare, aumenta la sensazione di calore e di sudorazione.
A livello espressivo cambia la mimica e la espressione facciale con cambiamenti generici del volto ravvisabili negli occhi, nelle labbra e nelle sopracciglia che cambiano forma, si modifica anche la postura.
Provare rabbia è un’esperienza che riguarda gli altri, ma potrebbe riguardare anche noi stessi, persone emotivamente lontane da noi, o persone a cui si è più legati sentimentalmente come per esempio a propria famiglia e i propri partner.
Dalla rabbia adattiva alla rabbia disadattiva
In linea generale, la rabbia comunica una funzione autodifensiva.
Si può parlare di una rabbia disadattiva, disfunzionale o patologica, quando crea una sofferenza individuale. E’ disattativa anche quando compromette le relazioni sociali o porta a compiere delle azioni dannose verso persone, cose o se stessi.
Nella maggior parte delle situazioni la rabbia è un campanello d’allarme utile per la nostra sopravvivenza. Altre volte può invece portare la persona a un vero e proprio stato di malessere.
In questo caso la rabbia se cronicizzata e non occasionale può portare a un peggioramento delle condizioni di vita della persona.
Questo peggioramento può poi dare sfogo anche a una serie di sintomatologie fisiche e psichiche in cui viene meno la armonia, l’equilibrio e il benessere in generale ed aumenta la inefficacia relazionale e la difficoltà di rapporti nella vita quotidiana.
Le reazioni disadattive alla rabbia sono di diversa tipologia e sono orientate all’evitamento o a un controllo eccessivo, per cui le persone reagiscono tenendo dentro la rabbia o invece esternalizzandola troppo, spesso esternalizzandola in modo inappropriato, mettendo in atto comportamenti o situazioni sconvenienti.
Si deduce che in un caso o nell’altro, sia trattenendo che tirando fuori, le due modalità, portano solo svantaggi. Se la rabbia inoltre permane a lungo non sarà lo stesso un buon segnale per l’individuo.
Cosa fare per la gestione della rabbia
Non saper gestire la rabbia nella maggior parte dei casi significa rischiare di recare danno agli altri e fare male a se stessi, intaccare i rapporti con chi ci circonda, e danneggiarci anche profondamente. Le ricadute della incapacità di gestione che possono verificarsi sono non solo psicologiche, ma anche fisiche. Alcuni studi hanno dimostrato che una situazione di rabbia costante porta a problemi di diversa natura organica come: la digestione, le funzioni epatiche, la muscolatura, i disturbi del sonno, e le emicranie che sono solo un piccolo esempio.
Quando si arriva a uno stato di malessere cronico diventa sicuramente importante rivolgersi a un terapeuta, che possa lavorare al fine di ripristinare un equilibrio nell’individuo.
Le psicoterapie brevi possono lavorare in pochi incontri ed in modo efficace, laddove sono stati fatti tentativi meditativi, pratiche yoga e si sia provato già ad intervenire cercando di allentare abitudini e comportamenti nocivi errati, tutte modalità che non sempre riescono a intervenire in modo risolutivo.
Imparare a gestire la rabbia, migliora il corretto funzionamento organico e psicologico. Con il terapeuta si può lavorare sulla sua gestione, per ripristinare un modo di vivere in cui l’ autocontrollo non ci fa sentire sopraffatti. Vivere in un costante stato di ruminazione rabbiosa cioè ripercorrere gli eventi che hanno generato la rabbia e rimanere in un loop di pensieri per alcuni diventa uno status quo, ma esso è assolutamente negativo per la mente.
Altra situazione invalidante è quando non si può nascondere la rabbia e se essa, inizia a guidarci in ogni azione che compiamo. Quando essa diventa lo stato emotivo prevalente, può portare a senso di colpa e a vergogna, e in alcuni casi a uno stato di isolamento, fino a sfociare in stati di depressione vera e propria.
La terapia a seduta singola per la gestione della rabbia
La domanda che ci poniamo come terapeuti specializzati nella pratica della Terapia a Seduta Singola è come essere efficaci ed efficienti anche in un solo incontro per lavorare sulla rabbia.
Cosa spaventa più una persona nel concetto di provare rabbia? Potrebbe essere provarla a lungo o provarla in diversi contesti. Oppure potrebbe essere non saper tenere a freno la rabbia, o ancora non riuscire a esternarla. Infine potrebbe temere di rovinare i rapporti, le relazioni per un eccesso della stessa.
Come abbiamo potuto osservare la rabbia può essere affrontata e valutata sotto diversi punti di vista, con la TSS diventa l’obiettivo in una singola sessione. Il paziente potrebbe arrivare nello studio con l’idea di voler abbassare la rabbia, di volerla controllare o diminuirla. Come potremmo lavorare?
Lavoreremo indagando le eccezioni al problema e verificando le tentate soluzioni. Esse sono schemi mentali o comportamenti attuati che in realtà perpetuano e fanno sussistere e mantengono in vita il problema.
Il terapeuta potrà decidere di sperimentare con il paziente già in seduta una nuova soluzione oppure dare un compito che poi la persona sperimenterà.
Un esempio sono le lettere della rabbia. Esse sono un potentissimo strumento per scaricare la rabbia.
La fanno fluire fuori con lo scopo di poter vivere poi con una qualità di vita migliore.
Le lettere consistono nello scrivere su un foglio, sino ad esaurimento dell’argomento. Vanno rivolte a chi o a cosa ha generato rabbia senza rileggere e senza controllare la correttezza della scrittura. Le lettere saranno mantenute dal paziente in un posto segreto o potranno essere distrutte in modo simbolico.
Un’altra modalità che si può sperimentare è quella di far elencare al paziente i segnali indici dell’arrivo della rabbia. Il riconoscerli, visualizzarli in forma scritta, prenderne consapevolezza ci dirige già verso una possibile individuazione di condotte più funzionali.
Se il problema è invece legato alla espressione verbale, può essere risolutiva una costruzione di un dialogo diverso ed efficace in cui la comunicazione può funzionare, senza scadere nella rabbia.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, contatta One Session!
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare le nostre pagine Facebook e Instagram
Riferimenti bibliografici
Anolli, L., (2002). Psicologia della comunicazione. Edizione Il Mulino
Cannistrà, F., Piccirilli, F., (2021). Terapia breve centrata sulla soluzione. Principi e Pratiche
Di Donato, F., (2021). Counseling Psicologico- Il quaderno degli attrezzi per Psicologi e Dott. in tecniche psicologiche
D’Urso, V., Trentin, R. (2001). Introduzione alla psicologia delle emozioni. Laterza editore.
Ekman, P. & Oster, H. (1979) Facial Expression of emotion. Animal review of psicology. 20, 527-554.
Nardone, G., Watzlawick, P. (2007). L’arte del cambiamento
Secci, E.M., (2016). Le Tattiche del Cambiamento– Manuale di Psicoterapia Strategica
Sono una Psicologa Laureata all’Universita’ La Sapienza di Roma, iscritta all’albo Psicologi dell’Umbria, Mediatrice familiare, iscritta alla scuola di Specializzazione Icnos, formata in Terapia a seduta singola e in Terapia breve centrata sulla soluzione, mi occupo di consulenze brevi e credo fortemente nel fatto che il cambiamento può avvenire anche in una unica seduta.
Come mettere dei paletti alle richieste degli altri
Nell’articolo di oggi andremo ad analizzare quanto è complicato mettere dei paletti alle richieste altrui, perché è invece importante farlo e come imparare a farlo.
Quanto è complicato riuscire a dire di no?
Quale è il modo giusto, o meglio, c’è un modo giusto per dire di no alle richieste degli altri?
Hai la forza per dire di no alle persone che ti circondano e ti chiedono di fare qualcosa che non vuoi o non è nelle tue corde fare?
Tutte le volte che mettiamo da parte i nostri bisogni e i nostri desideri perché non sappiamo o non riusciamo a farli prevalere sulle richieste o le aspettative degli altri, abbiamo perso.
Tutte le volte che diciamo di si, mettendoci da parte, perdiamo la fiducia in noi stessi. Ci sottovalutiamo e ci costringiamo in situazioni o condizioni che liberamente non avremmo scelto.
Le richieste degli altri possono manifestarsi in tantissimi modi e in contesti diversi.
Il collega o la collega di lavoro che ci chiede, per l’ennesima volta, di aiutarlo a terminare un lavoro. Sa che noi lo faremo, aggiungendo altro carico al nostro impegno e al nostro tempo.
Un amico che ti chiede un altro prestito in denaro, sapendo che avrà difficoltà a restituirlo, perché è finito di nuovo in cattive acque.
Un familiare che continua a chiederti di fare un passo indietro per appianare le liti in famiglia, quando la pace non dipende solo da te.
Il partner che ti impone la presenza di quegli amici che proprio non sopporti.
Il vicino di casa che non riesce a smettere di fare rumori e dare fastidio e, dopo averti chiesto scusa, continua inesorabile.
L’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Quando si è troppo disponibili si rischia di chiudere un occhio tante e tante volte.
Sia chiaro che non è negativo o criticabile essere altruisti e generosi verso gli altri.
Il problema arriva quando le proprie esigenze vengono messe in secondo piano.
Quando i bisogni e i diritti degli altri vengono sopravvalutati; quando la disponibilità diventa obbligo di assecondare le richieste altrui.
Se la reciprocità viene meno e lascia il posto allo sfruttamento, all’opportunismo, all’egoismo.
Perché è difficile dire di no?
Alla base della difficoltà a dire di no possono esserci diverse modalità di interazione e di relazione.
Il desiderio di apparire disponibili in ogni circostanza per dimostrare a se stessi e agli altri di avere un valore. Una “brava persona” capace di dare una mano agli altri sempre. Una risorsa. Un punto di riferimento.
Essere a disposizione incondizionata degli altri significa costruire un’immagine basata più sul fare che sull’essere.
Una modalità di relazione che può nascondere il desiderio di conquistare l’amicizia e la benevolenza degli altri con l’essere al loro servizio. Un modo di essere, risultato di un’educazione improntata alla rigidità e all’obbedienza.
Dire di si incondizionatamente rivela certamente una relazione passiva sia con gli altri che con se stessi. Relazione che può col tempo portare ad accumulare malcontento, rabbia, frustrazione in chi non riesce ad esprimere se stesso e il proprio sentire attraverso un no.
Cadere nella spirale del dire sempre di si, significa essere esposti a richieste che divengono via via più impegnative e creano conflitto tra obiettivi e desideri propri e altrui.
A tendere spesso il tranello peggiore è il grande potere del senso di colpa.
Sul senso di colpa fanno difatti leva le richieste degli altri, a volte insistenti altre volte crescenti. Ci si sente cattivi a dire di no. Il si è quasi dovuto.
Identificare il senso di colpa ci permette di depotenziarlo e di agire in maniera più libera e orientata alla costruzione di rapporti sereni e bilanciati.
L’obiettivo è puntare alla reciprocità.
Come imparare a dire di no
Dire di si è sicuramente più facile che dire no.
Il no fa emergere il conflitto, la vergogna, la colpa.
Il no però fa emergere anche i nostri bisogni, il nostro essere diversi dagli altri, la nostra individualità.
Imparare a dire di no significa imparare a mettere dei limiti.
Mettere dei limiti per rispettare noi stessi. Il nostro spazio, il nostro tempo, le nostre necessità.
Pretendere dagli altri il rispetto dei nostri limiti implica innanzitutto che siamo noi per primi a rispettare ciò che siamo e vogliamo.
Definire l’obiettivo è il primo passo per riconoscere ciò verso cui tendiamo e di conseguenza le richieste alle quali dire di no.
Prendere del tempo per riflettere e definire se la situazione alla quale siamo chiamati contribuisce al nostro benessere oppure no.
Si può dire di no. Dire di no è un nostro diritto. Possiamo scegliere di motivarlo in maniera semplice e diretta oppure pronunciarlo in modo secco e rispettoso.
Imparare a mettere dei paletti alle richieste degli altri significa muoversi nella direzione che desideriamo, la nostra direzione!
Non esitare a cercare qualcuno capace di guidarti alla scoperta del tuo futuro desiderato.
Non esitare a contattare un esperto capace di accompagnarti nel tuo viaggio.
Il cambiamento ti aspetta.
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 Minuti.
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Riferimenti bibliografici
Cannistrà F., Piccirilli F. (2021) – Terapia Breve Centrata sulla Soluzione –Roma: EPC Editore
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
Convivere con una malattia cronica
Si definisce una malattia cronica una patologia che, pur non essendo guaribile, non ha un immediato esito mortale.
Secondo una recente indagine dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia i pazienti che convivono con almeno una malattia cronica superano i 14 milioni.
Una condizione tutt’altro che rara, spesso sottovalutata, che ha importanti conseguenze sia sulla qualità della vita che sui rischi per la salute dei pazienti.
La diagnosi di una malattia cronica
La diagnosi di una malattia cronica sconvolge la vita di chi la riceve.
La persona si trova catapultata in una nuova dimensione in cui tutto quello che prima era semplice o addirittura scontato, ora sembra incredibilmente difficile se non impossibile.
Inizia così un lungo e faticoso cammino di ristrutturazione di sé.
La persona deve improvvisamente reindirizzare le proprie risorse e sviluppare nuove capacità adattive per riuscire ad affrontare in maniera positiva gli inevitabili cambiamenti e le intollerabili ricadute che ci saranno.
Il primo passo obbligato è ovviamente quello di accettare la malattia.
Una consapevolezza tutt’altro che semplice da raggiungere, in grado di destabilizzare profondamente l’individuo.
La domanda “Perché proprio a me?”, che tutti i pazienti si fanno, pone la persona di fronte ai propri limiti e spesso comporta reazioni di rabbia o depressione.
Superare lo shock iniziale e riconoscere la propria condizione come parte tangibile ed effettiva della propria realtà è l’ideale punto di partenza da raggiungere.
Da qui ci si muove per riuscire ad incanalare le proprie energie, mettere a frutto le proprie risorse e accettare i limiti di questa nuova dimensione.
Inizia la convivenza con la malattia cronica.
La convivenza con una malattia cronica
Convivere con una malattia cronica vuol dire non poter condurre una vita del tutto normale.
Significa percepire nettamente i propri limiti di fronte a determinate situazioni.
Spesso significa anche assumere farmaci, seguire terapie specifiche e, cosa ancor più estenuante, sottoporsi a controlli medici continui e ripetuti.
L’aspetto più invalidante di questa condizione, tuttavia, è avere la consapevolezza di essere costantemente a rischio.
Questo genera una sensazione continua di precarietà e di incertezza rispetto al presente e al futuro. Sensazione che si ripercuote sul benessere psichico della persona che, spesso, vive male questa condizione e tende ad isolarsi e ad essere isolato.
Soccombere al senso di sconfitta ed impotenza che ne scaturiscono diventa così davvero molto facile.
È proprio in questo modo che avere una malattia cronica mette in discussione il senso stesso che si dà alla vita.
Per fare fronte a questo occorre che la persona riscopra le proprie ragioni e le proprie motivazioni, trovando in sé stessa la forza di lottare e impegnarsi nella propria quotidianità.
Solo questa consapevolezza le permetterà di riprendere in mano la sua vita e generare vissuti di realizzazione e speranza.
Come riuscire a convivere con una malattia cronica
La malattia cronica impone cambiamenti fisici progressivi e duraturi che, per essere affrontati adeguatamente, hanno bisogno di un importante sostegno psicologico.
L’obiettivo è avere il giusto supporto per riscoprirsi ed adattarsi alla nuova realtà, fino a raggiungere una condizione di equilibrio personale.
Un equilibrio che permetterà di affrontare con successo la malattia, vivendo un’esperienza che, anziché sfinire e annientare, sarà in grado di arricchire la persona e chi ha intorno.
Accettare la nuova realtà, ristrutturare le proprie risorse e ridefinire il senso della propria vita sono gli step fondamentali in grado di portare la persona a ridisegnare la propria identità.
Sarà questa consapevolezza di sé che impedirà allora alla persona di essere inglobata nella condizione di “malato”, quindi bisognoso e privo di una funzione sociale, e creerà un circolo virtuoso in cui i compromessi e le rinunce, a cui dovrà necessariamente giungere, daranno invece spessore alla persona e saranno un valore aggiunto di ciò che fa.
Innescare questo flusso di pensieri positivi e mantenerlo costante è un impegno continuo e stancante, ma rappresenta la strategia migliore per vivere in maniera vincente una condizione così destabilizzante ed invalidante come la malattia cronica.
Viene da sé che solo un profondo percorso di maturazione e crescita personale, insieme al supporto dei propri cari, può portare ad una consapevolezza tale da riuscire in questa impresa.
Un malato è una persona che ha ancora molto da fare e realizzare.
La malattia nasconde solo le risorse e le capacità che possiede.
Raggiungere queste consapevolezze permetterà alla persona e a chi ha vicino di convivere in maniera positiva con la propria condizione.
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Riferimenti bibliografici
https://www.ospedalebambinogesu.it/cosa-significa-convivere-con-una-malattia-reumatologica-cronica-78144/ (consultato in data 15/04/2022).
https://www.alomar.it/ (consultato in data 15/04/2022)
https://www.inran.it/2022/02/21/convivere-con-una-malattia-cronica-in-italia/amp/ (consultato in data 15/04/2022)
https://www.medicitalia.it (consultato in data 15/04/2022)
3 Strategie per iniziare ad avere un rapporto sereno con il proprio corpo
Cosa vuol dire per te avere un buon rapporto con il tuo corpo?
Sai, ognuno di noi attribuisce un significato diverso e quindi ti invito prima di tutto a chiederti quale sia il tuo.
Immagino che prima di ogni cosa hai pensato al tuo aspetto fisico:
sono magro o grasso? Alto o basso? Muscolo o secco? Proporzionato o secco?
Sono tante le etichette che ci appiccichiamo addosso in questi casi e per ognuna facciamo una stima rispetto ai canoni socialmente apprezzati.
Spesso non ci rientri, eh?
Beh, è normale.
Ma quell’aspetto fisico dipende dal tuo rapporto con il cibo e dall’attività fisica che fai, oltre a tutte le cure che riservi al tuo corpo per “tenerlo in salute”
Si tratta di una relazione lunga una vita: è infatti un processo in costante evoluzione e sei libero di modificarlo come più ti aggrada ma attento …”all’accanimento terapeutico”.
Vediamo alcune punti utili su cui puoi iniziare a lavorare per muovere i primi passi verso la costruzioni di un rapporto con il tuo corpo.
L’immagine corporea e il cibo
Il cibo è la fonte di primaria preoccupazione verso la propria immagine corporea. Puoi avere un rapporto con il cibo complicato o altalenante che ti porta a perdere o prendere peso con facilità.
Non trovi mai la quadra della situazione e questo spesso ti innervosisce, ti preoccupa o ti fa sentire in ansia e come conseguenza, mangi di più.
Infatti immagino che dopo aver mangiato, ti sentirai in colpa. E questo a volte non sufficiente per smettere soprattutto quando il cibo da sollievo: infatti se provi ansia e mangi, il cibo riduce realmente l’ansia perché rilascia la serotonina (presente per esempio nei carboidrati o negli zuccheri) che è definito come l’ormone del buonumore.
Ma che succede poi? Che la sensazione positiva induce a mangiare ancora e contemporaneamente ad ingrassare fino a non piacersi più: a questo punto senso di colpa e ansia innescano nuovamente il circolo vizioso che se non stoppato causa problemi fisici.
Insomma, si può creare una vera e propria “dipendenza affettiva” dal cibo che diventa una valvola di sfogo.
Come puoi imparare a gestire questo rapporto conflittuale?
- Fantastica sul cibo:
E’ un esercizio che puoi svolgere al mattino e richiede la tua capacità immaginativa.
Pensa, ogni mattina al cibo che ti piace di più e a dove vorresti mangiarlo nel modo più rilassato possibile. Fantastica su di lui, su cosa proveresti, le sensazioni che ti assalirebbero… Chiudi gli occhi e immaginalo, fatti venire l’acquolina in bocca.
- Stai attento al COME:
come mangi? Ci hai fatto caso? Magari sei frettoloso, oppure con il cellulare in mano, o neanche ti rendi conto di quello che hai nel piatto. FACCI CASO.
Sei quello che mangi e il modo in cui assimili il cibo dipende date: ti è mai successo di mangiare di corsa e avere il cibo “sullo stomaco”? O di avere ancora fame, nonostante avessi già mangiato? Oppure la nausea? Migliora il modo in cui mangi, assaporando ogni boccone, masticandolo bene e lentamente, possibilmente lontano da apparecchi elettronici.
- Fai una lista:
Ogni mattina ti alzi e scrivi una rapida lista pensando: “se oggi volessi peggiorare le mie abitudini alimentari, cosa dovrei fare?”
Fai una lista con tutti i comportamenti che ti vengono in mente come “mangiare schifezze”, “mangiare più del solito” e cosi via.
A fine giornata riprendi la lista e sbarri i comportamenti che hai messo in atto.
Dal rapporto con il cibo possono nascere molti dei disturbi alimentari noti come anoressia o bulimia e anche problematiche meno gravi ma comunque spiacevoli che pesano sulla vita sociale e personale.
Quanto ti valuti da 0 a 10 nel rapporto con il tuo corpo?
Sicuramente valutare il proprio corpo non è semplice: è un processo che oscilla costantemente, tra alti e bassi.
Da cosa dipende tutto questo? Da tre processi fondamentali:
- Il confronto con gli altri: ti valuti confrontando il tuo corpo con altri come te e da questo confronto fai una valutazione positiva o negativa
- Giudizio degli altri: “cosa dicono di te? “ l’opinione che hanno gli altri su di te, definiscono chi sei (Mario pensa che sono troppo magro. Giulia dice che ho preso qualche chilo.)
- Autosservazione: sei tu che valuti il tuo corpo e ciò che c’è di diverso tra te e gli altr
Ti svelo un segreto: è scorretto dire che hai una bassa o un alta autostima verso il coprpo; sarebbe più giusto chiedersi se lo svaluti o lo sopravvaluti.
Se lo svaluti, pensi di non essere mai all’altezza rispetto agli altri, ti senti inadeguato e spesso eviti di agire per modificare ciò che non ti piace.
Al contrario se ti sopravvaluti, sei sicuro, determinato e non ti spaventa il confronto con gli altri; ogni sfida ti consente di dimostrarti quanto vali e ti piaci.
Cosa puoi fare per accrescere la tua autostima verso il tuo corpo?
- Evitare di evitare:
Proprio perché hai una bassa autostima, hai scarsa fiducia in te stesso. E’ probabile che tu non ti senta all’altezza di alcune situazioni e preferisci evitare di affrontarle.
Pensaci! Chiediti se e quando hai deciso di rinunciare a qualcosa perché pensavi di non essere in grado.
Questo è proprio ciò che mantiene il problema: più eviti e più confermi a te stesso di non essere in grado di affrontare la situazione e che al contempo la situazione è in effetti pericolosa.
SMETTI DI EVITARE!
- Stop alle rassicurazioni:
chiedere costantemente rassicurazioni o conferme ad altre persone, se allevia il tuo animo sul momento, a lungo andare non risolve il problema. E’ una trappola che potrebbe portare lentamente alla ricerca spasmodica della perfezione e al contempo alla conferma che tu hai bisogno degli altri per “valere”.
Se pensi di aver bisogno di un supporto in più, puoi rivolgerti a un professionista.
La Terapia a Seduta Singola può aiutarti anche in un solo incontro con lo psicologo perché ti permette di eliminare i comportamenti che mantengono in vita il problema e ottenere concreti benefici.
Sei interessato alla Terapia a Seduta Singola? Puoi rivolgerti ai nostri psicologi e psicoterapeuti, disponibili ogni martedì dalle 18.00 alle 20.00, per una consulenza gratuita online.
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Riferimenti bibliografici
Nardone, G (2007) La Dieta Paradossale: sciogliere i blocchi psicologici che impediscono di dimagrire e mantenersi in forma, Ponte delle Grazie.
Nardone, G. (2013). Psicotrappole. Milano: Adriano Salani.
Sono una psicologa che si occupa di consulenze brevi e di TSS: il mio obiettivo è ridurre i tempi della terapia e massimizzare l’efficacia della seduta, offrendo un sostegno focalizzato e concreto per affrontare sia le piccole che le grandi difficoltà della vita
Come sopravvivere ad un ambiente di lavoro stressante
“Molti perdono il lavoro, e molti perdono, lavorando, la vita.”
Eduardo Galeano
Che cosa si intende per “ambiente di lavoro stressante”?
Il termine stress deriva da un vocabolo della lingua inglese che identificava la tensione e lo sforzo a cui era sottoposto un ponte nel momento di transito di un veicolo.
Viene comunemente utilizzato per descrivere una “mobilitazione straordinaria” di energie fisiche e psicologiche che siamo chiamati a mettere in campo di fronte a particolari eventi di vita.
Per anni si è considerata la persona come “passiva” rispetto a questi stimoli, che venivano quindi sempre connotati come dannosi.
Successivamente si è iniziato a ritenere che la nostra percezione degli eventi sia invece costruttiva, cioè frutto dell’incontro delle nostre caratteristiche psicologiche, sociali, culturali e dei significati che diamo al mondo che ci circonda.
In quest’ottica, quindi, uno stesso evento può essere considerato nocivo o benefico a seconda di chi lo vive.
Possiamo quindi parlare di “eustress” quando per affrontare qualcosa sperimentiamo uno sforzo di breve durata, focalizzato e funzionale per il raggiungimento del nostro obiettivo (es. la tensione prima di una gara che poi ci consente di performare al meglio).
Chiamiamo invece “distress” il sovraccarico negativo prolungato nel tempo che alla lunga ci fa sentire prosciugati di tutte le nostre energie.
Un lavoro “stressante” quindi, per ciascuno di noi potrebbe avere un significato molto differente e non è detto che abbia solo risvolti negativi.
Il primo passo quindi per capire come fare a sopravvivere ad un ambiente di lavoro stressante, è identificare qual è il tuo contesto, gli eventi di “eustress” e “distress” e quali azioni puoi attuare per potenziare le tue capacità di far fronte a questi ultimi.
Come si manifesta l’eccessivo stress sul lavoro?
Quando una persona sente che alcune richieste poste dal suo lavoro sono superiori alle sue capacità di farvi fronte e prolungate nel tempo, può iniziare un processo di affaticamento fisico e mentale.
Si possono provare sintomi sgradevoli, come mal di testa, tensione addominale e intestinale, riduzione delle proprie capacità cognitive (es. memoria, concentrazione…).
In aggiunta, si può provare un peggioramento del proprio tono dell’umore e di tutte le emozioni legate al proprio lavoro, che da positive diventano negative.
Questo solitamente comporta un crollo del proprio rendimento e motivazione, che peggiora ulteriormente la situazione.
Se hai mai provato quella sgradevole sensazione di un pugno nello stomaco alla sola idea che arrivi il Lunedì mattina (o il tuo giorno di lavoro), capisci di cosa sto parlando.
Quali conseguenze può avere un ambiente di lavoro eccessivamente stressante?
Alcune persone senza rendersene neanche conto, finiscono per farsi risucchiare dal proprio lavoro.
Si ha talmente tanto il desiderio di farcela a gestire tutto, da provare a fronteggiare attivamente il problema lavorando sempre di più.
Se inizialmente questa può sembrare la strategia migliore, alla lunga è probabile che ci sentiremo peggio di prima: dedicheremo più ore di tempo al lavoro, sottraendolo a ciò che per noi è davvero importante.
Ci affaticheremo ancora di più, fino ad arrivare a casa la sera senza neanche la forza di cucinare. Inizieremo ad alterare la qualità della nostra vita, mangiando e dormendo male. Questo ci provocherà un ulteriore calo di energia, che ci farà sentire ancora più inadeguati a gestire il nostro lavoro. E così via.
Un’altra possibile conseguenza, è quella di chiudersi in se stessi a pensare ripetutamente a quanto il proprio lavoro sia un incubo. Cadiamo così in un vortice di domande senza fine che finisce per risucchiarci.
Questo nella speranza di trovare delle risposte: “ho fatto bene ad accettare questo lavoro o sarebbe stato meglio non farlo? come farò ad affrontare la giornata di domani? cosa succederà se sbaglierò quell’incarico che mi è stato dato?…”.
Il vortice di pensieri prende il via proprio in quei pochi momenti di tempo libero in cui potremmo fare/pensare ad altro. Magari giusto quando siamo seduti sul divano o in procinto di andare a dormire.
Se all’inizio pensare e ripensare al nostro lavoro potrebbe darci l’impressione che a suon di domande risolveremo qualcosa, alla lunga questo potrebbe diventare un altro problema da risolvere. Questo perché provare a controllare l’incontrollabile è una battaglia persa in partenza.
Come uscirne?
Se ti sei ritrovato in questo articolo, fai un bel respiro e prosegui nella lettura. La buona notizia è che da questo vortice insieme, si può uscire. La Terapia a Seduta Singola può aiutarti fin dal primo incontro a vedere le cose da un altro punto di vista e a individuare delle nuove strategie applicabili da subito per migliorare il tuo rapporto con il tuo lavoro. Vediamo insieme alcuni piccoli passi possibili:
1. Ritrova il tuo spazio.
Prova a pensare che il lavoro non è tutta la tua vita, ma è ciò che ti serve per poterti permettere la tua vera vita, quella fatta dai tuoi affetti, interessi, hobby, passioni. Ogni mattina quindi, prima di uscire di casa, prova a scrivere sulla tua agenda anche i tuoi obiettivi ed impegni personali oltre a quelli lavorativi. Inizia focalizzandoti su una piccola cosa al giorno che potresti fare, per farti dire che ti sei preso un po’di spazio per te oltre il lavoro. Ad esempio potrebbe essere fare un bel bagno caldo, andare a correre o vedere una puntata di una serie tv che ti piace tanto. Cerca quindi di tenere bene a mente questo obiettivo per tutto il giorno e impegnati, una volta finito il lavoro, a raggiungerlo. Ti aiuterà a riprenderti gradualmente il tuo tempo per te.
2. Mettiti comodo.
Se ti senti a disagio nel tuo posto di lavoro, prova a riorganizzare il tuo spazio in modo che sia più funzionale e confortevole per te, partendo dalle cose semplici: fai scorta di acqua e snack salutari per le tue pause, ordina i materiali di cancelleria di cui hai bisogno, scegli una sedia comoda, usa delle cuffie avvolgenti per isolarti dai rumori… “Sentirti a casa” ti farà già sentire meglio.
3. Organizzati
Se sei affogato di cose da fare, prova a utilizzare le “to do list”. Scrivi su un blocco di carta in ordine di priorità e complessità i tuoi compiti. Definisci quelli da fare oggi e quelli che puoi rimandare a domani. Vedere nero su bianco gli impegni può aiutarti a fare ordine nei tuoi
pensieri e a procedere per priorità. Ogni volta che ne completi uno, depennalo dalla lista. Quando hai completato tutto, strappa il foglio e lancialo nel cestino. Ti sorprenderà vedere con i tuoi occhi quanto sai essere produttivo durante il giorno quando hai tutto sotto controllo. Se fai canestro nel cestino, ti strapperà anche un sorriso!
4. Se affoghi nel vortice di domande, prova a non rispondere
Quando ti rendi conto che arrovellarti con dubbi e interrogativi ti fa stare peggio invece di aiutarti a trovare una soluzione, puoi provare a non rispondere alle domande che hai in testa. Per aiutarti, puoi provare a prendere un bel respiro profondo: prova poi a immaginare che i tuoi pensieri siano come nuvole nel cielo blu. Osservali andare e venire senza tuttavia inseguirli, senza rispondere loro. Così facendo, ti sorprenderai a guardare di nuovo il sole, piuttosto che le nuvole.
E se questo non bastasse? Ti ricordo che puoi sempre chiedere un incontro agli psicologi di “One session” e prenotare una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola per capire come poter affrontare il tuo ambiente di lavoro stressante. Questo può essere un primo passo per ritagliarti uno spazio di 30 minuti solo per te, il Martedì dalle 18:00 alle 20:00.
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Riferimenti bibliografici:
Nardone, G., De Santis, G. (2011). Cogito ergo soffro. Milano: Ponte alle Grazie.
Pirotta, L. (2019). Come Combattere lo Stress: Impara a gestire lo stress da lavoro e nella vita privata e a raggiungere il benessere psico-fisico. Palermo: Dario Flaccovio Editore srl.
Solano, L. (2001). Tra mente e corpo. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.
Come ritrovare la motivazione
Oggi parliamo di motivazione.
Cos’è la motivazione? E’ possibile ritrovare la motivazione? E come?
La Motivazione: etimologia e teorie
Il termine motivazione dal punto di vista etimologico deriva dal latino “motus” movimento e “agere” spinta all’azione.
La motivazione è lo stato interiore che orienta l’organismo, attiva il nostro comportamento e direziona l’uomo verso un obiettivo.
In questa semplice definizione la motivazione viene descritta come il nostro carburante e allo stesso tempo l’essenza che ci fa andare avanti e tendere al raggiungimento di un obiettivo e al perseguimento di uno scopo.
Il costrutto psicologico della motivazione non è un costrutto semplice, pertanto sono state prodotte innumerevoli teorie in psicologia e lo stato motivazione può essere analizzato secondo livelli di complessità diversi.
Per semplificare estremamente mi limiterò solo ad esplicitare la distinzione tra motivazione primaria e secondaria e tra motivazione intrinseca ed estrinseca.
Le motivazioni primarie sono basilari per la sopravvivenza dell’individuo e sono dovute a meccanismi fisiologici, quelle secondarie non sono legate a dimensioni biologiche ma a dei meccanismi psicologici.
La motivazione intrinseca è determinata da cause interne e la motivazione estrinseca da cause esterne.
Per cause esterne si intendono fattori esterni all’individuo pensiamo per esempio alle ricompense, ai premi, ai fattori sociali, comunque dipendenti dall’ambiente.
Per cause interne ci riferiamo ai bisogni dell’individuo come i desideri, le passioni, i piaceri.
Perché è fondamentale avere motivazione?
Se la motivazione è il carburante della nostra vita, se è la spinta propulsiva all’azione capiamo che perderla ha un effetto bloccante sul nostro agire quotidiano.
Se sei motivato impiegherai più energie, affronterai i tuoi impegni che siano scolastici o lavorativi con grinta e determinazione.
A tutti può però succedere di avere una battuta d’arresto, passare un periodo pesante, sentirsi svuotati e passare situazioni difficili.
La stanchezza e lo stress incidono fortemente sul nostro livello di motivazione.
Come ritrovare la motivazione?
Con un percorso di terapia breve e anche con una sola seduta con ad esempio la Terapia a Seduta Singola si può lavorare per ricostruire un atteggiamento positivo, imparare ad abbandonare o modificare quegli atteggiamenti che vengono messi in atto inconsapevolmente e che stanno portando ad una situazione di stallo.
E’ possibile ristrutturare i nostri pensieri e rimodulare gli obiettivi e gestire diversamente l’ansia, la preoccupazione e la stanchezza ponendo attenzione sulle proprie risorse con un nuovo mindset.
Vorresti lavorare sulla motivazione? Ti trovi in un momento difficile in cui hai la sensazione di essere imprigionato? La tua performance e il tuo rendimento non sono quelli che vorresti avere o che hai sempre avuto? Vuoi ottenere un cambiamento?
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One Session è il nostro servizio di ascolto psicologico attivo il martedì dalle 18.00 alle 20.00,
Ti aiuteremo fornendoti strumenti e tecniche che ti permetteranno di rimetterti in gioco e sbloccare comportamenti non funzionali al tuo benessere.
Scrivi a info@onesession.it e consulta le nostre pagine social di Facebook e di Instagram.
Sono una Psicologa Laureata all’Universita’ La Sapienza di Roma, iscritta all’albo Psicologi dell’Umbria, Mediatrice familiare, iscritta alla scuola di Specializzazione Icnos, formata in Terapia a seduta singola e in Terapia breve centrata sulla soluzione, mi occupo di consulenze brevi e credo fortemente nel fatto che il cambiamento può avvenire anche in una unica seduta.
Insonnia: 3 consigli per superarla
Di insonnia soffre una grande fetta di Italiani. Secondo uno studio condotto nel 2019 un italiano su 7 dorme male, e 3 su 10 dormono poco.
Quando parliamo d’insonnia?
Secondo il DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico per i Disturbi Mentali), l’insonnia è caratterizzata da una soggettiva insoddisfazione rispetto la quantità o qualità del sonno.
L’insonnia può riguardare diverse fasi del ciclo del sonno. Si può avere un insonnia iniziale, con difficoltà all’addormentamento. Altri soffrono di insonnia centrale, cioè la difficoltà a mantenere il sonno. Altri ancora vengono disturbati dall’insonnia tardiva, che si manifesta con risveglio precoce e incapacità di riaddormentarsi.
Quali sono le conseguenze dell’insonnia?
Una cattiva qualità e quantità del sonno produce inevitabilmente una serie di conseguenze nella quotidianità della persona.
Chi soffre di insonnia avrà frequenti preoccupazioni rispetto relative al proprio sonno, che generalmente aumentano nelle ore serali. La persona ha paura di passare un’ulteriore notte in bianco e questo pensiero sarà fonte di ansia e stress.
La scarsa qualità e quantità del sonno, inoltre, renderà chi soffre di insonnia piuttosto irritabile. Ecco che quindi ne risentiranno anche i rapporti interpersonali, oltre che la propria soddisfazione personale.
Un’altra conseguenza dell’insonnia si potrebbe verificare anche a livello fisico. Forti mal di testa, sintomi gastrointestinali e formicolii tengono frequentemente compagnia a chi dorme male.
Ultimo ma non ultimo, le capacità attentive e di concentrazione si riducono. Questo avrà un effetto negativo sul rendimento delle varie aree di vita della persona.
Perché per quanto mi sforzo l’insonnia non mi abbandona?
Chi soffre di insonnia generalmente mette in atto una serie di tentativi per riuscire a dormire, che purtroppo spesso si rivelano controproducenti. Il fatto di non ottenere risultati attraverso questi tentativi, poi, aumenta il senso di frustrazione e stress.
Il primo tentativo è quello di sforzarsi di addormentarsi. Peccato che però il sonno sia un’attività spontanea che prescinde dalla nostra volontà. Cercare di rendere volontario un gesto che è spontaneo non farà altro che togliere spontaneità all’addormentamento. I nostri tentativi non faranno altro che rendere sempre più difficile addormentarsi.
Un altro tentativo controproducente è quello di rimanere a letto pur non avendo sonno, anche quando ormai si è svegli. L’errore di questo tentativo sta nel fatto che, reiterando questo comportamento, il nostro cervello non sarà più abituato ad associare il letto alla sola attività del dormire. A lungo andare quindi verrà sovvertita l’associazione letto – sonno. Il letto, per il nostro cervello, diventerà luogo di svolgimento di diverse attività, come il leggere o guardare film.
3 consigli per superare l’insonnia
Partendo dai tentativi controproducenti spiegati poco sopra, vediamo quali possono essere 3 buone abitudini per riuscire ad alzare la propria qualità e quantità di sonno.
- Coricati a letto solo quando senti sonno. Riprendi ad utilizzare il letto solo per il dormire. Questo aiuterà il tuo cervello a ricostruire il collegamento tra il luogo letto e l’attività dormire.
- Se non riesci ad addormentarti, non rimanere a letto. Sappiamo che sei stanco, che dormire è una necessità, che non ne puoi più delle notti insonni. Ma rimanere a letto anche quando non riesci a dormire non ti aiuterà. Ti può aiutare, invece, spostarti in un altro luogo della casa e dedicarti ad un’altra attività, come la lettura. Finché non senti che il sonno sta tornando. Quello è il momento per tornare a letto. Ma se, una volta tornato a letto ti rendi conto che ancora non riesci ad addormentarti, ripeti quanto appena fatto. Alzati, dedicati ad altro, e solo quando torna il sonno coricati.
- A prescindere da quanto hai dormito, mantieni la sveglia allo stesso orario. Non cercare di compensare il mancato sonno notturno ritardando la sveglia o con dei riposi durante il giorno. Questa compensazione in realtà non farà altro che ripercuotersi alla sera, quando difficilmente sarai in grado di addormentarti.
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In un solo colloquio aiutiamo le persone che si sentono bloccate in un problema che impedisce loro di vivere la vita che vorrebbero ad ottenere un risultato immediato e duraturo, fornendo strumenti pratici, concreti e utilizzabili fin da subito per farle uscire da questa situazione grazie alle loro stesse risorse.
Siamo attivi tutti i martedì dalle 18.00 alle 20.00.
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Riferimenti Bibliografici:
https://www.lostudiodellopsicologo.it/disturbi/soffrire-insonnia/ (consultato in data 05/11/2021)
https://www.iss.it/news/-/asset_publisher/gJ3hFqMQsykM/content/come-dormono-gli-italiani-uno-su-sette-dorme-male-e-tre-su-10-dormono-poco (consultato in data 05/11/2021)
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
Come sradicare le cattive abitudini con la Terapia a Seduta Singola
“Se continui a fare quello che hai sempre fatto, continuerai ad ottenere ciò che hai sempre avuto.”
WARREN G. BENNIS
Che cosa si intende per cattive abitudini?
Per “abitudine” si intende la tendenza a ripetere in modo continuativo e frequente un’azione o un’esperienza in determinate situazioni.
Si tratta di comportamenti che mettiamo in atto con un minimo sforzo cognitivo.
Con il tempo, queste azioni diventano automatiche. Le mettiamo in atto senza rendercene conto.
Ognuno di noi riflettendo sulla propria vita, potrebbe facilmente individuare le sue personali “cattive abitudini”. Sono quelle azioni che inizialmente ci sembrano positive per affrontare la quotidianeità. Nel lungo periodo, invece, risultano dannose per noi.
Mangiare in modo sregolato, rimuginare sul passato e fumare sono alcuni esempi di “cattive abitudini” per molte persone.
Quali sono le conseguenze delle cattive abitudini?
Il problema delle cattive abitudini consiste nel fatto che con il tempo diventano per noi automatiche. Talmente tanto da non renderci più conto dei loro effetti negativi per noi.
Questo rende molto difficile sradicarle una volta che sono diventate parte della nostra vita.
Facciamo un esempio.
Proviamo ad immaginare un bel fiore in un vaso pieno di terra.
Cosa accadrebbe se mettessimo il seme di una pianta infestante nello stesso vaso?
Se nessuno interverrà, quel seme inizierà a crescere fino a quando le sue radici non soffocheranno il fiore.
La stessa cosa può accadere alla nostra vita quando viene invasa dalle cattive abitudini.
Come uscirne?
La Terapia a Seduta Singola è un metodo che può aiutarti a sradicare le tue cattive abitudini in un solo incontro.
In che modo?
1. Diventa consapevole delle tue cattive abitudini
Il primo passo per cambiare le proprie cattive abitudini è…renderti conto di avere delle cattive abitudini!
Prova a scrivere un diario delle tue giornate e a sottolineare le azioni che tendi a ripetere. Potresti notare se ci sono alcuni comportamenti che non ti fanno stare bene e che potresti provare a modificare.
2. Rifletti sulle circostanze in cui metti in atto le cattive abitudini
Prendi un foglio bianco e prova a riflettere:
QUANDO: in quale momento della giornata metti in atto le tue cattive abitudini?
QUANTO: da quanto tempo hai queste cattive abitudini?
DOVE: in quale luogo, situazione o contesto le metti in atto?
Potresti renderti conto che le tue cattive abitudini (ad es. fumare) aumentano o diminuiscono in base alla situazione in cui ti trovi.
CHI: queste cattive abitudini tendi a metterle in pratica quando sei in compagnia oppure no? c’è qualcuno che potrebbe aiutarti a sradicare le tue cattive abitudini?
3. Prova a fare qualcosa di diverso
Chiediti se ti è mai successo nelle stesse circostanze di fare qualcosa di differente che ha funzionato.
Concentrati sulle emozioni positive che hai provato in quel momento.
Potresti scoprire di avere già in te delle risorse e delle soluzioni nuove da provare per sradicare le tue cattive abitudini.
4. Comincia da un piccolo passo positivo
Non commettere l’errore di focalizzarti subito sull’obiettivo finale da raggiungere.
Piuttosto, prova a procedere per piccole azioni positive che ti facciano sentire bene nell’immediato.
Ad esempio se vuoi smettere di avere uno stile di vita sedentario, non porti come obiettivo quello di correre oggi una sfiancante maratona di 40 km.
Prova invece ogni giorno ad uscire per fare una piacevole passeggiata a piedi di 10 minuti.
Così facendo, inizierai delle nuove abitudini positive per te.
Se queste indicazioni ti sono state utili, lasciaci un tuo commento per farci sapere come è andata!
Cosa fare se invece senti di non farcela?
Non preoccuparti: le cattive abitudini, come abbiamo detto, possono essere davvero difficili da sradicare da soli.
Per questo, ogni martedì dalle 18:00 alle 20:00, per un periodo di tempo limitato, gli psicologi del nostro One Session Center sono disponibili per un incontro gratuito online utilizzando la terapia a seduta singola.
Il tuo primo passo per sradicare le tue cattive abitudini potrebbe essere questo.
Per avere maggiori informazioni e prenotare il tuo incontro, puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure visitare la nostra pagina Fb OneSession.it.
Bibliografia
Schwartz, M. J. & Gladding, R. (2011). You Are Not Your Brain: The 4-Step Solution for Changing Bad Habits, Ending Unhealthy Thinking, and Taking Control of Your Life. New York: Avery.
Jager, W. (2003). Breaking ‘Bad Habits’: A Dynamical Perspective on Habit Formation and In L. Hendrickx, W. Jager, & L. Steg (Eds.), Human decision making and environmental perception: Understanding and assisting human decision making in real-life settings: liber amicorum for Charles Vlek. University of Groningen.
Mazzucchelli, L. (2019). Fattore 1%. Piccole abitudini per grandi risultati. Giunti Psychometrics.
Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.
Il lavoro ti stressa? Piccoli consigli pratici
Cosa conta di più?
Lavoro, relazioni sociali, hobby, famiglia: sono tutte dimensioni che fanno parte dalla nostra persona. In ognuna di queste aree ci esprimiamo e relazioniamo in modo differente.
Tutte hanno, però, un obiettivo comune: il raggiungimento del nostro benessere. In ognuna di queste dimensioni ci prefiggiamo degli obiettivi da raggiungere per star bene.
Ogni persona può dare importanza e priorità differenti ad ognuna di esse.
C’è chi predilige l’aspetto familiare rispetto a quello sociale o quello lavorativo rispetto a quello relazionale. Questo è normale, ma l’importante è avere chiaro che per quanto possiamo prediligere una dimensione rispetto alle altre, esse fanno tutte parte della stessa totalità e devono mantenere un equilibrio per farci star bene.
È un anno che viviamo una quotidianità in continuo mutamento.
Mantenere un equilibrio tra lavoro, famiglia, relazioni sociali e passioni è una vera sfida. Si pensi ai cambiamenti avvenuti nel nostro modo di lavorare: lavoro a distanza, smart working, lavoro sul campo, lavoro al 50 %.
Modalità lavorative, a cui non eravamo abituati e che ci sono state imposte dalla situazione emergenziale.
Esse non hanno inciso esclusivamente sulla nostra dimensione lavorativa, ma hanno prodotto effetti in tutti i sistemi in cui ognuno di noi è inserito.
Riflettiamo.
Con lo smart working, spesso, viene a mancare il confine fisico fra ambiente di lavoro e di vita familiare. Per chi è impegnato in prima linea, il rientro a casa è spesso accompagnato oltre che dalla fatica fisica anche da pensieri ricorrenti e preoccupazioni.
Chi lavora al 50% in presenza e 50% a distanza è costantemente portato a ridefinire spazi fisici e mentali.
Tutte queste condizioni stanno portando all’aumento del numero di persone che vive il lavoro in modo stressante.
Si arriva a percepire la pausa da lavoro come mancanza.
Ad avere pensieri correlati al lavoro anche quando si sta dedicando del tempo ad altro.
Quali sono gli effetti che si possono generare?
Tutto ciò non fa altro che allontanarci dall’obiettivo che ognuno di noi dovrebbe perseguire: il benessere.
Spesso non ci si accorge dello “sconfinamento” dell’area lavorativa.
Ricerche hanno dimostrato che molti lavoratori durante quest’anno abbiano iniziato a lavorare un’ora prima o terminato un’ora dopo.
Siano stati reperibili oltre l’orario d’ufficio. Abbiano avuto difficoltà a “staccare la spina” e stiano vivendo livelli di ansia superiori agli standard.
Tutto ciò avviene in modo graduale fino a sembrarci normalità.
È come un’abitudine.
Lavoro ogni giorno un po’ di più fino ad arrivare all’eccesso, fino a quando il non lavorare mi fa sentire in colpa o il pensiero del lavoro diviene costante.
Per questa ragione bisogna stare attenti.
In psicologia sono state definite differenti condizioni correlate al lavoro che minano il benessere della persona.
Tra queste si parla di stress lavoro correlato che è una situazione limite che, se non affrontata nel modo giusto può causare fenomeni di burnout.
L’incremento del ritmo e del carico di lavoro, pressioni emotive, precarietà e mancanza di equilibrio tra vita lavorativa e vita personale possono creare vissuti stressanti.
Lo stress lavoro correlato, così come ogni altra condizione stressante, varia da individuo a individuo. Si arriva a vivere il lavoro come stressante quando ci troviamo in una situazione difficoltosa e le usuali strategie messe in atto non si rivelano funzionali.
Laddove questa situazione di difficoltà si protrae nel tempo può sfociare in burnout che letteralmente significa crollo, esaurimento.
Cosa fare per migliorare il proprio benessere?
Se arrivi a sentirti in colpa perché non stai lavorando. Se mentre fai altro pensi al lavoro, qui ci sono piccoli suggerimenti pratici per migliorare la qualità delle tue giornate.
- Prima di iniziare la giornata lavorativa fai qualcosa che ti gratifichi. Qualcosa che ti dia la carica e ti faccia iniziare la giornata con il piede giusto. Concediti una colazione più lunga, fai esercizio, leggi il giornale. L’importante è dedicare del tempo a te.
- Lavora in uno spazio definito. Se sei in smart working è importante che tu riesca a definire fisicamente lo spazio del lavoro. Cerca di evitare gli spazi comuni e se non è possibile delimita in modo creativo lo spazio del lavoro dallo spazio di vita.
- Inizia la giornata scrivendoti una lista di cose da fare. Puoi provare a scrivere in sezioni diverse in modo da sapere “cosa farai oggi” per te, per il lavoro e per la famiglia.
- Definisci con precisione i tuoi orari di lavoro. Questo ti permetterà di compilare in modo più dettagliato la lista di “cose da fare oggi”
- Datti un tempo per “rigenerarti”. Piccole pause in cui sgranchirti le gambe e distogliere l’attenzione ti possono permettere di ripartire più efficace ed efficiente di prima.
Questi sono solo cinque piccoli accorgimenti che possono migliorare la tua giornata ed il rapporto con la dimensione lavorativa.
Se ti accorgi che non basta, che hai bisogno di piccoli aiuti per apportare anche piccole modifiche alla tua routine, o hai voglia di avere un confronto con un professionista per comprendere se le tue strategie per migliorare il benessere e ritrovare il tuo equilibrio sono efficaci, ti ricordo che ogni martedì, per un periodo limitato, dalle 18:00 alle 20:00 i terapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri aperti a tutti utilizzando la terapia a seduta singola.
Contattaci per maggiori informazioni inviando una e-mail a info@onesession.it oppure visita la nostra pagina Fb OneSession.it.
Bibliografia
Campanini, P. (2019). Stress lavoro-correlato e la sua valutazione. Giornale Italiano di psicologia, 79-86.
GLINT (2020). How employees are feeling right now. GLINT.
Kotera,Y., Vione, K. C. (2020). Psychological impacts of the New Ways of Working (NWW): A Systematic Review. International Journal of Enviromental Research and Public Health.
Psicologa e picoterapeuta in formazione. Utilizzo la terapia a seduta singola per permettere alla persone di raggiungere i propri obiettivi e massimizzare l’efficacia di ogni singolo incontro.
Ricevo a Caserta e On-line (Skype).
Genitori si nasce o si diventa? Come adattarsi all’arrivo in famiglia di un bambino!
L’emozione di diventare genitore
Diventare genitori è uno degli eventi più carichi a livello emotivo che un individuo possa vivere. Sia per gli uomini che per le donne, scoprire di essere in attesa di un bambino può far sperimentare emozioni diverse.
In particolare, è molto comune sperimentare emozioni quali gioia, sollievo, ma anche ansia ed in alcuni casi paura per le nuove responsabilità.
Secondo uno studio condotto nel reparto maternità di un ospedale portoghese, le emozioni più comuni verso il bambino nei primi due giorni dopo il parto erano positive; emozioni negative, come la paura, erano meno frequenti, ma presenti, e tendevano ad attenuarsi dopo i primi due giorni. Inoltre emerse che erano le neo mamme ad essere maggiormente spaventate per i cambiamenti.
La gravidanza e la successiva genitorialità vengono considerate dagli psicologi eventi “critici” , poichè richiedono ai neo genitori di rivedere le proprie abitudini e il proprio stile di vita. Questa consapevolezza potrebbe essere fonte di disagio o di stress, in quanto potrebbe essere necessario modificare profondamente gli equilibri precedenti.
Nonostante questo, l’opportunità di diventare genitore può favorire un profondo processo di crescita, sia personale che di coppia.
Cosa cambia nella coppia genitoriale?
Prima degli anni ’80 la ricerca psicologica tendeva ad escludere il padre, focalizzandosi sul rapporto madre-figlio; oggi si tende a riconoscere l’importanza di una sana relazione tra i genitori rispetto all’accudimento del bambino. L’esperienza della genitorialità permette alla coppia di evolversi, e alla relazione di maturare.
Spesso l’esperienza della nascita del primo figlio può comportare sostanziali cambiamenti nelle abitudini della famiglia, ripercuotendosi inevitabilmente sulla relazione tra mamma e papà. Ad esempio, avere gli orari scanditi dai bisogni e dai ritmi del bambino potrebbe richiedere di sacrificare il tempo prima destinato agli interessi.
Non tutti i genitori riescono a trovare subito un nuovo equilibrio; a volte questo processo può richiedere un periodo più lungo, ma questo non deve scoraggiare la coppia. Inoltre potrebbe succedere che la mamma dedichi molto del proprio tempo al bambino, facendo sentire il papà escluso dalla vita familiare, ed un po’ geloso dell’intensa relazione madre-figlio.
Oppure la mamma potrebbe sentirsi sommersa di responsabilità, bisognosa di maggiori attenzioni e supporto da parte del partner nella gestione del neonato. Per questi motivi, una relazione solida e orientata al dialogo tra i neo genitori rende più facile l’adattamento al ruolo genitoriale e ne accresce le competenze.
Parlare con il proprio partner delle difficoltà che si sperimentano e renderlo partecipe delle proprie preoccupazioni potrebbe aiutare la coppia a ritrovare l’agognata sintonia.
Le difficoltà di adattarsi alla nuova routine familiare
Prendersi cura di un neonato è sicuramente stancante, per via del grosso impiego di risorse che un bambino richiede. Potrebbe quindi essere frequente che i genitori si sentano stanchi e scoraggiati, magari non adatti rispetto al nuovo ruolo genitoriale.
Questi sentimenti potrebbero essere del tutto normali, e non devono far sentire i genitori inadeguati. Soprattutto per le madri è frequente sentirsi poco competenti ed avere paura a svolgere le azioni che riguardano la cura del bambino.
Avere paura o voler chiedere aiuto non rende una madre una cattiva mamma. In questi casi può essere utile rivolgersi al pediatra di fiducia per avere rassicurazioni in merito. In alternativa potrebbe essere utile richiedere un supporto psicologico per ricevere aiuto da parte di professionisti qualificati. A volte anche un singolo incontro può bastare per riuscire a gestire meglio lo stress e i cambiamenti.
Sul sito www.onesession.it potrai trovare un elenco di professionisti formati in Terapia a Seduta Singola che potranno aiutarti a raggiungere i risultati sperati ed uscire in tempi brevi dalla situazione di disagio.
Dott.ssa Fulvia Mariagrazia Messina
Bibliografia
Benvenuti P. (2008), Psicopatologia nell’arco della vita. Seid Editori
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018), Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti Psychometrics
Figueiredoa B., Costaa R., Pachecoa, A. & Paisb A. (2007).
Mother-to-infant and father- to-infant initial emotional involvement. Early Child Development and Care, 5, 521-532.
Gestire lo stress e tornare a stare bene sul posto di lavoro: come si fa? Ecco alcuni suggerimenti e strategie per fronteggiarlo!
Contrariamente a quanto si pensa di solito, non dobbiamo ed in realtà non possiamo evitare lo stress. Quello che possiamo fare, però, è riconoscerlo e gestirlo in modo efficace, cercando di trarne vantaggio, imparando i suoi meccanismi di funzionamento e adattando la propria filosofia di vita ad esso.
Ma procediamo con ordine.
Innanzitutto, che cos’è lo stress lavoro-correlato?
Sicuramente la maggior parte di voi potrà darne una definizione soprattutto in termini di sintomi: mal di testa, cattivo umore, difficoltà a concentrarsi, stanchezza cronica…
In letteratura, si definisce stress lavoro-correlato quella condizione che si verifica “nel momento in cui le richieste provenienti dall’ambiente lavorativo superano le capacità dell’individuo nel fronteggiare le richieste stesse”.
In Europa questa condizione sembra riguardare almeno un lavoratore su quattro e una delle conseguenze più negative per le aziende è l’assenteismo che provoca ritardi nello svolgimento quotidiano delle mansioni e ovviamente perdite economiche importanti.
Uno studio dell’Università Bocconi di Milano ha messo in risalto come per le donne, lo stress sia anche maggiore rispetto agli uomini: infatti, lo stress viene intensificato dall’esigenza di dover gestire la propria professione e la famiglia.
Quali sono i sintomi dello stress lavoro-correlato?
I sintomi possono essere di varia natura, ma per semplicità possiamo suddividerli in 4 grandi categorie:
- Fisici: mal di pancia, mal di testa, problemi dermatologici, difficoltà a prendere sonno e/o dormire, disturbi nella sfera sessuale, crisi respiratorie.
- Comportamentali: insicurezza, pressione, abbassamento dell’autostima, impazienza, impulsività, insicurezza, isolamento, aumento del consumo di sigarette o caffè durante il giorno.
- Lavorativi: assenteismo, infortuni, conflitti nelle relazioni lavorative, scarso rendimento nelle attività, problemi disciplinari.
- Psicologici: ansia, difficoltà di concentrazione, scarsa attenzione, umore depresso, attacchi di panico, crisi di pianto, stanchezza cronica, sensazione di avere la testa pensante o vuota.
Sicuramente una persona che soffre di stress lavoro-correlato avrà sperimentato o sta sperimentando questi sintomi, arrivando a pensare di essere inadeguata, sbagliata e pensare di dover lasciare il lavoro perché incapace.
Cosa fare per fronteggiarlo?
Per cominciare, potresti riflettere su questi punti:
Quali sono le cose che ti fanno più arrabbiare o agitare? Che cosa ti rende ansioso/a?
Rispondere a queste due domande ti può aiutare a focalizzare il problema e permetterti di restringere il campo rispetto a ciò che temi o che ti innervosisce.
Quando esci dall’ufficio sei in grado di lasciare lì i problemi?
Molto spesso, se non si riescono a lasciare le difficoltà lavorative fuori dalla porta di casa, può crearsi un corridoio pericoloso che fa circolare i problemi da lavoro a casa e viceversa, andando ad inquinare tutti e due gli ambienti. Un suggerimento è quello di trovare un gesto, un rituale, un’abitudine da fare prima di entrare in macchina dopo il lavoro o prima di entrare a casa, che ti permetta di percepire un distacco fra un ambiente e l’altro; come un segnale che ti faccia capire che stai chiudendo con la giornata lavorativa e stai passando ad altro. Come ogni buon training, deve essere ripetuto per un po’ prima che funzioni.
È davvero il luogo di lavoro a renderti nervoso/a?
Oppure scarichi in quell’ambiente la tensione che accumulo nella tua vita personale? Se così fosse, il problema non sarebbe collegato al lavoro, ma piuttosto a problematiche private.
Se ti rendi conto che il lavoro ti sta creando uno stress intollerabile e delle problematiche eccessive e, da solo, non riesci ad uscire da questa situazione, ti consiglio di consultare uno Psicologo.
Infatti, soprattutto con il metodo della Terapia a Seduta Singola (TSS), anche dopo il primo incontro potrai sperimentare concreti benefici ed essere un passo più vicino alla soluzione del problema ed al benessere.
Il segreto è ampliare la consapevolezza, riconoscere i comportamenti disfunzionali e dannosi ed agire con più ampie possibilità di scelta, così da poter trasformare i momenti difficili e critici in occasioni di crescita individuale, relazionale e lavorativa.
Non esitare quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito www.onesession.it, il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
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Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.
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Con il tuo psicologo ti concentrerai unicamente sul problema che vuoi risolvere e, se dopo il primo incontro hai bisogno di altro, la sua porta rimarrà sempre aperta per te. La terapia e la consulenza a Seduta Singola sono efficaci per una grandissima varietà di casi, come:
– Ansia, paure, fobie, ossessioni
– Umore (ad es. tristezza, depressione, disturbo bipolare e altro ancora)
– Problemi nelle relazioni sentimentali (ad es. problemi della coppia, dipendenze affettive e altro ancora).
– Problemi nelle relazioni familiari (ad es. gestione dei figli, della famiglia, problemi scolastici, problemi dei genitori e altro ancora).
– Problemi nelle relazioni con gli altri (ad es. difficoltà a comunicare/interagire in pubblico/sul lavoro/ecc., insicurezza nelle relazioni e altro ancora).
– Difficoltà nel rapporto con se stessi (ad es. bassa autostima, forte insicurezza, difficoltà legate all’orientamento sessuale e altro ancora).
– Dipendenze da sostanze (ad es. desiderio di smettere con alcol, farmaci, sigarette, droghe o altro ancora).
– Dipendenze di altro genere (ad es. dipendenza dal gioco d’azzardo, dal trading, da internet e altro ancora).
– Disturbi e problemi dell’alimentazione (ad es. anoressia, bulimia, binge eating, ortoressia e altro ancora).
– Problemi sessuali (ad es. difficoltà di erezione, dolori durante il sesso, calo del desiderio e altro ancora).
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Onesession.it è un progetto dell’Italian Center for Single Session Therapy26