La drunkoressia: bere di più per mangiare di meno
La Drunkoressia è un termine coniato per la prima volta dal “New York Times” nel 2008. Esso descrive un’eccessiva restrizione alimentare aumentando l’assunzione di alcool senza aumentare di peso (CBS News, 2008; Kershaw, 2008; Smith, 2008; Stoppler, 2008).
Attrae molto gli adolescenti e i giovani adulti. La Drunkoressia permette di consumare e/o continuare a consumare grandi quantità di alcool, pur mantenendo, o a volte diminuire, il peso corporeo.
La drunkoressia viene inserita nel DSM-5 tra i disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificato (NAS). L’età di insorgenza è la più varia.
Drunkoressia: l’importanza del contesto sociale
Nella società odierna, in cui forma fisica perfetta e controllo del cibo sono due pilastri fondanti delle abitudini ed attenzioni degli adolescenti, la Drunkoressia ha una grande influenza.
Tale comportamento influenza in particolar modo il sesso femminile, in quanto sempre più spesso vi è un ricorso eccessivo all’attività sportiva (Mond et al. 2008), in modo tale da poter bruciare drasticamente quantità eccessive di calorie, agendo cosi sulla riduzione di peso e la percentuale di grasso corporeo (Johnstone and Rickard 2006).
Nel momento in cui l’esercizio fisico viene in qualche modo cancellato o posticipato, la persona è pervasa da forti sensi di colpa (Mond et al. 2008).
Tra criteri diagnostici e sintomi
La Drunkoressia viene considerata nel DSM-5 come un disturbo del comportamento alimentare non altrimenti specificato (NAS).
I criteri diagnostici sono molto simili a quelli dell’anoressia nervosa: alimentazione selettiva, digiuno, ossessività per la magrezza.
Tale disturbo può insorgere a qualunque età, come nella maggior parte dei disturbi del comportamento alimentare. L’età della prima diagnosi negli ultimi anni si è abbassata da 15 a 9 anni.
I sintomi tipici riscontrati sono simili ad a quelli di un’intossicazione da alcool: Cefalea, sonnolenza, nausea, calo dell’attenzione, vomito e nei casi più gravi coma etilico.
Segnali d’allarme: Come riconoscere i comportamenti specifici
Diversi sono i comportamenti che possono destare allarme verso tale patologia:
- saltare i pasti, evitando così di assumere troppe calorie compensando l’apporto calorico dovuto dal consumo di bevande alcoliche,
- un eccessivo esercizio fisico, comportamento atto a compensare le calorie assunte dal bere
- assumere una quantità eccessiva di alcol al fine di avere la nausea e vomitare (Chambers 2008).
Il concetto di drunkoressia si compone quindi di tre dimensioni distinte: l’uso o abuso di alcol, disturbi alimentari e attività fisica.
Conseguenze fisiche tra comorbilità e patologie associate
La drunkoressia si accompagna molto spesso con la bulimia o anoressia. La persona arriva ad indursi il vomito per potersi disfare delle calorie in eccesso.
Altre volte non è presente nessun altro disturbo alimentare associato.
Diverse le patologie mediche associate alla drunkoressia a carico di vari organi: dall’apparato cardiovascolare, al sistema nervoso centrale, al fegato e l’apparato gastrointestinale. Denutrizione e anemia sono i sintomi fisici più frequenti. Carenza di vitamine e minerali creano reazioni fisiche come il collasso dell’organismo.
L’abuso di alcool può causare cirrosi epatica. La persona con drunkoressia considera le bevande alcoliche come un sostituto della dieta sana ed equilibrata. La gran quantità di alcool ingerita porta ad anestetizzare la fame.
Dalle cause ai fattori di rischio
L’insorgenza della drunkoressia è causa di un’adesione a modelli sociali e stereotipati di magrezza, difficoltà familiari o predisposizione individuale. All’origine della drunkoressia vi sono fattori biologici, psicologici, ambientali e culturali.
La drunkoressia se non trattata precocemente ed in modo adeguato tende a cronicizzarsi. Il suo decorso può essere caratterizzato da miglioramenti e successive ricadute. Molteplici fattori portano all’aggravarsi della sintomalogia come le complicanze mediche, il sottopeso e la scarsa motivazione al cambiamento.
Drunkoressia: Prevenzione e trattamento
Importante per una buona prevenzione è l’educare gli adolescenti al contrasto della cultura dello “sballo”. È fondamentale che i genitori o persone vicine ne possano individuare i primi segnali di allarme. Non è facile il lavoro con chi è affetto da drunkoressia, come d’altronde per qualsiasi altro disturbo del comportamento alimentare. Si rimanda per la buona riuscita del trattamento ad interventi di psicoterapia individuale e/o di gruppo. (Larimer, M. E., & Cronce, J. M. 2002)
Senti il bisogno di essere aiutato?
Chiedi aiuto a One Session
One Session è il nostro servizio, in cui siamo a tua disposizione quotidianamente con un colloquio di Terapia a Seduta Singola completo.
Ti aiuteremo fornendoti strumenti e tecniche che ti permetteranno di rimetterti in gioco e sbloccare comportamenti non funzionali al tuo benessere.
One Session è un servizio di ascolto psicologico che lavora con una sola seduta.
Ogni settimana saremo a tua disposizione. Prendi appuntamento compilando il form (clicca qui) e consulta le nostre pagine social di Facebook e di Instagram.
Riferimenti Bibliografici
CBS News (2008). Drunkorexia: Health dangers for women. Retrieved on May 25, 2009
Chambers, R. (2008) Drunkorexia. Journal Of Dual Diagnosis 4, 414-416.
Johnstone, J.R. and K.M. Rickard (2006) Perceptions of college women with disordered eating and exercise patterns. Social Behavior & Personality: An International Journal 34, 1035-1050.
Kershaw, S. (2008, March 2). Starving themselves, cocktail in hand. New York Times.
Larimer, M. E., & Cronce, J. M. (2002). Identification, prevention, and treatment: A review of individual-focused strategies to reduce problematic alcohol consumption by college students. Journal of Studies on Alcohol, 63(Suppl.14), 148-163.
Mond, J., T. Meyers, R. Crosby, P. Hay and J. Mitchell (2008) Excessive exercise and eating-disordered behaviour in young adult women: further evidence from a primary care sample. European Eating Disorders Review 16, 215-221.
Smith, R. (2008). Drunkorexia slimmers skip means for alcohol. Daily Telegraph. Retrieved on May 25, 2009
Stoppler, M.C. (2008). Drunkorexia, manorexia, diabulimia: New eating disorders? MedicineNet. Retrieved on May 25, 2009.
Psicologa clinica e della riabilitazione, psicoterapeuta in formazione. Ho conseguito un Master in psicodiagnostica clinica e forense. Lavoro come libera professionista e collaboro con un centro di psicologia( Alternativamente) nella provincia di Roma. Sono mamma di tre bambini.
Drogati di lavoro: la sindrome del workalcholism
Che cos’è il workalcholism?
La sindrome da dipendenza da lavoro altrimenti detto work-alcholism, rientra nella diagnosi dei disturbi ossessivi compulsivi
Indica il comportamento di una persona che soddisfa il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente, talmente tanto da relegare o addirittura annullare ogni altro piano della propria vita sociale e familiare, con inevitabili conseguenze su se stessa e sui propri familiari.
Che si tratti di un problema è un concetto al quale si è giunti abbastanza di recente. Solo nel 1969 si registra il primo caso accertato di persona deceduta a seguito dello stress accumulato per il troppo lavoro. In Giappone.
E il termine work-alcholism viene coniato da Wayne Oates (medico-psicologo, 1917-1999) nel suo libro Confessions of workaholics: the facts about work addiction, solo nel 1971.
Fino a quel momento la cultura prevalente ammirava una persona dedita al lavoro che al massimo veniva definita stacanovista.
Non sorprende che nella popolazione comune questo concetto è rimasto ad oggi sostanzialmente invariato.
Ricordo personalmente di manager che, vedendo uscire un proprio collaboratore dall’ufficio alle 18, lanciassero battute del tipo “Mezza giornata oggi?”.
La situazione pandemica che ci accompagna ormai da un anno e la necessità di attivare modalità di lavoro diverse dalla presenza in ufficio hanno contribuito a rafforzare questo concetto.
Nei corsi di sviluppo delle competenze per lavorare da remoto che tengo ormai dal 2017, i partecipanti segnalano costantemente la difficoltà di dividere il lavoro dalla vita privata, lamentando di essere costantemente connessi e di controllare la posta elettronica anche durante i risvegli notturni.
Quando possiamo dire di trovarci di fronte ad un comportamento patologico di workalcholism?
Spence e Robbins (1992) definiscono il workaholic una persona “estremamente dedita al lavoro che si sente costretta o spinta da pressioni interne a lavorare ed è poco appagata da esso”.
La prima dimensione da prendere in considerazione è il tempo dedicato al lavoro rispetto al tempo di vita in generale. Un recente articolo del sole24 ore dedicato a questo tema indica che circa il 32% degli intervistati (giovani millennials) afferma di lavorare anche in bagno.
E, per quanto stravagante, mi risuona familiare. Ricordo di aver risposto al mio capo nel 2009, a quel tempo lavoravo in azienda, che aveva la pessima abitudine di urlarmi contro quando non rispondevo al telefono entro il terzo squillo.
Anche la filmografia propone spesso situazioni di questo tipo. Per esempio, nel film Workaholic del 1996 (regia di Sharon von Wietersheim) si racconta di una coppia non sposata e senza figli, dove il lavoro giustificato dal mantenimento di una certa ‘agiatezza economica di entrambi finisce per distruggere la loro relazione.
La seconda riguarda i pensieri. Si dimenticano anniversari e compleanni, le preoccupazioni riguardano esclusivamente questioni lavorative. Il pensiero è fisso sul lavoro. Il desiderio di successo, di appagamento è tale da generare una spirale di sempre maggiore impegno.
La terza riguarda lo scopo di vita. Chi vive nella condizione di work alcholism, non riesce ad immaginarsi oltre il lavoro. Non c’è progettualità rispetto a vacanze, festività, tempo libero o cambiamenti importanti nel ciclo di vita
In questa dimensione l’individuo si trova isolato rispetto agli affetti di familiari e amici.
Perde interesse negli altri e nella propria vita di relazione. Ha difficoltà a dormire, fa uso eccessivo di sostanze eccitanti per mantenere nell’arco delle ore lucidità mentale, mostra irritabilità. Necessita di avere le situazioni sotto controllo.
Le conseguenze possono essere anche molto gravi: isolamento, depressione, infarti cardiaci o ischemie fino all’estremo gesto di togliersi la vita.
Cos’è dunque che spinge le persone a questi comportamenti?
Le motivazioni possono essere estrinseche ovvero correlate all’ambiente di riferimento e/o intrinseche, dipendenti cioè dall’individuo e dai suoi meccanismi di funzionamento. In altre parole, l’ambiente può fornire pressioni verso la ricerca di alti livelli di performance.
Il libero accesso a strumenti e dotazioni tecnologiche consente alle persone di essere sempre connesse con “l’ufficio”.
Un contesto competitivo magari promosso proprio dal manager o da una cultura aziendale.
Le cause intrinseche sono connesse ai bisogni di affermazione, successo, potere che possono esprimersi per effetto della continua ricerca di conferme del proprio valore, il controllo maniacale dovuto alla paura di non essere all’altezza, non essere mai completamente soddisfatto di sé.
Robinson lo definisce come “l’’incapacità di regolare le proprie abitudini di lavoro ed eccessiva indulgenza nel lavoro fino all’esclusione delle altre principali attività della vita”.
Come uscirne?
Occorre costruire una rete di intervento che lavori su due livelli, quello del singolo work alcholist e quello dell’organizzazione.
Per quanto concerne il singolo, nella logica delle terapie brevi, intervenire su una sindrome di workalcholism dovrebbe prevedere una ristrutturazione delle percezioni e dei comportamenti andando a spezzare il legame perverso di appagamento-frustrazione tipico, ad esempio con una prescrizione paradossale.
Un altro intervento riguarda la cultura organizzativa, andando a sensibilizzare i managers e collaboratori nel preservare un buon worklife balance come, ad esempio, portare a termine il lavoro all’interno dell’orario di lavoro, distribuire correttamente i carichi di lavoro, le attività e le responsabilità.
Ancora si può prevedere un meccanismo premiante che affianchi alla logica prestativa del raggiungimento degli obiettivi anche i virtuosi comportamenti di completamento delle attività nei tempi ordinari, disincentivando una iper connessione.
Al contrario, potrebbero essere premiati interessi ampi e la partecipazione a programmi extra professionali.
In conclusione, è vero che il lavoro nobilita l’uomo, ma mi raccomando, praticate un “buon lavoro”.
Se vuoi puoi parlarne con i nostri Psicologi ogni martedì dalle 18.00 alle 20.00, i terapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri online gratuiti utilizzando la Terapia a Seduta Singola. Contattaci per maggiori inviando una email a info@onesession.it oppure visita la nostra pagina Fb OneSession.it
Bibliografia e sitografia
Allarme workaholism, i giovani lavorano troppo (il 32% lo fa anche in bagno) – Il Sole 24 ORE (Allarme workaholism, i giovani lavorano troppo (il 32% lo fa anche in bagno) – Il Sole 24 ORE) consultato in data 17/03/2021)
Workaholism: Definition, measurement, and preliminary results, Journal of Personality Assessment di Spence J.T., Robbins A.S.
Bryan E. Robinson. A Guidebook for Workaholics, Their Partners and Children, and the Clinicians Who Treat Them. New York University Press, 1998
Confessions of a workaholic: The facts about work addictiondi Oates W.
Gioacchino Lavanco, Anna Milio, Psicologia della dipendenza da lavoro, (in italiano) Roma, Astrolabio, 2006
W.E. Oates. Confessions of a Workaholics: the Facts about work addiction. New York, World Publishing, 1971
Andrea Castiello D’Antonio, Malati di lavoro. Cos’è e come si manifesta il Workaholism, (in italiano) Roma, Cooper, 2010
Monica Grassi, Psicologa della prestazione umana con esperienza di lavoro su singoli e gruppi a livello privato e aziendale. Utilizzo le tecniche della Terapia Breve per sostenere e accompagnare i processi di cambiamento personali e professionali. Ai principi della Terapia a Seduta Singola affianco tecniche di contatto del sé attraverso il corpo e la respirazione che aiutano a lavorare ad un livello emotivo profondo.
Quando bere è la soluzione (disfunzionale)
Quando parliamo di alcol spesso ci viene in mente la dipendenza da questa sostanza. Di questo, certamente, se ne occupano in modo efficace ed efficiente i servizi addetti.
Esistono, però, oltre ai casi più gravi ed invalidanti, delle situazioni in cui il bere diventa un problema: quando è l’unico modo per divertirsi, per distrarsi, per risolvere un problema.
In questo caso parliamo di abuso di alcol o di uso problematico, che può essere trattato e risolto in tempi brevi senza necessariamente rivolgersi ad un servizio.
Ma facciamo chiarezza.
Quand’è che siamo di fronte ad una dipendenza?
Secondo il DSM-5 (il manuale di classificazione dei disturbi mentali) si può parlare di dipendenza da alcol se sono presenti almeno 2 di questi criteri:
- L’alcol è spesso assunto in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dalla persona
- La persona desidera spesso ridurre o controllare l’uso dell’alcol, ma non riesce a farlo, i suoi tentativi sono sempre fallimentari
- La persona spende una grande quantità di tempo in attività necessarie a procurarsi l’alcol (per es. guidando per lunghe distanze), ad assumerla (per es., passando il tempo ad ingerire una grande quantità di acolici), o a riprendersi dai suoi effetti
- La persona prova una forte smania, un forte desiderio di bere (craving)
- Usa in modo ricorrente l’alcol, con conseguente fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa
- Beve in modo continuativo nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o peggiorati dagli effetti dell’alcol
- Compromissione di importanti attività sociali, lavorative o ricreative che vengono interrotte o ridotte a causa del bere
- Beve spesso in situazioni nelle quali farlo è fisicamente pericoloso
- Beve di continuo nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato o intensificato dall’alcol
- Sperimenta la “tolleranza”, cioè: a) il bisogno di bere quantità sempre maggiori di alcol per raggiungere l’effetto desiderato; b) un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità di alcol
- Sperimenta i sintomi di astinenza, cioè: a) vive la caratteristica sindrome di astinenza per la sostanza; b) l’alcol (o un’altra sostanza strettamente correlata) è assunto per attenuare o evitare i sintomi dell’astinenza stessa.
Bere è il problema o la soluzione?
L’alcol ed in generale il bere può essere considerato come la soluzione disfunzionale che la persona mette in atto per risolvere un problema o una difficoltà.
Che significa “soluzioni disfunzionali”?
Sono tutti quei comportamenti che hai messo in atto per risolvere il problema, e che non sono non lo hanno risolto, ma lo hanno addirittura peggiorato.
Facciamo degli esempi.
- Hai iniziato a bere per sentirti più rilassato?
- Per riuscire a socializzare meglio con gli altri?
- Per non pensare e non affrontare una difficoltà della tua vita?
- Per mettere a tacere delle emozioni spiacevoli?
Qualunque sia il motivo che ti ha spinto a bere, quello diventa l’arma per far fronte a qualcosa che non riesci a gestire, controllare o affrontare.
Ed è proprio la soluzione che diventa il problema. Perché effettivamente quando bevi ti senti più rilassato, socializzi in modo più spigliato, non pensi ai problemi e non senti le emozioni.
Solo che…bere non ha davvero risolto la tua difficoltà!
Come può aiutarti la Terapia a Seduta Singola?
Lo scopo principale è quello di far vedere alla persona che c’è uno scenario oltre il problema in cui è rimasta intrappolata e, contemporaneamente, bloccare tutte quelle azioni che mette in atto e che non risolvono il problema.
Infatti, più la persona beve e utilizza questo comportamento come soluzione ai suoi problemi di altra natura, più conferma a se stessa che senza l’alcol non è in grado di risolverli.
Se tu pensi che per essere più spigliato con gli altri hai bisogno dell’alcol, ti stai confermando che senza l’alcol non sei capace di farlo. Ed ecco che la soluzione diventa il problema.
Quindi, bloccare queste soluzioni disfunzionali sarà utile per rapportarsi in modo diverso a quelle situazioni che creano disagio e malessere e trovare un modo più funzionale e, soprattutto risolutivo, per affrontarle e superarle.
Spesso si parte proprio dalle risorse della persona, per individuare quali sarebbero le prime cose che potrebbe fare per cambiare il proprio rapporto col bere.
Smettere di abusare dell’alcol è possibile. Ricerche condotte nel campo dell’abuso di sostanze e delle dipendenze hanno mostrato come spesso anche una sola seduta porta dei concreti miglioramenti.
Se sei interessato alla Terapia a Seduta Singola ogni martedì per un periodo limitato, dalle 18:00 alle 20:00 gli Psicologi e gli Psicoterapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri gratuiti aperti a tutti.
Bibliografia
Barry, K. L. (1999). Brief Interventions and Brief Therapies for Substance Abuse: Treatment Improvement Protocol (TIP) Series 34. Rockville: U.S. Department of Health and Human Services.
Berg, I. K. & Miller, S. (1992). Quando bere diventa un problema. Milano: Ponte alle Grazie, 2001.
Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.
Come affrontare la dipendenza da cocaina ed uscirne in tempi brevi?
A., è un uomo di 37 anni che vive con una compagna da cui ha avuto una figlia che oggi ha 4 anni. La loro relazione è buona e stabile. A. lavora come cuoco in un noto ristorante della sua città. In passato aveva provato ad aprire una propria attività sempre nell’ambito della ristorazione, ma ci sono state numerose complicazioni ed ora si trova con molti debiti da pagare ai fornitori e alle banche.
La chiusura dell’attività è stata per A. un durissimo colpo ed ha iniziato ad avvicinarsi alla cocaina proprio in seguito a quell’evento. Mi dice che quando fa uso di cocaina ha la sensazione di dedicarsi effettivamente a se stesso, di essere “immune” agli eventi circostanti. La cocaina per lui è un modo di interrompere il flusso dei pensieri, le emozioni, gli stati d’animo negativi e mollare tutto il resto.
Vorrebbe smettere perché si rende conto di quanto il suo consumo sia inutile, sbagliato e di quanto stia facendo soffrire la sua compagna…ma tutti i tentativi che ha fatto sono andati in fumo perché ogni volta ci è ricascato, perdendo fiducia in se stesso e nella possibilità di smettere.
Mi dice che è come se la cocaina gli servisse sia per “staccare la spina”, sia per mantenere la sua performance lavorativa. Afferma di non aver mai perso il controllo rispetto all’uso della sostanza e che non si sente un “tossico” come chi consuma eroina o altre droghe.
Prima di dirti come ho aiutato A….
…Facciamo una premessa
La cocaina è usata e diffusa nelle più varie fasce sociali e di età. Se ne fa spesso un uso pubblico e disinvolto, incontrando una valutazione “positiva” nei più diversi ambienti e contesti socioculturali.
I consumatori di cocaina, spesso, hanno la percezione che non solo la sostanza sia compatibile con la loro normale quotidianità, ma anche che essa sia una opportunità per migliorare se stessi e le proprie capacità, soprattutto a livello lavorativo. Inoltre, la cocaina può anche essere considerata come una non-droga da chi la consuma, tanto da non ritenersi un dipendente e differenziandosi nettamente da chi consuma altre sostanze.
Quindi, nell’aiutare A. ho dovuto tenere in considerazione queste premesse, che si riflettevano in lui come convinzioni (erronee) rispetto all’uso della sostanza.
4 linee guida per l’intervento in terapia
Tutte le dipendenze oltre ad avere in comune gli aspetti di tolleranza, astinenza e perdita di controllo rispetto alle aree della propria vita, sono accomunate da un unico grande fattore che spinge il consumatore ad iniziare e mantenere un comportamento di consumo: il piacere.
Il piacere è una delle sensazioni base nell’uomo, ma può anche diventare il trampolino di lancio per un disturbo e, in questo caso, una dipendenza.
Dal mio punto di vista, reputo efficaci 4 strategie per l’intervento con una persona che ha una dipendenza:
- diminuire il valore gratificante della sostanza e sostituire quell’esperienza di piacere (effimero) ad un’altra esperienza sana;
- indebolire i comportamenti che danno il calcio di avvio al consumo;
- potenziare il controllo sulle proprie azioni;
- immaginare uno scenario oltre il problema, procedendo a piccoli passi
In che modo ho aiutato A.?
Sulla base del lavoro fatto in seduta sui 4 punti appena elencati, ho inviato A. ad eseguire alcuni semplici compiti fino all’incontro successivo.
“Fino al nostro prossimo incontro vorrei che tu facessi attenzione e notassi tutti i segnali della tua vita, a casa, a lavoro, nel tempo libero, che ti fanno dire che sei un gradino più in su nei prossimi giorni. Tutti quelli che noterai e che ti ricorderai, me li racconterai e questo sarà ciò che ti chiederò la prossima volta.
Oltre a questo ti chiedo di comprare un quadernino che userai nel momento in cui ti sta salendo la voglia di consumare, né prima né dopo, ma nel momento stesso in cui ti sta venendo. È molto importante per me che tu lo compili in questo modo, scrivendo data e ora, luogo, situazione specifica, persone presenti, pensieri, sintomi e reazioni. Ci servirà per capire la frequenza e l’intensità della tua voglia di consumare. Per questo ti chiedo di portarlo sempre con te ed utilizzarlo ogni volta che avrai voglia di cocaina.”
Se anche tu hai un problema di dipendenza, puoi provare a fare questi semplici compiti per due settimane e dirmi come sta andando.
Se, invece, ti rendi conto di aver bisogno di un aiuto in più, puoi sempre contattare uno Psicologo formato in Terapia a Seduta Singola che può aiutarti già dopo un unico incontro.
Cerca sul nostro sito https://www.onesession.it/ il terapeuta più vicino a te (o anche online) e più adatto alle tue esigenze.
Se vuoi rimanere aggiornato metti like alla nostra Pagina Facebook.
Bibliografia
Nardone G., De Santis G. (2011). Cogito Ergo soffro. Milano: Ponte alle Grazie
Rigliano P. (2004). Piaceri drogati. Psicologia del consumo di droghe. Milano: Feltrinelli
Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.
Dipendenza affettiva: come uscirne?
Ti senti spesso triste ed in ansia quando sei con il tuo partner?
I tuoi bisogni passano sempre in secondo piano rispetto ai suoi?
Per evitare di litigare, accetti sempre le sue volontà?
Se non ti senti sicura, se ti senti spesso in ansia, se non senti di avere la libertà di esprimere le tue idee o semplicemente di essere come sei, ma allo stesso tempo non riesci a staccarti da questo partner, penso che tu non stia vivendo una relazione sana.
Quando usiamo il termine “dipendenza” pensiamo immediatamente alla dipendenza da sostanze o dal gioco d’azzardo. Esistono invece quelle dipendenze dette “senza sostanza”, che portano appunto la persona ad esser dipendente da un comportamento o da una relazione.
Sì, hai capito bene. Si può essere dipendenti anche dalle relazioni.
Che significa?
“La mia vita senza te non ha senso”: questa è la frase pronunciata più frequentemente da chi soffre di dipendenza affettiva. È quel tipo di rapporto fusionale, simbiotico dove vi è un eccessivo investimento di emozioni e di tempo da parte di chi è dipendente per esaudire i bisogni ed i desideri dell’altro, annullando molto spesso i propri.
Nella prima fase del rapporto vi è una grande euforia data dalla relazione con il partner, che diventa motivo di benessere e di felicità.
Successivamente, proprio come accade nella dipendenza da sostanze, il partner dipendente necessiterà di “dosi” sempre maggiori dell’altro per ottenere lo stesso effetto di benessere: così, si richiede che l’altro sia presente per un tempo sempre maggiore, identificandolo come l’unica forma di piacere e gratificazione.
Infine, si arriva all’astinenza, dove è impossibile fare a meno dell’altro. In questa fase spesso si è davanti ad un bivio: scegliere fra il desiderio irrefrenabile di stare con l’altro e il bisogno della propria autonomia.
Inutile dirvi verso quale scelta si dirigerà il dipendente affettivo.
Come faccio a capire se sono una dipendente affettiva?
Di seguito troverai delle caratteristiche che possono aiutarti a capire se sei una dipendente affettiva. Ovviamente sono solo delle caratteristiche, che non hanno la presunzione di essere una “diagnosi” o un’etichetta, piuttosto possono darti una mano per fare chiarezza rispetto alla tua relazione.
In quali ti ritrovi?
- Non puoi fare a meno di stare con il tuo partner
- Ti senti inferiore a lui
- Non riesci a capire quali cose lo spingano a restare con te
- Sei molto gelosa
- Non riesci a fare le cose da sola e richiedi spesso il suo aiuto
- Hai difficoltà a stare sola
- I tuoi bisogni e desideri possono aspettare, perché prima devi soddisfare i suoi
- Hai paura di essere lasciata e di rimanere sola
- Gli perdoni bugie, tradimenti e comportamenti aggressivi pur di stare con lui
- Quando le tue amiche ti fanno notare che qualcosa non va, neghi l’evidenza
- Sei disposta a subire maltrattamenti fisici e psicologici pur di non perderlo.
Spesso chi soffre di dipendenza affettiva fa fatica a riconoscere questi segnali come un problema, ma al contrario quando ha un problema, paradossalmente, si rifugia proprio nella relazione, alimentando l’incapacità di staccarsi dal partner.
È difficile che chi vive una situazione del genere arrivi in terapia per questa difficoltà; infatti, spesso si rivolge ad uno specialista per altri tipi di problematiche come ansia, attacchi di panico, sintomi somatici, disturbi dell’umore o del sonno. Questi disturbi potrebbero, appunto, essere la punta dell’iceberg di un problema diverso.
Come uscire da una dipendenza affettiva?
Non è facile, ma posso garantirti che è possibile.
Sicuramente devi riuscire ad ammettere che la relazione che stai vivendo è una relazione disfunzionale che ti rende insicura ed infelice, prendere consapevolezza di quello che stai vivendo. Poi puoi procedere in questo modo:
- Osserva attentamente la situazione e comincia ad analizzarla ed a riflettere su come poterla gestire e risolvere. Crea un tuo “piano d’azione” che ti permetta giorno dopo giorno, passo dopo passo, di prenderti le tue libertà e di ritrovare la tua autonomia, anche a piccoli step. Puoi provare a fare una sorta di calendario delle libertà, dove ogni giorno segni il tuo piccolo gesto “libero” da fare completamente da sola. Scegli qualcosa che ti piace, che ti rende serena e che soprattutto condividi solo con te stessa.
- Potrebbe anche essere utile scrivere un diario: dai tuoi appunti, infatti, puoi riconoscere una certa ricorrenza nel modo in cui pensi e agisci, sfruttando l’occasione per diventare più consapevole rispetto a “come funzioni”.
- Se ti rendi conto che la relazione che stai vivendo è dannosa e rischiosa per te, puoi decidere di chiuderla, interrompendo il circolo vizioso che si è creato fra te ed il tuo partner. Infatti, spesso si resta incastrati fra le sempre più alte pretese dell’altro ed il completo annullamento di se stessi per soddisfarle. Si ha l’erronea convinzione che per realizzare un rapporto sereno sia necessario il sacrificio. Ed è proprio tale concezione che alimenta il circolo vizioso della dipendenza affettiva.
Senti di non farcela?
Immagino che non sia facile e, proprio per questo, puoi rivolgerti ad uno specialista per uscire da questa situazione. Pensa, è stato dimostrato che, già dopo una Singola Seduta puoi ottenere dei concreti benefici.
Cosa aspetti quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola?
Cerca sul nostro sito www.onesession.it il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
Se vuoi rimanere aggiornato iscriviti alla nostra Pagina Facebook onesession.it.
Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.
Piccoli trucchi per riconoscere il gioco d’azzardo patologico
Il gioco d’azzardo esiste da sempre…
Già nel 4500 a.C. in Egitto si giocava a Senet, una sorta di moderna scacchiera con cui interpretare il volere degli dei.
Negli ultimi anni, le forme di gioco d’azzardo si sono moltiplicate: gratta e vinci, scommesse sportive, slot, fino ai giochi telematici come il 10 e lotto e le scommesse virtuali. Parallelamente, si sono moltiplicate anche le “occasioni” di gioco, che hanno esteso la “categoria” di giocatore a uomini e donne di ogni età, istruzione ed estrazione sociale.
Di fatto, oggi tutti possono aver accesso ai giochi d’azzardo: giocare costa poco, non occorre essere in più persone per farlo, è molto semplice ed è soprattutto rapido e lo si può fare senza nemmeno uscire di casa, semplicemente dal Pc o dal proprio smartphone.
Pensiamo ad una giornata tipo: quanti di voi entrano almeno una volta in un bar o in una tabaccheria? Chi, alla vista delle luci e degli effetti sonori che promettono facili vincite, non ha mai pensato di tentare la sorte inserendo una monetina, barrando i propri numeri fortunati o acquistando un gratta e vinci?
Giocare qualche volta non è certo un problema, ma se “il tentare la fortuna” diviene costante e il pensiero del gioco inizia ad essere sempre più frequente fino a condizionare la nostra vita quotidiana, è forse il caso di porci qualche domanda. Il pericolo più grande è iniziare a pensare che un evento casuale divenga più o meno probabile in base ai risultati pregressi.
Sembra irrazionale, ma è questo quello che succede ogni volta che ci diciamo “ieri non è andata, magari oggi si”. Questo meccanismo non è fondato sui fatti: la probabilità che esca un numero al lotto è sempre 1 su 90. E ogni volta si riparte da zero. Ne siamo tutti consapevoli, eppure questo è uno tra i meccanismi psicologici che maggiormente incidono sul “vizio” del gioco, che, in Italia, si sta diffondendo sempre più.
Nel Libro Blu dell’Agenzia Dogane e Monopoli, si legge che nel 2017 i giocatori italiani hanno speso 18.990.000.000 di euro con un aumento di circa il 10% rispetto al 2015. Tale aumento è dovuto dall’incremento dei soldi spesi nel gioco e dall’aumento del numero di giocatori e di conseguenza, dall’aumento dei soggetti a rischio di sviluppare quello che oggi chiamiamo gioco d’azzardo patologico o più comunemente ludopatia.
Facciamo un gioco…
Ti piace giocare d’azzardo ma non sai se questo può essere un problema? Esistono differenti modi per capire quando la semplice “monetina” si trasforma in qualcosa di più. Al riguardo, è fondamentale ricordare che il gioco d’azzardo patologico è una forma di dipendenza che, differentemente dalle altre, non comporta l’assunzione di una specifica sostanza (come nel caso della droga o dell’alcool) e che questo può rendere più difficile percepirla sia per te che per chi ti circonda.
Ciononostante, esistono sicuramente “segnali” che ti possono aiutare a comprendere la tua situazione.
Prova a rispondere a queste domande:
1. Nel corso del tempo hai percepito l’esigenza di giocare con più frequenza e investire sempre più denaro? Giocare, ti crea uno stato di euforia ed eccitazione?
2. Ti capita di non avere la possibilità di giocare e vivere quel momento come fastidioso? Diventi nervoso, irrequieto, irritabile?
3. Ti capita di dire a te stesso “da domani smetto” o “smetto quando voglio” senza poi riuscirci?
4. Nel corso del tempo hai notato che pensi sempre più spesso al gioco? Questo pensiero ti risuona in mente anche in momenti in cui sei concentrato su altro?
5. Se perdi al tuo gioco preferito decidi di riprovarci? Ti capita di tornare nello stesso luogo per poter “ritentare la fortuna”?
Houston, abbiamo un problema. Ma niente paura… Attenzione. Questi sono campanelli di allarme che possono suggerirti che, prima che si instauri una vera e propria dipendenza, potrebbe essere il caso di chiedere aiuto.
Come faccio a smettere di giocare?
Il divenire giocatore d’azzardo patologico segue un processo graduale, quindi se ti è venuto anche un piccolo dubbio rivolgiti ad un professionista. Le metodologie di intervento possibili sono numerose e differenti tra loro. A prescindere dalla strada che ti sembra più efficace, quel che conta è non aspettare e, soprattutto, non credere a quello “smetto quando voglio” se già più volte si è rivelato fallimentare.
Non è detto che la tua condizione sia grave: a volte il solo esporre a qualcuno la tua problematica può aiutarti ad inquadrarla meglio.
Se non sai a chi rivolgerti puoi far riferimento ai molteplici servizi di aiuto che vengono messi a disposizione dallo Stato o puoi consultare il sito www.onesession.it. Qui troverai un elenco di professionisti formati in terapia a seduta singola che già dal primo (e forse unico) incontro, ti potranno fornire strumenti concreti grazie ai quali avviare il tuo processo di cambiamento.
Dott.ssa Roberta Miele
Bibliografia
Agenzia Dogane e Monopoli. (2017). Libro Blu 2017. Organizzazione, statistiche e attività. Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.
Tani, F., & Ilari, A. (2016). La spirale del gioco. Il gioco d’azzardo da attività ludica a patologia. Firenze: Firenze University Press.
Sei dipendente dallo smartphone? Ecco alcuni indizi per capirlo…
Il grande sviluppo della tecnologica, con i suoi indiscutibili vantaggi, ha portato ognuno di noi a inglobare lo smartphone in quasi tutte le azioni della nostra vita. Infatti, se ci pensate un attimo…Dove puntate la sveglia la sera? Quale dispositivo utilizzate per scattare le foto? E quando non sapete una strada come fate?
Queste semplici domande ci permettono di realizzare che è quasi impossibile pensare ad una giornata senza smartphone.
Però, nonostante la sua utilità per molteplici azioni, bisogna prestare attenzione a non diventarne schiavi e dipendenti. Una ricerca svolta da Motorola nel 2017 ha dimostrato che il 33% dei partecipanti dà priorità allo smartphone rispetto all’interazione con altre persone e 2 intervistati su 3 ammettono di sentirsi in panico pensando di trovarsi nella situazione di smarrimento o furto dello smartphone.
“Nomofobia”: questo il termine tecnico che si usa per indicare la dipendenza da cellulare, una paura di restare sconnessi dal “mondo”, o meglio quella che gli inglesi definiscono la Fear Of Missing Out, cioè la fobia di essere tagliati fuori.
Ma quali sono i segnali che ci permettono di capire che siamo dipendenti dallo smartphone?
- Ignorare le persone durante una conversazione: i rapporti umani e sociali vengono trascurati e messi in secondo piano rispetto a ciò che avviene online. In questo caso si percepisce proprio una difficoltà a staccarsi dallo schermo, che sembra essere l’unica “relazione” interessante attorno alla persona.
- Controllare ossessivamente notifiche e chat: lo schermo si illumina…potrebbe essere un like ad una foto di Instagram o un nuovo follower o la condivisione dell’ultimo post su fb. Il denominatore comune è guardare con una certa smania il telefono appena arriva una notifica per verificare se siano arrivati messaggi su whatsapp o like alle foto.
- Sintomi di malessere quando non è possibile usare il cellulare: se il cellulare si scarica o se, per sbaglio, viene dimenticato a casa o in macchina, si presentano sintomi di malessere e la persona prova frustrazione, come se fosse in una piena crisi d’astinenza.
- Ansia e paura di perdere informazioni in rete: questo porta la persona a controllare continuamente il cellulare per il desiderio di monitorare gli altri e le loro azioni, ma anche monitorare se stessi ed il proprio “successo” sui social.
È possibile uscirne?
Senza dubbio il primo importante passo è quello di riconoscere che tipo di rapporto si ha con lo smartphone e quanto questo sia presente ed invalidante per la nostra vita.
Uno strumento per combattere la dipendenza da smartphone, paradossalmente, è proprio lo smartphone stesso.
Infatti, soprattutto negli ultimi anni, sono state create numerose applicazioni che permettono di monitorare l’uso del cellulare, registrando il numero di volte che si controlla o il tempo passato su ogni singola App. Fra queste applicazioni, ricordiamo App Usage che è raccomandabile per darsi delle regole per l’utilizzo del telefono, alternandolo a momenti di “disconnessione”.
Oltre a questa App, come consiglio generale può essere utile disattivare le notifiche che sono le principali “tentazioni” che ci portano ad aprire lo smartphone e controllarlo.
Qualora queste piccole ma importanti strategie non dovessero funzionare o risolvessero il problema solo in parte, è consigliabile consultare un professionista per ricevere un aiuto mirato e concreto, anche in tempi brevi. Infatti, attraverso l’utilizzo della Terapia a Seduta Singola, è possibile, con specifici interventi e manovre, intervenire sul problema ed ottenere benefici in tempi brevi, ricavando il massimo anche da un singolo incontro.
Non esitare quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito onesession.it, il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
Se vuoi rimanere aggiornato iscriviti alla nostra Pagina Facebook onesession.it
Bibliografia
Guerreschi C. (2014), Mobile Addiction. La dipendenza da cellulare, Edizioni San Paolo: Roma.
Portelli C., Papantuono M., (2017), Le nuove dipendenze. Riconoscerle, capirle, superarle. San Paolo Edizioni: Roma.
Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.
Scopri se sei una dipendente affettiva
Se hai questo pensiero ovviamente è perché avrai sentito parlare molto di questo argomento. Effettivamente è una condizione comune a molte donne ma anche a parecchi uomini, che spesso ne sono affetti inconsapevolmente, e proprio per questo, la loro vita relazionale continua a fare acqua da tutte le parti.
Quando senti parlare di dipendenza, solitamente, penserai a quella da alcool, droga o al massimo dal cibo. Il dipendente affettivo invece dipende da una relazione. Si, dipende! Ma attenzione, non si parla per forza di dipendenza dal proprio partner, ma per esempio anche di quella da un’amica o un genitore, anche se ovviamente hanno delle sfumature diverse.
Quando si trova in coppia, il dipendente affettivo dipende dall’altro sia per essere felice che per essere amato. L’altro diviene essenziale, il centro di tutta la propria vita. I propri bisogni passano in secondo piano, per assecondare sempre i bisogni dell’altro, fare sempre ciò che vuole l’altro, poiché in questo modo si pensa che il partner non lo lascerà mai, che non può abbandonarlo.
Ma purtroppo, ciò che il dipendente affettivo non riesce a comprendere è proprio questo. Tale atteggiamento invece di far rimanere il partner, fa materializzare proprio la paura del dipendente affettivo, e cioè quella di essere abbandonato, di essere lasciato solo. Infatti il partner con il tempo, tenderà a stufarsi di questa situazione di estrema accondiscendenza e sudditanza e andrà alla ricerca di una persona più stimolante, di una persona che sappia esprimere la sua opinione, con le proprie idee, un suo modo di pensare e vedere le cose e che abbia anche altri interessi oltre la relazione stessa.
Pensi di essere anche tu una dipendente affettiva ma non sei sicura?
Prova a scoprirlo vedendo se ti rispecchi in qualcuna delle caratteristiche che ti elenco qui di seguito. Ho iniziato riportando prima quelle più comuni, poi quelle per fortuna meno frequenti essendo più gravi:
- Hai sempre un bisogno impellente di stare con il tuo partner;
- Non ti ritieni alla sua altezza;
- Non riesci a spiegarti perché sta con te;
- Provi una gelosia molto forte nei suoi confronti;
- Hai bisogno del tuo partner per fare qualsiasi cosa;
- Hai difficoltà a stare sola;
- Metti al secondo posto le tue esigenze e bisogni per soddisfare i suoi;
- Hai paura che il tuo partner ti abbandoni, ti lasci sola;
- Sei disposta a subire tradimenti e bugie pur di rimanere con lui;
- Neghi l’evidenza di un rapporto non sano pur di non affrontare i problemi;
- Sei disposta a subire maltrattamenti fisici e psicologici pur di non perderlo.
Vediamo un pò se sono riuscita a darti una mano? Se ti ho un pò aiutato a farti rendere conto della situazione che stai vivendo? Solitamente, chi è affetto da dipendenza affettiva è difficile che se ne accorga, dato che non vede la dipendenza come un problema, ma al contrario queste persone vivono l’amore ed il rapporto con il loro partner come la soluzione ad ogni problema.
Questo, infatti, spesso è il motivo principale per cui chi vive una situazione del genere arriva in terapia solo dopo anni di sofferenza e sacrifici, e nonricerca un terapeuta per questa difficoltà, ma per altri tipi di problemi come: ansia, problemi psicosomatici, attacchi di panico, disturbi del sonno o dell’umore, ecc.
Questi disturbi potrebbero infatti cominciare a presentarsi quando il tuo corpo manifesta la sofferenza attraverso i sintomi, il tuo corpo potrebbe ribellarsi a ciò che tu non vuoi vedere e continui ad accettare passivamente.
Non è facile, ma posso garantirti che puoi uscire da questa situazione affidandoti ad uno psicoterapeuta che ti aiuterà a spezzare questo circolo vizioso, questo bisogno di dipendere in tutto e per tutto dall’altro, insegnandoti a volerti bene e a recuperare la tua autostima e la tua forza.
Pensa, si è osservato che in alcuni casi, già dopo una Singola Seduta puoi ottenere dei risultati inaspettati. Cosa aspetti quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito onesession.it , il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
Se vuoi rimanere aggiornato iscriviti alla nostra Pagina Facebook onesession.it
Alcol: che fare?
Se ti dico “alcol”, a cosa pensi? Probabilmente a feste e festicciole, o ad alcune indimenticabili serate con amici. Specialmente tra i giovani, infatti, l’alcol è molto spesso associato allo svago. E’ un modo come un altro per vivacizzare una serata: vino, vodka, spritz e cocktail sono tra i principali protagonisti degli aperitivi, delle discoteche, dei pub. Visto così, l’alcol può essere inteso come un modo per socializzare o per stare in compagnia.
Quando l’alcol diventa un problema
Se il bere, però, perde gli attributi di cui sopra, allora possono subentrare alcune complicazioni. Più che per socializzare, come affermano Drogo e Pergamo, l’alcol diventa un vero e proprio compagno di vita.
Si beve per cercare un conforto illusorio alla solitudine o ai propri problemi, desiderando ogni volta un bicchiere di più. In questi casi l’alcol diviene cioè l’unica risposta a un determinato stato d’animo (tristezza, ansia, noia…) o a una situazione, per ottenere un cosiddetto effetto gratificante (sensazione di gioia, allegria…). Si crea ovvero una vera e propria dipendenza, con tutte le problematiche fisiche e psicologiche che essa comporta.
Bisogna sottolineare che una dipendenza da alcol presenta i sintomi tipici di qualsiasi altra dipendenza. La persona reclama quantitativi sempre maggiori di alcol (tolleranza), ne soffre se non ne ha a disposizione (astinenza) e presenta difficoltà considerevoli ad affrontare la vita quotidiana. L’alcol, in poche parole, diventa l’unica ragione di vita, poiché assicura gli effetti gratificanti che prima ti ho descritto. Diverso è invece l’abuso di alcol che, sebbene comporti simili sintomatiche, si presenta in modo molto più sporadico rispetto alla dipendenza.
Ma veniamo ora al dunque.
Credi di essere dipendente dall’alcol e vuoi smettere, o hai a cuore una persona che lo è: che fare? Naturalmente, esistono vari gradi di gravità delle dipendenze da alcol: di seguito ti elencherò le fasi che normalmente si seguono per fuoriuscirne.
Alcol: le fasi per fuoriuscirne
Per affrontare una qualsiasi dipendenza da alcol, è innanzitutto necessario farsi vedere da un medico per accertare le condizioni fisiche e le eventuali patologie organiche presenti (si chiamano patologie alcol-correlate: Nardone e Rampin, ad esempio, ne hanno rilevate alcune anche inerenti problematiche sessuali). Puoi rivolgerti a medici specialisti in alcologia, o ai servizi delle Aziende Ospedaliere, come i Sert e i Noa.
Attraverso accertamenti diagnostici, il medico verificherà se ci sono stati danni organici derivati dall’abuso di alcol, e prescriverà un adeguato trattamento farmacologico. Il primo passo da seguire, infatti, sarà la disintossicazione fisica, ovvero la riduzione al minimo del desiderio di alcol da parte dell’organismo.
Se siamo in presenza di una dipendenza, verrà effettuato un ricovero; altrimenti, nel caso di abuso, il tutto potrà avvenire anche in regime ambulatoriale. E’ importante che tutta la fase di disintossicazione avvenga sotto l’osservazione di medici specialisti, per prevenire eventuali ricadute o crisi di astinenza.
La dipendenza fisica dall’alcol non è però la più difficile da superare. La fase veramente complessa è la dipendenza psicologica. Hai presente quando si dice “Non pensare all’elefante! Non pensare all’elefante!” e più te lo si dice, più tu pensi all’elefante? E’ esattamente quello che accade con le dipendenze da alcol. Difficile non pensarci se il tuo corpo e la tua mente te lo chiedono continuamente: e più te lo neghi e più ci pensi.
Per superare la dipendenza psicologica dall’alcol è quindi necessario affrontare un percorso psicoterapeutico-riabilitativo appropriato, a volte lungo, a volte breve, in base alla gravità del problema presentato.
L’opportunità della psicoterapia
Qualsiasi percorso terapeutico si intraprenda (ne esistono molti e di differenti approcci), affinché si possa superare la dipendenza psicologica da alcol, è basilare che sussista un presupposto: la consapevolezza del problema. Se non c’è motivazione, nessuna forma terapeutica potrà avere successo. Per tale motivo, qualsiasi approccio lavorerà prima su questi aspetti, per poi procedere a una vera e propria fase psicoterapeutica di riabilitazione.
Per le dipendenze difficili, il percorso di riabilitazione è spesso lungo e può essere svolto all’interno di comunità terapeutichespecializzate. In queste strutture le persone vengono seguite quotidianamente da un punto di vista sia medico che psicologico, attraverso specifici percorsi di gruppo e individuali, fino a un loro totale reinserimento sociale. Se la dipendenza non è grave, il ricovero potrà non essere necessario: a volte basterà qualche seduta di psicoterapia per elaborare il disagio vissuto e riprendere a vivere la propria quotidianità in maniera serena.
E’ proprio in quest’ultimo caso che, ad esempio, la psicoterapia a seduta singola può inserirsi: con una sola seduta breve potrà fornire alla persona maggiore motivazione e coraggio per abbandonare l’alcol e riabbracciare in maniera adattiva la propria esistenza. Le ricerche di Talmon e Hoyt hanno dimostrato, infatti, che la terapia a seduta singola ha degli ottimi riscontri in ambito psichiatrico e ospedaliero, per quanto riguarda soprattutto la riduzione degli aspetti ansiogeni e delle ricadute, nonché nel favorire una maggiore comprensione delle proprie problematiche emotive. Aspetti essenziali per permettere ad un alcolista di fuoriuscire dalla sua dipendenza.
Bibliografia consigliata
Drogo, G.M., Pergamo, A.B. (2002). I giovani e l’alcol, Armando Editore, Roma.
Hoyt, M.F. & Talmon, M. (eds.) (2014). Capturing the Moment. Single Session Therapy and Walk-In Services, Bancyfelin, UK: Crown House.
Mazzucato F., 2007, Confessioni di un alcolista, Giraldi, Bologna.
Nardone, G., Rampin, M. (2012). La mente contro natura, Ponte delle Grazie, Milano.
Talmon, M., (1990). Psicoterapia a Seduta Singola. Trento: Centro Studi Erickson, 1996.
Sarò anoressica o semplicemente tengo alla mia linea?
Hai sentito parlare tanto di anoressia, ne leggi continuamente in giro, ne parlano libri, giornali, televisione e tra le tue amiche si fa a gara per chi è più magra.
E forse tu sei li che non parli, rimani quasi in disparte, in silenzio. Ti limiti ad osservare, ascoltare e trattenere solo per te “i pensieri che ti danno pensiero”.
Forse più volte ti sarai chiesta: “Ma lo sarò anche io?”. “Ma come faccio ad esserne sicura, come faccio ad accorgermene?”. “Basterà il fatto che mangio poco e che mi peso continuamente? Va be, ma quello è normale, chi è che non ha il terrore di ingrassare!”.
Non so se sei anoressica o semplicemente tieni molto alla tua linea e al tuo aspetto, però forse posso aiutarti a capirlo.
Come?
Indicandoti una serie di caratteristiche che, studi e ricerche sembrano aver dimostrato, siano presenti in molte pazienti anoressiche.
Solitamente le caratteristiche più comuni sono quattro:
- un peso corporeo inferiore alla norma, per età e altezza;
- un’intensa paura di acquistare peso o diventare grassa, anche quando sei sottopeso; 3) una percezione della forma corporea distorta rispetto alla realtà;
- l’assenza di almeno 3 cicli mestruali consecutivi.
In realtà, però, oltre a queste elencate, ci sono molte altre caratteristiche emotive e cognitive che sembrano accomunare le persone anoressiche e che influenzano oltre il loro rapporto con il cibo, anche altri aspetti della loro vita, come le loro relazioni ma anche le scelte scolastiche e professionali.
Tra queste caratteristiche posso indicarti:
- Il bisogno di avere controllo, che le anoressiche cercano di esercitare non solo sul cibo e sul corpo, ma anche su tutte le altre aree della loro vita.
- Il contare le calorie, pesare il cibo e tagliare in pezzi molto piccoli tutto ciò che mangiano.
- La fatica a tollerare la violazione delle numerose regole alimentari che si autoimpongono , e quando ciò accade, infatti tendono svilirsi ed a sentirsi in colpa.
- La tendenza a porsi standard elevati (sia scolastici che professionali) inseguiti anche a costo di enormi sacrifici.
- Il pensiero ossessivo persistente relativamente il cibo e il loro peso, che si esplica soprattutto nel contare le calorie di tutti gli alimenti e nel pesarsi tutti i giorni.
- La presenza di un marcato perfezionismo che si estende dalla forma fisica, all’ambito scolastico e lavorativo.
- Il temere le critiche ed il giudizio degli altri, soprattutto se negativo, per questo ambiscono alla perfezione.
- Il tendere al pensiero dicotomico, cioè valutano le situazioni, gli altri e se stesse in un modo “del tutto o nulla”, non hanno vie di mezzo.
- Hanno paura di deludere le aspettative delle persone a cui tengono di più, perché così temono di perdere la loro stima e di essere abbandonate.
Allora le hai lette tutte?
Ti sembra di riconoscerti in molte di queste caratteristiche?
Be, se non vuoi che la tua condizione peggiori, cosa ne dici di chiedere aiuto a qualcuno!
Ti sembrerà strano, ma ricerche hanno dimostrato che, in alcuni casi, anche con una singola seduta di terapia, si può andare a disinnescare quel meccanismo che mantiene in vita l’anoressia e ti permetterà di uscire da questo disturbo, soprattutto insegnandoti a recuperare e utilizzare le tue risorse, necessarie per trasformare il cibo da tuo nemico a tuo alleato.
Se vuoi essere aiutata, non aspettare a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito www.onesession.it , il terapeuta che ti è più vicino e soprattutto più adatto alle tue esigenze.
Se vuoi rimanere aggiornato iscriviti alla nostra Pagina Facebook onesession.it
Tra virtualità e realtà: la dipendenza da social
Sarà capitato anche a te: eri agitato perché avevi un bisogno urgente di un’informazione, a quel punto sei andato su internet e l’hai subito trovata, e la cosa ti ha tranquillizzato.
D’altronde, sai che sul web puoi fare di tutto: ascoltare musica, sapere dove si trova una persona, fare la spesa…perfino fare amicizia!
Prova adesso a moltiplicare per mille l’utilizzo che tu fai di internet, ma sempre con la stessa sensazione che ti ho descritto all’inizio.
Immagina di aver bisogno ogni minuto di accedere al web, per le più svariate finalità: vedere video, cercare informazioni, leggere notizie.
Ogni giorno per un tempo maggiore, ma sempre per lo stesso motivo. Ne hai un estremo bisogno, e se non lo fai, questo ti genera ansia, preoccupazione, palpitazioni e inquietudine.
E’ questa la dipendenza da internet: una particolare modalità di esprimere il proprio malessere attraverso l’uso eccessivo di un prodotto tecnologico, in qualsiasi modo e con qualunque scopo esso venga usato, senza averne cognizione.
Può riguardare il gioco d’azzardo, i videogiochi, lo shopping compulsivo, la pornografia, l’utilizzo dei social network o qualsiasi altra cosa presente sul web (Perrella & Caviglia, 2014; Trua, 2016).
I social network
Sai meglio di me che, nell’ultimo decennio, Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat e tutti gli altri hanno gradualmente trasformato le modalità di aggregazione sociale delle persone. Difficile farne a meno: sono utili, nessuno lo mette in dubbio.
Sono diventati il canale principale per veicolare comunicazioni, intraprendere nuove amicizie, rimanere in contatto con i propri cari, soprattutto per adolescenti e giovani adulti.
Ma tutto ciò a che prezzo?
#. Prima del 2000
Chi oggi è adulto, si ricorderà di tutte le difficoltà che aveva da giovane nell’approcciarsi all’altro sesso, le emozioni contrastanti di cui si era pervasi, le paure, le titubanze (tutte sensazioni sane, normali e genuine!).
Per poi, magari, una volta trovato il coraggio di parlare con la ragazza di cui ci si era innamorati, sentirsi da lei rispondere: “no! non mi piaci!”.
Non c’era la possibilità di nascondersi, e te lo ricordi bene: hai collezionato così tante brutte figure, che le dita di una mano non bastano a contarle!
#. Dopo il 2000
Con internet e i social, invece, tutto sarebbe stato più facile.
Di certo saresti stato più disinibito, non ti saresti fatto mille problemi prima di rivolgere la parola a qualcuno o di manifestare la tua opinione.
E magari alla fine ti sarebbe anche piaciuto questo modo “asettico” di instaurare relazioni.
E’ proprio quello che oggi accade a molte persone, soprattutto timide e introverse, per le quali i social network rappresentano l’unica possibilità di costruire nuove relazioni, in quanto permettono loro di nascondere emozioni come imbarazzo e vergogna.
Attraverso i social, hanno la possibilità di crearsi un’identità virtuale parallela, il cui abuso, però, alla lunga corre il rischio di soppiantare quella reale.
Sembra stiamo parlando di fantascienza, e invece stiamo semplicemente facendo riferimento alla dipendenza da social.
Come tutte le dipendenze, anche questa si basa sugli stessi meccanismi di piacere e soddisfazione: si prova un intenso disagio se non si è connessi (astinenza), il tempo di connessione aumenta ogni volta di più (assuefazione/tolleranza) e si hanno pensieri fissi e ricorrenti.
Nei casi più gravi, essere connessi a un social network può perfino far dimenticare di mangiare e dormire.
Addirittura si può provare uno stato di euforia e di eccitazione quando si è online, al contrario di quando non lo si è, in cui ansia, agitazione, irritazione, intolleranza sono le emozioni più frequenti (Guedes et al., 2016).
E’ come se si vivesse in un mondo parallelo e irreale, dove è possibile fare tutto ciò che nella vita reale non è permesso.
Alla lunga però, questo voler essere sempre connessi con il mondo virtuale, disconnette da quello reale (Trua, 2016).
Cosa vuol dire?
Significa che chi è dipendente dai social, accresce gradualmente la sua solitudine, accentuando le proprie sintomatiche d’ansia e di depressione.
Progressivamente la persona si isola, parla sempre meno, si allontana dalla vita di tutti i giorni, e quando ci ritorna, si sente come disorientata, afflitta, sconsolata.
L’unica sua soluzione, a quel punto, è di riconnettersi subito alla “rete” per alleviare questo disagio interno.
La dipendenza da social nasconde, ma non elimina, i problemi della vita reale, e il rendersi conto di ciò spesso porta anche a conseguenze infauste per chi ne soffre.
E’ opportuno dire che questa patologia si instaura spesso su chi ha già delle pregresse sofferenze psicologiche, inerenti soprattutto la sfera relazionale.
I social sono soltanto lo strumento attraverso cui queste difficoltà vengono a galla (Perrella & Caviglia, 2014).
Chiedere aiuto diventa quindi il primo passo da fare per ridimensionare la propria identità virtuale.
La psicoterapia, in questa direzione, si focalizzerà sulle caratteristiche del qui e ora della relazione terapeutica, riponendo in primo piano l’importanza delle emozioni vere e concrete, favorendo, alla fine, un ritorno costruttivo alla vita reale.
Bibliografia
Guedes, E., Sacassiani, F., Carta, M.G. (2016). Internet addiction and excessive social networks use, Clinical Practice & Epidemiology in Mental Health, Vol. 12, pp. 43-48.
Perrella, R., Caviglia, G. (2014). Dipendenza da internet, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna.
Trua, T. (2016). Dipendenza da internet: analisi di un fenomeno in crescita, BitBiblos, Bologna.
No smoking: alla ricerca del piacere perduto
Quante volte ti sei detto, dopo l’ennesimo colpo di tosse: “basta è arrivato il momento, d’ora in poi devo smettere di fumare!”. E’ passato un giorno, forse due, e poi non ce l’hai fatta: hai dovuto comprare un altro pacchetto e fumarti le tue solite 10 o 20 sigarette.
Il problema dello smettere di fumare non risiede soltanto nella consapevolezza che il fumo fa male. Te l’avranno ripetuto in mille modi che la nicotina, a lungo andare, crea dipendenza fisica, può causare tumori, nonché malattie al sistema respiratorio e circolatorio (Conti et al., 2013). Eppure, nonostante tu ne sia consapevole, ti è difficile rinunciare a quel maledetto vizio.
Cosa ci succede.
Questo accade perché, oltre alla dipendenza fisica, la sigaretta provoca anche una dipendenza psicologica ben più restia a cedere. La sigaretta riempie cioè gli spazi vuoti della tua giornata, riduce lo stress, ha un effetto calmante. Col tempo, si finisce per associarla a una sensazione di controllo degli eventi e delle emozioni, o a un senso temporaneo di sicurezza, conforto, distensione (Satomura & Nakahara, 2003).
Se ti ritrovi in una di queste situazioni, te lo dico chiaramente: sei un tabagista.
Il tabagismo è una forma di dipendenza fisica e psicologica che ti porta a fumare almeno 10 sigarette al giorno, con conseguente alitosi mattutina, tosse catarrosa, nonché nervosismo, insoddisfazione e sensazione di nullità nel caso tu non riesca (Skorjanec, 2008).
Se fumi solo 1 o 2 sigarette una volta ogni tanto, senza soffrire di astinenza: vai tranquillo, non stiamo parlando di te.
C’è una cosa però che non ti ho detto: il fatto che la sigaretta riempia quel tuo “vuoto” interiore, è una pura illusione. Te ne sarai accorto anche tu, d’altronde. Mentre aspiri il tabacco, ti sembra di godere del piacere più grande; quando la sigaretta è finita nel portacenere, invece, basta che passino 1 o 2 ore, e senti di nuovo la necessità di provare un appagamento “ancora più grande”, magari accendendotene un’altra. E lo stesso ti capita per quella dopo e quella dopo ancora, e via dicendo.
Pensaci bene: non è la soddisfazione che ti porta a fumare, ma la perenne insoddisfazione che la sigaretta produce dentro di te (Nardone & Watzlawick, 2014). Se con una sigaretta riusciresti già a raggiungere l’appagamento tanto desiderato, che motivo avresti di fumarne altre 10, 20 o 30 al giorno? Vivere con questa perenne insoddisfazione interna, non è un bel vivere, vero?
Cosa si può fare.
Tuttavia, come per ogni dipendenza, anche dal tabagismo puoi uscirne vincitore, in modo da ritrovare quel piacere che nella sigaretta hai perduto.
Prima di tutto, devi avere alla base una grande spinta interiore: smettere di fumare comporta avere motivazioni forti e decise (Skorjanec, 2008). In seguito, dovrai costruirti un piano di progressiva riduzione del numero di sigarette che ti fumi ogni giorno. Questo passaggio non sarà semplice, è chiaro: già ti vedo far ricorso a ogni tipo di escamotage pur di non metterti in bocca quella cicca che tanto vorresti (chiedere a tua moglie di nasconderti il pacchetto? comprare le sigarette che non ti piacciono? imbavagliarti la bocca? Non esageriamo…).
Nel periodo di astinenza ti sarà difficile resistere alla tentazione di fumare (chi meglio di te può comprendere questa sensazione!), poiché il tuo corpo ci metterà del tempo prima di riabituarsi a una vita senza tabacco. Eppure, con buona forza di volontà, vedrai che potrai riuscirci anche tu.
Chiedi aiuto. Non sempre si può fare tutto da soli!
Qualora da solo non riuscissi, ci sono dei professionisti che possono aiutarti molto nel raggiungere questo obiettivo.
Esistono delle psicoterapie, ad esempio, che col tempo hanno sviluppato delle tecniche specifiche per chi vuole smettere di fumare. Una di queste è la psicoterapia breve strategica, il cui scopo è quello di rinforzare la motivazione col fine ultimo di cambiare l’atteggiamento nei confronti della sigaretta (Nardone & Watzlawick, 2014).
Paradossalmente per diminuire la dipendenza da nicotina, non è opportuno fumare meno sigarette, ma riuscire a provare una volta per tutte quel “piacere più grande” che a ogni aspirata ti illudi di aver già trovato. Perché non provare a ricercare quella “soddisfazione perfetta” in una sola sigaretta, anziché ricercarla in 10, 20 o 30? E’ così che, a poco a poco, capirai che la sigaretta non ti ha mai dato alcuna soddisfazione reale, e rivolgerai la tua ricerca altrove, abbandonandola in modo definitivo.
Che immensa soddisfazione sarà per te? E chissà quanto poi ne guadagnerebbero la tua salute, la tua famiglia, il tuo conto in banca…
Armati, quindi, di pazienza, buona volontà e consapevolezza e vai alla riconquista del tuo piacere perduto!
Bibliografia
Conti, B., Puppo, G., Pistelli, F. (2013). Epidemiologia ed effetti sulla salute del fumo di tabacco, Rivista Italiana di Fisioterapia e Riabilitazione Respiratoria, n. 3, pp. 19-25.
Nardone, G., Watzlawick, P. (2014). L’arte del cambiamento: la soluzione dei problemi psicologici personali e interpersonali in tempi brevi, Ponte alle Grazie, Firenze.
Satomura, K., Nakahara, T. (2003). Consciousness and psychological behaviors of smokers, Journal of the Japan Medical Association, Vol. 127, n. 7, pp. 1015-1018.
Skorjanec, B. (2008). Come smettere di fumare, Ponte alle Grazie, Firenze.
Io adoro il gioco d’azzardo!
Ciao!
Ti stai forse chiedendo perché adoro il gioco d’azzardo?
Be! E’ strabiliante come il giocare d’azzardo riesca a travolgerti e risucchiarti facendoti completamente perdere di vista tutto ciò che ti circonda, portandoti ad essere totalmente dipendente da esso senza che neanche te ne accorga.
Per questo si parla di GAP. Non sai cosa significhi? Te lo spiego subito.
Questa sigla sta per Gioco d’Azzardo Patologico, un comportamento di gioco persistente e invalidante che va a interferire sulla vita del giocatore portandogli via molto tempo, denaro e lucidità mentale. Si ha un bisogno sempre maggiore di giocare d’azzardo con quantità di denaro sempre più alte per poter raggiungere l’eccitazione e l’euforia.
Quando poi però si tenta di ridurre o interrompere senza riuscirci si va incontro a irrequietezza e irritabilità , e si ricade di nuovo nel giocare d’azzardo non solo per cercare di recuperare i soldi persi ma anche per alleviare i sensi di colpa, l’ansia e la depressione.
Ti sei per caso riconosciuto in qualcuna delle cose che ho appena scritto e ti stai chiedendo cosa poter fare? Smettere ovvio, tanto non ci vuole niente no!
O forse ci hai già provato ma alla fine non ci sei riuscito?
Forse, anche tu come tutti quelli che giocano d’azzardo, all’inizio ti sarai sentito invincibile, ti sentivi invaso da una forte euforia provocata dalle tue vincite al gioco, avevi finalmente trovato il modo veloce per fare soldi e anche per distogliere l’attenzione da tutti i tuoi problemi, i tuoi dispiaceri e dai tuoi pensieri assillanti.
Poi però sei precipitato, giocavi ma perdevi soldi, sempre più soldi, così per recuperare il denaro che perdevi, hai cominciato a scommettere cifre sempre più alte ma questo ti ha portato ad indebitarti con amici, parenti, banche e perché no anche con gli strozzini.
Tutto questo progressivamente senza quasi accorgertene ti ha gettato nella disperazione assoluta, nel non vivere. Ed ecco arrivare il momento più brutto!
Ecco che è arrivata l’ansia, l’insonnia, la tachicardia, la gastrite, lo stress e l’inappetenza. Sei diventato sempre più irritabile, nervoso ed hai cominciato ad evitare i contatti con tutti chiudendoti nel silenzio ed inventando continue scuse per giustificare il tuo comportamento.
Ormai non vivi più!
O meglio è come se vivessi in un incubo che sembra non finire mai, vero? Ma allora cosa aspetti per rivolgerti a qualcuno ed essere aiutato ad uscire da questo problema?
Hai paura di non poterlo risolvere oppure pensi che ci voglia un tempo lunghissimo con una conseguente spesa economica che non puoi sostenere?
Forse quello che ti dirò ti potrà un po’ sollevare e togliere qualche dubbio.
La terapia è ciò che ti permetterà di risolvere il problema e non solo spesso non servono molte sedute, ma in alcuni casi già dopo una Singola Seduta puoi ottenere dei risultati inaspettati.
Pensa che un precedente studio empirico ha dimostrato che la Terapia a Seduta Singola, per i problemi di GAP, può avere la stessa efficacia delle terapie con durata più lunga (qui e qui)
Tornando un istante alla mia “adorazione” per il Gioco d’Azzardo, è chiaro che la mia è una provocazione, volevo solo attirare la tua attenzione per essere sicura che leggessi questo articolo e potessi renderti conto che nonostante i numerosi rischi che stai correndo, la situazione può cambiare.
Non è facile cambiare, ma è possibile farlo. Dovrai essere paziente, tollerante con te stesso, chiedere aiuto ai tuoi cari, dovrai avere costanza nel provare ma sono sicura che con l’aiuto giusto ci puoi riuscire.
Cosa aspetti quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito onesession.it, il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
Grazie per aver letto l’articolo.
Se senti il bisogno di un aiuto in più, prenota il tuo appuntamento gratuito con One Session! Ci trovi tutti i martedì dalle 18.00 alle 20.00. I nostri terapeuti ti aiutano ad ottenere un cambiamento immediato e duraturo, fornendoti strumenti pratici, concreti ed utilizzabili fin da subito per uscire dalla situazione problematica grazie alle tue stesse risorse!
Per prendere appuntamento, scrivi a info@onesession.it o alle nostre pagine Facebook e Instagram.