Come ampliare la rete di relazioni
Le relazioni sono intrinseche alla natura umana. Scopriamo in questo articolo come ampliare la nostra rele di relazioni.
Relazioni sociali
Gli esseri umani sono plasmati dalle loro esperienze con gli altri.
Con il termine: relazione interpersonale (o relazione sociale) ci si riferisce al rapporto che intercorre tra uno o più individui; le relazioni si possono fondare sui sentimenti come l’amore, la simpatia e l’amicizia.
All’interno delle relazioni possono essere condivisi passatempi o impegni professionali e sociali.
Secondo la gerarchia dei bisogni di Abraham Maslow, gli esseri umani hanno bisogno di provare amore e accettazione da parte dei gruppi sociali. Le relazioni interpersonali sono sistemi dinamici che mutano continuamente durante la vita di ciascun individuo. Tendono a crescere e migliorare gradualmente così come possono deteriorarsi.
Uno dei modelli più influenti di sviluppo delle relazioni fu proposto dallo psicologo George Levinger. Egli sosteneva che lo sviluppo naturale di una relazione segue cinque fasi: conoscenza, costruzione, continuazione, deterioramento e fine.
Conosciamo attraverso le nostre esperienze pregresse e costruiamo la socialità attraverso la condivisione di interessi comuni. L’impegno reciproco fra le parti aiuta nella continuazione del rapporto. La fiducia è un elemento importante per sostenere la relazione. Può inoltre capitare che l’insorgenza di problematiche causi una discendenza di relazione che porterà poi alla fine del rapporto.
Relazioni: salute fisica e psichica
I legami sociali sani migliorano la nostra salute fisica e mentale.
Chi ha delle buone relazioni sociali tende a dare alla propria vita un senso e uno scopo.
Stare in buona compagnia migliora il tono dell’umore e mette in circolo i cosiddetti ormoni della felicità: endorfine e dopamina.
Le relazioni positive sono associate ad una serie di benefici tra cui:
- riduzione dello stress, dell’ansia e della depressione,
- aumento della resilienza, della creatività e della produttività,
- miglioramento della salute fisica
Strategie
Concentrati sui tuoi punti di forza. Sarà utile pensare alle proprie unicità e bellezze, questo eserciterà maggior sicurezza nella relazione con l’altro e un maggior controllo sulle proprie capacità relazionali.
Impara a praticare un confronto costruttivo. Utile comportamento da attuare nel gruppo. Pensare in modo flessibile alle opinioni altrui aumenta la curiosità nella scoperta dell’altro, ponete domande costruttive e non siate rigidi e fermi nelle vostre convinzioni, questo genera chiusura, mettetevi in discussione e siate accoglienti.
Coltiva gli interessi. Mettiti in ascolto dei tuoi bisogni e passioni. Crea momenti per poter condividere e sperimentare con motivazione i tuoi piaceri, aiuterà ad avere meno timore di conoscere luoghi e persone ed avrai più energia per intraprendere esperienze nuove.
Liberati dal pregiudizio e fidati. Osserva, ascolta, chiedi e sii incondizionatamente liberi da preconcetti. Un utile strumento di conoscenza è il dialogo. Esplorare l’altro conoscendolo nelle molteplici sfaccettature di azioni e comportamenti ti aiuterà a comprendere meglio la persona e fidarsi reciprocamente.
Amplia la capacità di ascolto. Non è necessario riempire il tempo della conversazione senza avere un obiettivo. Si può lasciare spazio agli altri ascoltando in modo attento per poter successivamente integrare con il proprio pensiero e le proprie esperienze.
Comunica in modo efficace. è un ulteriore strumento per integrarsi, sii chiaro ed esplicito nel linguaggio rispettando i turni di parola.
E ancora…
Essere flessibili e imparare a gestire gli imprevisti è utile per non sentirsi vittime di situazioni apparentemente insolite. Cercate quindi di comprendere al meglio ciò che accade senza essere impulsivi e di trarre conclusioni non adeguate con le realtà.
Uscire dal proprio egocentrismo è importante per avere un atteggiamento aperto ed accogliente, ognuno deve avere il proprio spazio ed è corretto rispettarlo. Invece di osservare te stesso, osserva gli altri.
Frequenta luoghi di aggregazione, avere stimoli dai contesti facilita la relazione e la ricerca di nuove amicizie, partecipa ad aventi locali restando informato e attivandoti.
Supera l’ostacolo del primo approccio e non fingere interesse ma sii te stesso sempre.
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Riferimenti bibliografici
https://www.psyeventi.it ( consultato in data 23/05/2024)
Levingerg, Development and Change in Close Relationships, New York, W.H. Freeman and Company, 1983, pp.315-359
https://www.guidapsicologi.it (consultato in data 23/05/2024)
Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262
Critiche costruttive e distruttive: come imparare a criticare
Tutti quanti abbiamo avuto almeno un’esperienza in cui abbiamo ricevuto qualche critica e, quando questa è stata troppo diretta, offensiva o svalutante, sarà stata sicuramente poco gradita. Talvolta alcune critiche possono essere così sprezzanti da rimanere impresse nella nostra memoria a lungo o rappresentare quasi delle sentenze che ci hanno segnato l’esistenza.
Perché la critica è difficile da digerire?
Perché se non è ben posta può essere percepita più come un giudizio che come una critica. Ma dove sta la differenza? Il giudizio esprime quello che si reputa di una persona o addirittura può richiamare una morale a cui attenersi. La critica invece implica sì una valutazione ma riguarda più il comportamento, le azioni o i fatti piuttosto che l’identità della persona.
Ecco che già questa impercettibile denotazione può essere un valido aiuto nel formulare una critica.
Infatti, saremo stati sicuramente anche noi qualche volta “giudici” di qualche comportamento, situazione o peggio, di qualche persona! E così come non ci piace ricevere critiche distruttive, dobbiamo a nostra volta metterci in discussione per capire se sappiamo formulare una critica in modo da non ferire o sminuire l’altro. Vediamo come!
Le critiche distruttive
La critica distruttiva è una critica che mira a svalutare la persona, tende a sottolineare gli errori e i difetti piuttosto che il margine di miglioramento, e a volte può essere offensiva se si usano toni sarcastici e denigratori. Questo tipo di critiche lascia un senso di frustrazione nella persona che può sentirsi umiliata, svalutata e demoralizzata. Alcuni modi di esprimersi possono addirittura ledere l’autostima dell’altro.
Uno dei modi per capire subito se una critica è stata posta nel modo sbagliato è fare caso al verbo usato: molto spesso una critica distruttiva comincia con “sei…”, andando quindi a giudicare la persona e la sua identità, piuttosto che il suo modo di comportarsi. “Sei un incapace!”, “Sei un disastro!”, “Sei proprio un insensibile”.
Un altro modo di porre le critiche malamente è quello di usare un linguaggio perentorio e disfattista, usando le negazioni e gli assolutismi: “Non farai mai nulla di buono nella vita!”, “Sei il solito scansafatiche!”, “Guarda cosa hai fatto! Combini sempre pasticci!”
Questo modo di esprimersi non lascia infatti alcuna possibilità di cambiamento e miglioramento e, specie se ripetuto, può incrinare la sicurezza e il potere di agire efficacemente per il proprio futuro. Attenzione quindi a usare certe espressioni con persone sensibili, come i bambini e le persone che vivono un momento di fragilità.
Le critiche costruttive
La critica costruttiva è al contrario una critica che esprime un parere con l’obiettivo di aiutare la persona a crescere e a migliorare. Si tratta quindi di un giudizio non di valore, mosso con riguardo e rispetto verso la persona, aspettandosi quindi che possa fare meglio considerando le sue attitudini e le sue risorse. Il termine costruttiva infatti lascia intendere che ci sia dietro un atteggiamento positivo, volto a incoraggiare e motivare la persona a fare di più. Questo implica che prima di aprire bocca abbiamo in mente di costruire nuove possibilità facendo la nostra critica, che sì, abbiamo notato un limite o una difficoltà nell’altro, ma non per questo lo azzeriamo. Quando una critica è ben posta infatti, può lasciare nella persona che la riceve un senso di fiducia e speranza che le cose possano cambiare.
Come imparare a fare una critica
Un modo per imparare a porre critiche costruttive è quello di individuare un punto di forza nella persona a cui abbiamo da dire qualcosa: sottolineare un errore ad esempio tenendo conto delle risorse che la persona ha, può aiutarci a costruire frasi come: “Ho notato che hai fatto fatica in questa situazione, ma credo che grazie alla tua tenacia saprai trovare una soluzione per andare avanti”.
Tutti infatti hanno delle capacità che spesso sono sottovalutate anche dall’individuo stesso, venire riconosciuti anche per queste capacità gioca un punto a favore dell’autostima e della motivazione al cambiamento.
Inoltre, come abbiamo accennato, la critica costruttiva si concentra sui comportamenti e sulle azioni: esse sono finalizzate a offrire suggerimenti concreti per migliorare. Ad esempio “Penso che potresti migliorare se facessi così”, oppure “Voglio aiutarti a raggiungere il tuo obiettivo: cosa ne pensi di questo suggerimento?”. Occhio però a non dare troppi consigli non richiesti: questo può far sentire la persona incapace di trovare da sola una strategia.
Per ovviare a questo, possiamo far uso di domande nelle quali chiediamo il parere o il punto di vista di chi abbiamo di fronte.
Un altro punto da tenere in conto quando formuliamo una critica è il contesto: prima di muovere una critica è necessario considerare le circostanze e il vissuto della persona, valutare l’ambiente in cui siamo, se in pubblico o in una situazione privata, immaginare che la persona possa vivere delle difficoltà transitorie e ammettere che, anche se conosciamo bene quella persona, non possiamo sapere tutto quello che gli passa per la testa né le motivazioni che l’hanno spinta ad agire in quel modo.
Come reagire alle critiche
E quando siamo noi l’oggetto della critica, come possiamo reagire al meglio?
Innanzitutto ricordiamoci che la nostra autostima e il nostro valore non dipendono dal giudizio degli altri. Se una critica ci sembra troppo tagliente e distruttiva, chiediamoci se c’è qualcosa di vero in quello che ci viene detto. Se la risposta è negativa, consideriamo che quella critica così mal posta ci dice qualcosa piuttosto su chi ce la muove, che su di noi.
Se riceviamo invece una critica costruttiva, ascoltiamo attentamente cosa ci dice quella persona e ringraziamo per il feedback ricevuto. Rifletti poi su quel suggerimento chiedendoti in che modo può esserti utile: se può aiutarti a imparare e a crescere, prendi spunto dal feedback per migliorarti. Una certa dose di umiltà e flessibilità è infatti sinonimo di intelligenza e saggezza.
In conclusione, saper fare delle critiche con rispetto è una abilità che fa parte della comunicazione assertiva, quel tipo di comunicazione che ha un atteggiamento partecipe e non in contrapposizione con l’altro. La critica sortisce il suo effetto se fatta con amicizia e riguardo. Per questo è importante anche ascoltare attentamente l’altro dopo che gli abbiamo fatto una critica, capire le sue ragioni e metterci sempre in discussione con un atteggiamento propositivo.
Riferimenti bibliografici
De Panfilis, A. & Romeo, P. (2020) La cultura del feedback: Dare e ricevere feedback con efficacia ed eleganza per stimolare lo sviluppo professionale ed organizzativo. Fym.it
Nardone, G., & Salvini, A. (2010). Il dialogo strategico. Ponte alle Grazie.
Thomas, G. (1994). Genitori efficaci. Ed. La Meridiana.
Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana. URL consultato il 14 marzo 2024.
Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.
Come imparare a dire di no
Vuoi imparare a dire di no?
Prima però ti racconto delle mie vacanze…
Questa estate sono andata a fare un bellissimo viaggio alle Baleari insieme al mio compagno. Una sera, camminando per le vie del centro di Minorca, sono rimasta catturata da un paio di sandali in una vetrina: di istinto, senza neanche guardare l’orologio, sono entrata all’interno del negozio. Con mia grande sorpresa sono stata messa alla porta dalla commessa, che con tono educato ma deciso ha esclamato:“Disculpe, está cerrado!” (trad. “perdonami, siamo chiusi!”). Ricordo come se fosse ieri di essere rimasta basìta, mi sono voltata verso il mio compagno e ho commentato: “ma ci rendiamo conto? Ma solo io se un cliente mi si presenta ad orario di chiusura ufficio lo accolgo lo stesso?” e lui, seraficamente, mi ha risposto: “eh mi sa di sì! Forse potresti imparare a fare come la signora!”.
Ho scelto di iniziare l’articolo di oggi con questo aneddoto di vita vissuta per affrontare un argomento sempre più attuale: la difficoltà che alcune persone hanno a dire di no di fronte alle continue richieste degli altri.
Che cosa significa non saper dire di no?
Immaginiamo di trovarci al lavoro. Siamo alla fine di una lunga giornata, pronti ad uscire finalmente dall’ufficio, quando il capo si palesa sulla porta, con un’espressione allarmata sul viso: “sai, dobbiamo assolutamente fare questa cosa entro domani mattina ma io devo proprio scappare…potresti trattenerti tu oltre l’orario previsto oggi?”
Oppure potremmo ricevere, proprio prima di spegnere il pc, un’email da parte di un nostro cliente. L’oggetto “URGENTE” già la dice lunga sul contenuto: “so di essermi ridotto tardi ma ho assolutamente bisogno di questo preventivo, grazie di inviarmelo entro un’ora!”
Per non parlare di quando nostro figlio, di fronte all’ennesimo elenco di compiti da fare per la scuola, irrompe piagnucolando nel salone e ci chiede: “ti prego mi aiuti? Non mi va proprio di farli!” magari giusto nel momento clou di quel film che stavamo vedendo.
In ognuna di queste situazioni, ci sentiremo come di fronte ad un bivio: dire di sì oppure dire di no alla richiesta che ci è stata avanzata da persone per noi importanti, in un modo o nell’altro.
Scegliere di dire sì spesso è la soluzione d’elezione, per tanti motivi: il primo è sicuramente l’educazione e la sincera volontà di aiutare l’altro, in evidente stato di difficoltà. Fare del bene agli altri, può regalare un piacere che scalda il cuore e fa sentire in pace perché si è fatta “una buona azione”.
Senza contare la speranza di ottenere in cambio la benevolenza dell’altro o una ricompensa per la nostra disponibilità.
Nel caso di un datore di lavoro ad esempio, potremmo ambire ad una promozione: “se dirò di sì e mi fermerò fuori orario, il capo si renderà conto di quanto io sia indispensabile e mi premierà di conseguenza”.
Il nostro cliente magari, di fronte alla nostra tempestiva risposta, probabilmente acquisterà il nostro prodotto e ci sceglierà di nuovo nel futuro.
Nostro figlio infine, apprezzerà di avere un genitore sempre prodigo nel sostenerlo e grazie al nostro aiuto prenderà degli ottimi voti a scuola.
Aspettarsi qualcosa in cambio dei nostri sì, tuttavia, potrebbe aprire la porta a qualcosa di molto diverso dall’altruismo sincero e disinteressato: pur di ottenere l’approvazione degli altri e la loro riconoscenza, potremmo iniziare a dire sempre di sì, non solo quando effettivamente lo vogliamo, ma anche quando preferiremmo fare qualcosa di diverso.
Questo comportamento inizialmente positivo per noi, se ripetuto nel tempo, può quindi diventare un’abitudine problematica.
Gli altri infatti, a forza di chiedere aiuto da noi e riceverlo, potrebbero iniziare a pretenderlo sempre di più. Del resto dal loro punto di vista, se abbiamo detto di sì una volta, potremmo benissimo farlo di nuovo. E ancora, ancora e ancora.
Di conseguenza, noi ci sentiremo obbligati a dire nuovamente di sì, incastrandoci in un loop senza fine. Impossibile a questo punto iniziare a dire dei “no” anche quando vorremmo farlo: il rischio di passare improvvisamente per “i cattivi” della situazione, sarebbe troppo alto e intollerabile.
Quali sono le conseguenze del non riuscire a dire di no?
Potrebbe capitarci di renderci conto che la nostra grande disponibilità è diventata a tutti gli effetti una strada a senso unico. Siamo sempre pronti a dare agli altri, più di quanto diamo a noi stessi e riceviamo.
Anteponiamo i loro bisogni ai nostri e invece di sentirci pieni di gioia per questo, ci iniziamo a sentire svuotati.
Eppure nonostante ciò, non riusciamo proprio a pronunciare quella parola che potrebbe fermare tutto: un semplice “no”.
Il solo pensiero di rifiutarci di dare l’aiuto che ci viene richiesto ed è ormai diventato atteso, ci fa sentire in colpa.
In questi casi, di fronte ad una nuova richiesta, potremmo iniziare a sentire uno strano peso sull’addome, come se avessimo digerito male qualcosa.
Oppure potremmo iniziare ad avere dei pensieri minacciosi che suonano più o meno così: “cosa penserà di me se non lo faccio? Potrebbe giudicarmi una cattiva persona! Rischierò di perdere il posto di lavoro e l’affetto dei miei cari!”.
Con il tempo, dire sempre di sì, diventerà per noi una lama dal doppio taglio.
Lo spazio per noi stessi e i nostri interessi si azzera, il tempo sembra non bastarci mai, il nostro umore peggiora e il nervosismo rischia di farci discutere proprio con le persone che pensavamo di voler aiutare.
E’ necessario imparare a dire di no.
Ma come imparare a dire di no?
Se ci troviamo di nuovo di fronte al bivio e vogliamo provare a fare qualcosa di diverso, possiamo iniziare a riflettere su questa semplice ma potente affermazione: “ogni volta che dico no agli altri, dico sì a me stesso”.
In questa nuova ottica, proviamo ad attribuire anche alla parola no un nuovo significato: non un rifiuto, ma una “nobile obiezione” (Mike Clayton, 2013).
Nobile sia per i modi educati con cui viene pronunciata, sia perché quando si decide di rispondere così, lo si fa con la piena consapevolezza delle proprie motivazioni e delle conseguenze su noi stessi e gli altri.
Infine, proviamo ad introdurre delle piccole violazioni alla nostra tendenza a dire sempre di sì.
Proviamo quindi, di fronte all’ennesima richiesta da parte del nostro capo, a rispondere diversamente: “mi rendo conto della tua necessità, ma oggi ho preso un altro impegno e proprio non ho la possibilità di trattenermi”.
Nel nostro programma di posta elettronica, impostiamo una risposta automatica per ricordare all’utenza gli orari di apertura dell’ufficio.
E al nostro bambino così angosciato dai suoi compiti, proviamo a dire che in questo momento siamo impegnati, ma che potrà iniziare intanto da solo.
Solitamente, di fronte alla nostra porta improvvisamente chiusa, gli altri modificheranno gradualmente il loro atteggiamento nei nostri confronti e diminuiranno le richieste.
Se vuoi scoprire altre strategie concrete e funzionali per imparare a dire di no, puoi sempre rivolgerti agli psicologi di www.onesession.it: prendi appuntamento compilando il form (clicca qui) e consulta le nostre pagine social di Facebook e di Instagram.
Riferimenti bibliografici
Clayton, M. (2013). Si può dire NO: Sbattersi di meno per ottenere di più. Italia: De Agostini.
Marson, J. (2013). Come imparare a dire di no senza sensi di colpa. Italia: Newton Compton Editori.
Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.
Gestire la rabbia con la Terapia a Seduta Singola
Quali difficoltà possono insorgere se non si riesce a gestire la rabbia? In che modo la Terapia a Seduta Singola può venirci in aiuto? Lo scopriamo in questo articolo.
Definizione di rabbia e sue principali caratteristiche
La rabbia fa parte delle emozioni di base primarie (reazione affettive innate) ed è un’emozione universale e primordiale. A provare rabbia sono tutti gli esseri umani senza distinzione di età, di area geografica, di sesso.
Nella classificazione di Friesen ed Ekman la rabbia fa parte dell’elenco delle emozioni primarie: paura, rabbia, gioia, tristezza, disgusto e sorpresa.
Lo stesso nella classificazione di Plutchik dove le emozioni primarie sono: paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto, sorpresa, attesa, approvazione.
La rabbia ha come funzione adattiva quella di difendersi, di sopravvivere nell’ambiente. Essa aiuta l’individuo a mettere dei confini, ad affermarsi, è inoltre spinta all’attacco.
La rabbia come tutte le altre emozioni citate sopra non ha una connotazione negativa, è foriera anche essa di un messaggio che deve essere ascoltato e vissuto nella piena consapevolezza.
Nella vita di tutti i giorni rispondiamo con rabbia per esempio, di fronte ad un torto subito.
In alcuni casi la rabbia può essere espressa poi con dei comportamenti o delle espressioni verbali (urla, discussioni) in altri casi viene invece repressa o evitata.
Ad ogni modo qualunque sia la reazione, porta l’individuo ad uno stato tensivo molto forte.
L’andamento della rabbia si può presentare con dei picchi che tendono verso l’eccesso e a volte con intensità minore. Se l’andamento è verso l’eccesso la rabbia prenderà comunemente il nome di collera ed ira.
Se invece si dirigerà verso una intensità minore si chiamerà irritazione.
La rabbia, è un processo multi componenziale, in cui possiamo individuare almeno quattro componenti imprescindibili.
Esse sono la componente fisiologica, ossia la attivazione dell’organismo, la componente cognitiva, la componente espressiva e la componente comportamentale.
Nella esperienza individuale dello stato di rabbia rintracciamo tutti questi aspetti visibili nella persona: si accelera il battito, aumenta il flusso sanguigno, aumenta la tensione muscolare, aumenta la sensazione di calore e di sudorazione.
A livello espressivo cambia la mimica e la espressione facciale con cambiamenti generici del volto ravvisabili negli occhi, nelle labbra e nelle sopracciglia che cambiano forma, si modifica anche la postura.
Provare rabbia è un’esperienza che riguarda gli altri, ma potrebbe riguardare anche noi stessi, persone emotivamente lontane da noi, o persone a cui si è più legati sentimentalmente come per esempio a propria famiglia e i propri partner.
Dalla rabbia adattiva alla rabbia disadattiva
In linea generale, la rabbia comunica una funzione autodifensiva.
Si può parlare di una rabbia disadattiva, disfunzionale o patologica, quando crea una sofferenza individuale. E’ disattativa anche quando compromette le relazioni sociali o porta a compiere delle azioni dannose verso persone, cose o se stessi.
Nella maggior parte delle situazioni la rabbia è un campanello d’allarme utile per la nostra sopravvivenza. Altre volte può invece portare la persona a un vero e proprio stato di malessere.
In questo caso la rabbia se cronicizzata e non occasionale può portare a un peggioramento delle condizioni di vita della persona.
Questo peggioramento può poi dare sfogo anche a una serie di sintomatologie fisiche e psichiche in cui viene meno la armonia, l’equilibrio e il benessere in generale ed aumenta la inefficacia relazionale e la difficoltà di rapporti nella vita quotidiana.
Le reazioni disadattive alla rabbia sono di diversa tipologia e sono orientate all’evitamento o a un controllo eccessivo, per cui le persone reagiscono tenendo dentro la rabbia o invece esternalizzandola troppo, spesso esternalizzandola in modo inappropriato, mettendo in atto comportamenti o situazioni sconvenienti.
Si deduce che in un caso o nell’altro, sia trattenendo che tirando fuori, le due modalità, portano solo svantaggi. Se la rabbia inoltre permane a lungo non sarà lo stesso un buon segnale per l’individuo.
Cosa fare per la gestione della rabbia
Non saper gestire la rabbia nella maggior parte dei casi significa rischiare di recare danno agli altri e fare male a se stessi, intaccare i rapporti con chi ci circonda, e danneggiarci anche profondamente. Le ricadute della incapacità di gestione che possono verificarsi sono non solo psicologiche, ma anche fisiche. Alcuni studi hanno dimostrato che una situazione di rabbia costante porta a problemi di diversa natura organica come: la digestione, le funzioni epatiche, la muscolatura, i disturbi del sonno, e le emicranie che sono solo un piccolo esempio.
Quando si arriva a uno stato di malessere cronico diventa sicuramente importante rivolgersi a un terapeuta, che possa lavorare al fine di ripristinare un equilibrio nell’individuo.
Le psicoterapie brevi possono lavorare in pochi incontri ed in modo efficace, laddove sono stati fatti tentativi meditativi, pratiche yoga e si sia provato già ad intervenire cercando di allentare abitudini e comportamenti nocivi errati, tutte modalità che non sempre riescono a intervenire in modo risolutivo.
Imparare a gestire la rabbia, migliora il corretto funzionamento organico e psicologico. Con il terapeuta si può lavorare sulla sua gestione, per ripristinare un modo di vivere in cui l’ autocontrollo non ci fa sentire sopraffatti. Vivere in un costante stato di ruminazione rabbiosa cioè ripercorrere gli eventi che hanno generato la rabbia e rimanere in un loop di pensieri per alcuni diventa uno status quo, ma esso è assolutamente negativo per la mente.
Altra situazione invalidante è quando non si può nascondere la rabbia e se essa, inizia a guidarci in ogni azione che compiamo. Quando essa diventa lo stato emotivo prevalente, può portare a senso di colpa e a vergogna, e in alcuni casi a uno stato di isolamento, fino a sfociare in stati di depressione vera e propria.
La terapia a seduta singola per la gestione della rabbia
La domanda che ci poniamo come terapeuti specializzati nella pratica della Terapia a Seduta Singola è come essere efficaci ed efficienti anche in un solo incontro per lavorare sulla rabbia.
Cosa spaventa più una persona nel concetto di provare rabbia? Potrebbe essere provarla a lungo o provarla in diversi contesti. Oppure potrebbe essere non saper tenere a freno la rabbia, o ancora non riuscire a esternarla. Infine potrebbe temere di rovinare i rapporti, le relazioni per un eccesso della stessa.
Come abbiamo potuto osservare la rabbia può essere affrontata e valutata sotto diversi punti di vista, con la TSS diventa l’obiettivo in una singola sessione. Il paziente potrebbe arrivare nello studio con l’idea di voler abbassare la rabbia, di volerla controllare o diminuirla. Come potremmo lavorare?
Lavoreremo indagando le eccezioni al problema e verificando le tentate soluzioni. Esse sono schemi mentali o comportamenti attuati che in realtà perpetuano e fanno sussistere e mantengono in vita il problema.
Il terapeuta potrà decidere di sperimentare con il paziente già in seduta una nuova soluzione oppure dare un compito che poi la persona sperimenterà.
Un esempio sono le lettere della rabbia. Esse sono un potentissimo strumento per scaricare la rabbia.
La fanno fluire fuori con lo scopo di poter vivere poi con una qualità di vita migliore.
Le lettere consistono nello scrivere su un foglio, sino ad esaurimento dell’argomento. Vanno rivolte a chi o a cosa ha generato rabbia senza rileggere e senza controllare la correttezza della scrittura. Le lettere saranno mantenute dal paziente in un posto segreto o potranno essere distrutte in modo simbolico.
Un’altra modalità che si può sperimentare è quella di far elencare al paziente i segnali indici dell’arrivo della rabbia. Il riconoscerli, visualizzarli in forma scritta, prenderne consapevolezza ci dirige già verso una possibile individuazione di condotte più funzionali.
Se il problema è invece legato alla espressione verbale, può essere risolutiva una costruzione di un dialogo diverso ed efficace in cui la comunicazione può funzionare, senza scadere nella rabbia.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, contatta One Session!
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare le nostre pagine Facebook e Instagram
Riferimenti bibliografici
Anolli, L., (2002). Psicologia della comunicazione. Edizione Il Mulino
Cannistrà, F., Piccirilli, F., (2021). Terapia breve centrata sulla soluzione. Principi e Pratiche
Di Donato, F., (2021). Counseling Psicologico- Il quaderno degli attrezzi per Psicologi e Dott. in tecniche psicologiche
D’Urso, V., Trentin, R. (2001). Introduzione alla psicologia delle emozioni. Laterza editore.
Ekman, P. & Oster, H. (1979) Facial Expression of emotion. Animal review of psicology. 20, 527-554.
Nardone, G., Watzlawick, P. (2007). L’arte del cambiamento
Secci, E.M., (2016). Le Tattiche del Cambiamento– Manuale di Psicoterapia Strategica
Sono una Psicologa Laureata all’Universita’ La Sapienza di Roma, iscritta all’albo Psicologi dell’Umbria, Mediatrice familiare, iscritta alla scuola di Specializzazione Icnos, formata in Terapia a seduta singola e in Terapia breve centrata sulla soluzione, mi occupo di consulenze brevi e credo fortemente nel fatto che il cambiamento può avvenire anche in una unica seduta.
Timidezza o introversione: qual è la differenza?
Timidezza ed introversione sono due termini che, nel parlare comune, sono spesso usati come sinonimi.
Questo accade perché, pur rappresentando due tendenze nettamente diverse, sono simili nei comportamenti espressi.
L’introversione si traduce spesso nel preferire la calma e le situazioni con pochi stimoli ambientali. La timidezza, invece, riguarda la paura del giudizio altrui e si manifesta come tendenza al parlare poco ed al preferire situazioni più intime e raccolte.
Qual è allora la differenza?
Introversione
Il termine introversione venne teorizzato, per la prima volta, da Jung negli anni ’20, in opposizione al termine estroversione, per identificare due tratti di personalità.
Semplificando molto, si può dire che gli estroversi sono solitamente socievoli e assertivi, mentre gli introversi più riservati e riflessivi.
Una delle funzioni peculiari di questa dicotomia è che, capire se sei estroverso o introverso, ti permette di capire anche come ti ricarichi, ossia come recuperi forza ed energia.
Infatti i tratti di personalità sono legati al benessere mentale ed influenzano il modo in cui facciamo fronte agli eventi stressanti.
Banalmente, un introverso ha bisogno dei suoi spazi e di ritagliarsi, appunto, dei momenti dedicati a sé.
Mentre un estroverso, invece, ha bisogno dell’aspetto sociale, quindi di passare del tempo con gli altri e fare esperienze di gruppo.
Contestualizzando questi dati con la situazione pandemica, è facile immaginare come persone estroverse abbiano avuto più difficoltà nell’adattarsi alle misure di distanziamento sociale. I caratteri introversi, al contrario, possono averne tratto maggior beneficio.
Questi dati sono confermati anche da una ricerca sull’impatto delle restrizioni, svolta su un gruppo di studenti dell’Università del Vermont a Burlington, negli Stati Uniti e pubblicata sulla rivista scientifica Plos One.
I tratti di personalità, introversione ed estroversione, hanno mostrato ripercussioni nettamente diverse sull’umore e sullo stress percepito dai soggetti.
Timidezza
La timidezza è una condizione in cui abbiamo paura del giudizio e dell’esposizione all’altro.
È qualcosa di circoscritto alla sola presenza delle altre persone e può diventare invalidante se non ci permette di comunicare efficacemente o di mettere in pratica quei comportamenti che, altrimenti, potremmo agire tranquillamente.
Spesso la timidezza si associa ad un forte senso di inadeguatezza sociale, ma non per questo va confusa con una bassa autostima, che riguarda l’opinione che si ha di sé stessi.
La letteratura a riguardo è concorde nell’affermare che la nostra timidezza nasce e si sviluppa in base alle esperienze che viviamo, anche se i fattori biologici e genetici possono rappresentare importanti fattori di rischio.
La timidezza è quindi una credenza, appresa e mantenuta dalle credenze che la persona ha riguardo sé stessa e gli altri.
Cosa significa tutto questo e come può aiutarti?
I tratti di personalità, come l’introversione, sono tendenzialmente più stabili nel tempo e, inoltre, essere un introverso non vuol dire aver paura degli altri, né provare qualche sorta di disagio.
Al contrario, la timidezza è qualcosa di connaturato ad eventi specifici e si associa ad un malessere importante, spesso anche invalidante.
Per questo è importante sapere che puoi imparare a non subire la tua timidezza, ovvero a non farti invalidare da pensieri limitanti e catastrofici.
Il primo passo è interrompere quelle che sono le principali tentate soluzioni disfunzionali del timido, ossia l’evitamento e il chiedere aiuto.
Sono soluzioni disfunzionali perché, anche se evitare la situazione che ti mette a disagio in un primo momento ti tranquillizza, poi ti conferma una tua credenza errata: ciò che vuoi fare è troppo difficile per te.
Chiedere aiuto, allo stesso modo, ti fa sentire al sicuro, ma ti lega anche all’aiuto ricevuto, dimostrandoti, una volta di più, che non puoi farcela da solo. Il paradosso dei paradossi: ciò che ti aiuta ti rende più debole.
Bloccare queste Tentate Soluzioni Disfunzionali è il primo passo per accettare la propria timidezza ed imparare a gestirla, senza esserne sopraffatti.
Tre stretegie per superare la timidezza
Per aiutarti a gestire la tua timidezza ti proponiamo tre strategie molto semplici da mettere in pratica nella tuo quotidianità.
La prima strategia riguarda l’accettazione: accettare la tua timidezza come qualcosa che fa parte di te.
Soprattutto perché continuare a negare, ignorandola, rischia di far montare una tensione interna che non puoi reprimere e che ti travolgerà.
La seconda strategia è quella di verbalizzare ciò che provi.
Come abbiamo detto, nascondere l’emozione rischia di farla aumentare sempre più.
Esprimere ciò che provi in quel momento, dicendo “sono molto emozionato” o “sono preoccupato”, farà uscire immediatamente questa tensione e ti permetterà di calmare istantaneamente il tuo stato d’ansia.
La terza strategia è quella di imparare a vivere la tua timidezza.
Un metodo molto valido è quello di esporti, ogni giorno, in maniera progressiva e controllata, ad una piccolissima situazione che ti genera imbarazzo e disagio.
E’ fondamentale che sia tu a sceglierla e che sia davvero piccola, così che tu possa mantenere il controllo della situazione, pur trovandoti a disagio.
Conclusioni
Timidezza ed introversione rappresentano due aspetti ben distinti, ma hanno una caratteristica comune: essere introverso o essere timido non è MAI sbagliato!
Dato che i tratti di personalità sono tendenzialmente stabili nel tempo, si può cercare di agire sulla tua timidezza, ma solo se questa ti fa stare male e ti fa soffrire.
Se la tua timidezza non ti crea problemi o se il tuo essere riservato ti piace, non c’è alcun motivo per cui tu non possa goderti il tuo spazio ed i tuoi momenti di serenità personale.
Se hai bisogno di un aiuto concreto, i terapeuti del One Session Center sono a tua disposizione per una Consulenza Psicologica a Seduta Singola totalmente Gratuita, ogni martedì dalle 18:00 alle 20:00.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare le nostre pagine Facebook e Instagram.
Come migliorare le relazioni sociali
L’importanza delle relazioni sociali
In psicologia il bisogno è la percezione della mancanza totale o parziale di uno o più elementi che costituiscono il benessere della propria persona.
Può la relazione con gli altri essere considerato un bisogno imprescindibile?
Tra il 1943 e il 1954 lo psicologo statunitense Abraham Maslow concepì il concetto di “Hierarchy of Needs” (gerarchia dei bisogni o necessità) e la divulgò nel libro Motivation and Personality del 1954.
Questa scala di bisogni è suddivisa in cinque differenti livelli, dai più elementari (necessari alla sopravvivenza dell’individuo) ai più complessi (di carattere sociale). L’individuo si realizza passando per i vari stadi, i quali devono essere soddisfatti in modo progressivo.
Questa scala è internazionalmente conosciuta come “piramide di Maslow”.
Partendo da questi presupposti riflettiamo sul pensiero di Aristotele.
Il filosofo greco (IV secolo A.C.) sostenne che l’uomo è un animale sociale poiché tende a formare e stare con gruppi di individui.
Dunque se il bisogno è esclusività per l’uomo e quindi anche la sua socialità, possiamo considerare questa come un bisogno primario dell’uomo che per necessità differenti la utilizza per il suo benessere psicologico.
Strategie per migliorare le relazioni sociali
E’ possibile allenare le relazioni sociali?
Ogni comportamento può essere migliorato attraverso la messa in atto di strategie che possono favorire il legame con l’altro.
Siamo immersi in ambienti differenti e ci comportiamo con le persone in modo diverso a seconda del ruolo, gerarchia, legame che instauriamo con gli altri.
Molte variabili intercorrono per promuovere la nostra socialità, dagli aspetti culturali, l’educazione, dalle nostre emozioni e temperamento.
Ognuno di noi porta con sé delle risorse, dobbiamo scoprirle ed utilizzarle al meglio.
Il nostro atteggiamento deve essere curioso ed aperto all’altro.
Ascoltiamo in modo attento ed interessiamoci all’altro modulando in modo corretto le interazioni comunicative.
Essere gentili ed accoglienti aiuta a creare un buon clima di fiducia.
Più il linguaggio è diretto e privo di contraddizioni meglio verranno recepiti i messaggi che si vogliono trasmettere.
Essere empatici aiuta a comprendere i bisogni dell’altro ed accettare le critiche costruttive può migliorare la nostra percezione e dunque il porsi in relazione all’altro.
Uscire dal proprio egocentrismo e prevedere più punti di vista aiuta ad essere flessibili e dunque a saperci adattare con persone diverse che hanno pensieri differenti.
“L’altro” può essere una risorsa e un arricchimento per noi stessi e per noi in relazione a lui. Il confronto è strumento principe per entrare in contatto e scambiare idee, opinioni e riflessioni.
Benefici di buone relazioni
Avere una buona rete di relazioni sociali permette di poter esplorare altri stili di vita e questa conoscenza arricchisce i nostri comportamenti.
Creare situazioni nuove di apprendimento sociale aiuta ad ampliare le nostre vedute e ci consente di rimodularci ogni volta con l’altro trovando equilibri diversi.
Esplorare ambienti, ci permette di fare esperienze nuove che ci possono immettere in un nuovo processo di conoscenza di noi stessi.
L’altro e la relazione con lui può aiutarci a conoscere meglio noi stessi, riconoscere le nostre mancanze e colmarle grazie alle scoperte che le relazioni sociali ci offrono.
Essere liberi da ogni forma di pregiudizio o credenza sia su noi stessi che sugli altri aiuta a essere più sereni ad aperti nella relazione e nella ricerca di relazioni.
Essere predisposti al cambiamento è la formula vincente per apprendere dalle relazioni, mettersi in movimento è il primo passo.
Se sentissi il bisogno di parlare con uno specialista, non esitare a chiedere aiuto: ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare la nostra pagina FB OneSession.it
Riferimenti bibliografici
http://www.societapartecipativa.it/blog/ (consultato in data 23/06/2021) http://dentrolatanadelconiglio.com/relazioni-interpersonali.html (consultato in data 24/06/2021 https://www.psicologiadellavoro.org/(consultato in data 28/07/2021)
Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262
5 strategie di comunicazione che danneggiano la tua relazione di coppia
La Comunicazione di coppia è uno degli ingredienti fondamentali per fare in modo che la coppia funzioni.
A volte pensiamo, erroneamente, che debbano accadere sempre grandi eventi – tradimenti, bugie, problemi nell’educare i figli – perché all’interno di una coppia si creino attriti, incomprensioni e litigi.
In realtà dimentichiamo uno degli aspetti fondamentali di una relazione, del vivere l’uno accanto all’altra: mi riferisco al fatto che la coppia, interagendo, prima di qualsiasi altra cosa comunica, dialoga, potremmo dire ‘vive nella comunicazione’.
Proprio per questo motivo è importante riconoscere quali errori comunicativi sono presenti nella comunicazione di coppia per modificarli ed eliminarli.
Vediamo in questo articolo quali sono.
1. Puntualizzare
Come scriveva Oscar Wilde, ‘con le migliori intenzioni si ottengono gli effetti peggiori’. Ed è quello che succede nel momento in cui puntualizzi costantemente qualcosa al partner.
Puntualizzare, significa chiarire, specificare e precisare, anche in modo eccessivo e pesante, le situazioni e le condizioni, le sensazioni e le emozioni nel rapporto con l’altro.
“Guarda che si fa così…”, “Mi raccomando…”, “Guarda che in realtà…”
Puntualizzare è un tipo di comunicazione che apparentemente può far pensare ad una strategia per evitare quegli equivoci e quelle incomprensioni che potrebbero trasformarsi in attriti e conflitti. In realtà avviene esattamente il contrario: è proprio il puntualizzare che prepara il terreno per i conflitti. È, infatti, fastidioso sentirsi sempre dire e spiegare come stanno i fatti o come dovrebbero essere per funzionare meglio.
2. Recriminare
È sicuramente un ingrediente altamente velenoso!
Recriminare fa leva sui sensi di colpa dell’altro, ponendo sul banco degli imputati in un processo infinito. E qualsiasi persona, quando si trova sotto processo, reagirà attaccando o fuggendo.
Le accuse sono facilmente riconoscibili: sono sempre alla seconda persona singolare “TU” e contengono parole come “sempre” e “mai”.
3. Rinfacciare
“Mi sono sacrificato per te!”, “Non sai quanto mi è costato venire a quella cena!”
Colui che rinfaccia si pone come vittima dell’altro e, da questa posizione di dolore, usa la propria sofferenza per indurre il partner a correggere quei comportamenti che l’hanno generata. Spesso con scarsi risultati.
4. Predicare
Questa strategia disfunzionale consiste nel proporre ciò che è giusto o sbagliato a livello morale e, sulla base di questo giudizio, esaminare e criticare il comportamento dell’altro. Ma si sa…l’effetto sermone non fa altro che aumentare la voglia di trasgredire alle regole.
5. Biasimare
Biasimare è una forma di comunicazione che non contiene una critica diretta, diversamente dalle altre forme di comunicazione che abbiamo visto sopra.
Chi biasima solitamente utilizza in un primo momento dei complimenti, ma subito dopo essersi complimentato aggiunge una seconda parte in cui afferma che avrebbe potuto fare di più o fare meglio o fare qualcosa di diverso.
Chi riceve questa comunicazione rimane interdetto perché riceve due messaggi contrastanti.
Biasimare è una strategia incredibilmente efficace per creare problemi quando non ce n’è nemmeno l’ombra!
Altri atti comunicativi fallimentari
“Te l’avevo detto!” una sentenza in grado di scatenare le furie anche della persona più mansueta.
“Lascia…faccio io” che appare come una gentilezza ma che in realtà nasconde una forma di sottile squalifica delle capacità dell’altro.
“Lo faccio solo per te” sacrificandosi per l’altro in modo unidirezionale, facendolo sentire in debito e inferiore poiché bisognoso di tale gesto di “generosità”.
In conclusione…
Parafrasando Wittgenstein: “le parole sono come pallottole”, dobbiamo quindi imparare a usarle accuratamente, per non creare danno a noi stessi e agli altri.
E tu quale tipo di comunicazione rintracci all’interno della tua coppia?
Se sentissi il bisogno di parlare con uno specialista, non esitare a chiedere aiuto: ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
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Riferimenti bibliografici
Nardone, G. (2005). Correggimi se sbaglio. Milano: Ponte alle Grazie.
Zeig, J., Kulbatski, T. (2012). I dieci comandamenti della coppia. Milano: Ponte alle Grazie.
Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.
Scrivere per superare la fine di una relazione
Perché le relazioni finiscono? Perché ad un certo punto la persona che credevamo sarebbe stata al nostro fianco per tutta la vita esce di scena?
Le motivazioni per cui una relazione finisce sono molteplici. Talvolta le cause possono essere degli eventi esterni che portano la coppia a separarsi, forzatamente. Altre volte invece ci si accorge di non condividere più gli stessi valori, perché si è cambiati. Altre volte ancora i partner non riescono più a fidarsi l’uno dell’altro, dopo tradimenti o bugie.
Qualsiasi sia la causa della rottura, entrambi i partner saranno invasi da una serie di vissuti ed emozioni, talvolta difficili da gestire.
Le fasi della fine di una relazione
La fine di una relazione porta con sé la perdita di una persona molto cara. Proprio per questo motivo questo evento può essere paragonato ad un lutto.
E come nel lutto, si passa attraverso una serie di fasi che, dopo rabbia e sofferenza, permetteranno ai protagonisti di riprendere in mano la loro vita. Vediamo quali:
- La relazione è finita, ma si fa fatica a crederlo. I protagonisti si rifiutano di credere che la persona amata non condivida più con noi gran parte della nostra quotidianità.
- In questa fase si comincia a rendersi conto della fine della relazione. La rabbia può essere rivolta contro se stessi, per non aver fatto funzionare la storia, o contro il patner per averci lasciati. Spesso è rivolta anche contro tutti quelli che vediamo felici, pensando che al loro posto dovremmo esserci noi.
- È la fase dei “se”. “E se quella volta mi fossi comportato diversamente? E se potesse esserci un’ulteriore possibilità?” In questa fase si cercano dei modi di ricongiungersi con l’ex partner, rimanendo così ancorati al passato.
- Indietro non si può tornare, si prende consapevolezza della fine della relazione. Ci si rifugia così nei ricordi di un passato che è stato anche positivo, soffrendo incredibilmente.
- Dopo le prime quattro difficili fasi, ora si diventa consapevoli che indietro non si tornerà. Si custodiscono i momenti positivi della tua storia d’amore, ma è arrivato il momento di dedicarsi a se stessi. Ripensare alla storia finita non trascina più nello sconforto.
Ricominciare a vivere dopo la fine di una relazione
Nella teoria sembra tutto facile, ma a volte il dolore è così insopportabile da non riuscire a credere che prima o poi si supererà. I ricordi della relazione passata tengono costantemente compagnia, al punto da credere che non si sarà mai più felici.
Ecco quindi un piccolo, semplice ma potentissimo esercizio che puoi fare in autonomia per dare spazio al tuo dolore e pian piano farlo defluire.
In una semplice parola: scrivi.
Ogni sera, prima di coricarti, prenditi del tempo (almeno 15 minuti) per mettere nero su bianco i tuoi pensieri, i tuoi ricordi, il tuo dolore. Dev’essere un momento solo per te, il foglio e la penna. Non importa la forma, quanto il contenuto. Lasciati andare, esprimi sul foglio tutto ciò che ti tormenta, i pensieri che durante il giorno ti attanagliano e che cerchi di evitare. Una volta finito, è importante che tu non rilegga quanto hai scritto!
Se ti accorgi che il dolore persiste, prova ad affidarti ad un terapeuta. Anche un solo incontro può bastare!
Ogni martedì dalle 18:00 alle 20:00, gli psicologi del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri online gratuiti utilizzando la Terapia a Seduta Singola. Per avere maggiori informazioni e prenotare il tuo incontro, puoi contattarci inviando una e-mail a info@onesession.it oppure visitala nostra pagina Fb OneSession.it.
Riferimenti Bibliografici
Pennebaker, J. W. (2017). Il potere della scrittura. Tecniche nuove edizioni.
https://www.psychologytoday.com/us/blog/in-flux/201911/5-tips-respectfully-end-intimate-relationship
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
Come migliorare il rapporto con il tuo capo
Perché è importante avere relazioni serene nell’ambiente di lavoro?
Riuscire ad instaurare un rapporto soddisfacente con il proprio capo, e con i colleghi, è il desiderio di tantissime persone. Sul luogo di lavoro, infatti, è indispensabile poter contare su un ambiente tranquillo in cui poter lavorare con serenità. E’ ormai da diversi anni noto che, quando le persone si sentono tranquille e senza troppe pressioni addosso, il rendimento lavorativo e la soddisfazione personale aumentano!
Viceversa, un rapporto altalenante o scadente con il proprio superiore, può spesso essere collegato ad una soddisfazione minore verso il proprio lavoro, che può andare a ripercuotersi negativamente anche su altri ambiti di vita.
Qualche dritta per migliorare la situazione
Ottenere una relazione distesa con il capo può non essere un processo immediato, ma ecco qualche suggerimento per riuscire al meglio nella costruzione di rapporto nuovo e più sereno:
1. Sii proattivo
Se pensi di avere la soluzione per un problema, esponila! I suggerimenti, se dati con educazione e rispetto, faranno capire al tuo capo quanto tu sia dedito al lavoro e competente.
2. Presta attenzione alle scadenze
Anche se può essere difficile, soprattutto quando si è sommersi di lavoro, è molto importante rispettare le scadenze, perché sarà una prova formidabile della tua affidabilità.
3. Chiedi feedback
Quando te ne capita l’occasione, chiedere al capo dei feedback sul lavoro svolto ti farà apparire come una persona desiderosa di migliorarsi e fare bene il proprio lavoro. Non avere paura di eventuali riscontri negativi, se dovessero esserci saranno uno spunto per migliorare le tue prestazioni!
4. Ricorda che, oltre ad essere il tuo superiore, è una persona
Come tutti, anche il tuo capo avrà una vita fuori dall’ambiente lavorativo. Cercare di conoscerlo, mostrandoti autentico e rispettoso, potrebbe migliorare notevolmente il vostro rapporto!
Presta attenzione alla comunicazione
Un ultimo suggerimento per rendere il rapporto con il capo più sereno è quello di prestare molta attenzione alla comunicazione.
Il nostro modo di comunicare con gli altri è davvero importante, perché può influenzare direttamente la relazione con la persona che abbiamo davanti.
Quando si tratta di un superiore, è fondamentale adattarsi al suo stile comunicativo e al suo registro linguistico.
Cerca di mantenere questo stile anche nella comunicazione via e-mail, soprattutto se usate spesso questo strumento.
Inoltre, se possibile, cerca di prediligere gli scambi dal vivo a quelli telefonici o via e-mail, perché questi danno una possibilità maggiore di comprendersi e approfondire l’argomento di conversazione.
Riuscire a costruire un rapporto sereno con il proprio capo è possibile, anche se può richiedere qualche sforzo.
Tuttavia, l’impegno iniziale sarà ricompensato da un ambiente lavorativo più disteso, nel quale fare emergere le proprie competenze professionali.
E se credi di avere bisogno di un po’ di aiuto, la soluzione potrebbe essere chiedere aiuto ad un professionista, che ti aiuterà con un incontro di Terapia a Seduta Singola a trovare le risorse e comprendere come usarle per affrontare il problema.
Se sei interessato alla Terapia a Seduta Singola ogni martedì per un periodo limitato, dalle 18:00 alle 20:00 gli Psicologi e gli Psicoterapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri gratuiti aperti a tutti.
Prenota la tua consulenza gratuita.
Bibliografia
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018), Terapia a Seduta Singola. Principi e pratiche. Giunti Psychometrics
Sono una psicologa, mi occupo di sostegno psicologico attraverso l’uso della Terapia a Seduta Singola per poter aiutare le persone a risolvere i propri problemi in tempi brevi. Ricevo a Cosenza e On Line (Skype).
Christmas Blues ovvero la Depressione Natalizia: come superarla?
Natale: che stress!
Happy days. Ma anche no.
5 consigli per superare le feste in leggerezza
Di seguito alcuni semplici consigli:
Psicologa, laureata all’Università “La Sapienza” di Roma, mi sto formando come psicoterapeuta ad approccio Breve Sistemico-Strategico.
Lavoro da anni in Servizi rivolti a persone con disabilità e con disturbi psichiatrici, occupandomi di sostegno psicologico individuale, di coppia e alle famiglie, favorendo processi di crescita personale e la costruzione di percorsi volti a migliorare la qualità di vita.
Lui, lei e gli altri: come smettere di fare l’amante?
Il poeta e attore francese Jean Cocteau ci ha lasciato un bellissimo pensiero sull’amore:
“Il verbo amare è uno dei più difficili da coniugare: il suo passato non è semplice, il suo presente non è indicativo e il suo futuro non è che un condizionale”.
L’amore può essere coniugato in tanti modi differenti, ognuno dei quali ha le sue ragioni.
Ci sono coppie che condividono un progetto di vita insieme da diverso tempo, che gestiscono una vita coniugale ed una vita di coppia segreta, persone che si innamorano e intrattengono una relazione con un uomo o una donna non liberi, persone che soffrono per un tradimento subito.
Insomma un panorama vastissimo che ha come unico protagonista l’amore col suo tempo scandito da gioia e dolore, passione e gelosia, solitudine e condivisione.
Ma cosa accade a chi abbandona la ragione e il senso di morale comune e dà ascolto solo alla passione travolgente e al puro sentimento?
Non sta a noi di certo giudicare la scelta di vivere una vita in cui si è terzo rispetto ad una coppia e ad un progetto di vita altrui ma possiamo provare a pensare a come possa essere possibile e realizzabile l’interruzione di un meccanismo di ripetizione che vede una persona ricadere sempre in una relazione ambigua e in cui manca la concretezza dello stare insieme totalmente.
La storia di Barbara
Barbara ha 37 anni e da quando ne aveva 25 ha iniziato a collezionare una serie di storie “clandestine” con uomini impegnati e più grandi di lei.
È passata da una storia all’altra, in un crescendo di complicazioni e problemi da cui pare non riuscire a staccarsi.
Ha avuto solo due storie con persone coetanee e libere; la prima è stata la fugace avventura di una notte, la seconda un rapporto più duraturo: “un anno di noia” a suo dire.
Il lavoro con Barbara è appena cominciato e sta dando spunto a queste riflessioni.
Ma proviamo a capire cosa accade a chi sceglie di vivere, tra segreti e compromessi, nella veste dell’amante.
Un vero amore, che come tutti i grandi amori della letteratura, del cinema, dell’arte, della mitologia classica è ostacolato e quindi bisogna lottare e soffrire per tenerlo in vita. Una storia che diventa privilegio dunque, in quanto unica e speciale ma che vede il partner che vive nell’ombra reso fragile dall’attesa e dall’accettazione dei tempi e modi dell’altro. In pratica i classici amanti delle storie più belle e romantiche.
C’è poi chi ama vivere nell’ombra perché ne guadagna in termini di eccitazione e adrenalina che fanno da leitmotive ad un tempo sospeso tra ragione ed emozione. Ecco che la storia può diventare un rapporto duraturo nel tempo oppure un passare da una storia all’altra, alimentato dal desiderio, dalla speranza di rivivere le sensazioni che eccitano corpo e mente.
Paura dunque di investire in una storia importante? Un costume, un modo di essere o fare? Una consapevole rinuncia? Una fame di affetto e attenzioni? Un triste destino?
Chi è l’amante?
Una persona che sceglie di vivere nell’ombra accontentandosi di briciole di un amore che sembrano saziare una fame di attenzione e cura, perché crede di non poter ambire ad altro.
Un inconsapevole “terapeuta” della coppia in crisi, che con la sua presenza dà alla coppia, paradossalmente, nutrimento e nuova linfa in quanto fa da contenitore e riequilibratore.
Una persona che con leggerezza sceglie di vivere consapevolmente o inconsapevolmente una meravigliosa esperienza, a termine ma ricca di felicità e brio. Un modo quasi di tenersi lontano dal tempo che avanza e dal comune percorso del ciclo di vita.
Una realtà costante e parallela alla coppia ufficiale con la quale l’elemento tradito dovrà paradossalmente imparare a convivere per il bene della coppia stessa e il suo equilibrio.
Torniamo a Barbara…
Il suo racconto lascia intravedere una persona che preferisce vivere nell’ombra e accontentarsi pur di non dare voce ai suoi desideri e alle sue paure.
E’ stata ad oggi fatta una sola seduta che è iniziata con un lavoro di valorizzazione delle sue risorse e competenze in quanto appare forte in lei un senso di scarsa autostima che la porta a svalutare se stessa.
La terapia a seduta singola è venuta in soccorso a questo primo intervento in quanto, col suo approccio costruttivo minimalista, parte dal presupposto che la responsabilizzazione e l’incoraggiamento sono capaci di produrre nella persona un piccolo cambiamento positivo che può poi portare a cambiamenti più grandi.
Barbara mi consegna poi un’immagine molto bella che mi permette di avere in mano una chiave di lettura del suo vissuto. Insegna arte in un liceo. Pertanto utilizza un dipinto per descrivere la storia che attualmente sta vivendo e che l’ha portata qui perché ha riempito e fatto strabordare quel vaso già mezzo pieno di acqua.
Mi mostra lo screensaver del suo cellulare che ha come immagine “Il bacio” di Gustav Klimt, un dipinto sospeso nel tempo che ricordo di aver visto molti anni fa a Vienna. Una coppia stretta in un abbraccio molto appassionato in cui si vede l’uomo chinarsi sulla donna che riceve il suo bacio.
Per Barbara quel dipinto rappresenta il trionfo dell’eros e il suo grande potere di dare armonia ai conflitti tra uomo e donna; quel bisogno d’amore che la porta a mettere da parte gli aspetti negativi e a tenersi stretto un qualcosa a cui la sua insicurezza attribuisce un grande valore.
La storia di Barbara ha come obiettivo quello di interrompere un circuito di incertezza per puntare a nuove consapevolezze e nuovi obiettivi.
Barbara ha scelto di non procastinare più il suo cambiamento, di essere scelta e non alternativa.
Barbara ha scelto di coniugare il suo tempo al futuro.
Bibliografia
P.Watzlawick & G.Nardone – Terapia breve strategica
M.Recalcati – Mantieni il bacio
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
Scusate il ritardo!
“A verità è che a te non ti smuovono nemmeno i miracoli!”
Questa la frase che la madre di Vincenzo il protagonista del film di Massimo Troisi “Scusate il ritardo” dice al figlio e forse questa è la frase che chi ritarda potrebbe sentirsi dire da chi aspetta 10 minuti, mezz’ora o addirittura anche un’ora o più.
È capitato a tutti noi un amico/a, un fidanzato/a o un membro della famiglia che è sempre in ritardo. O magari i ritardatari siamo proprio noi!
Il ritardo potrebbe diventare un tratto caratteristico della personalità. Questo potrebbe aumentare le probabilità di perdere parecchie opportunità come offerte di lavoro, attività divertenti, amicizie e molto altro.
Marylin Monroe ha detto una volta in una sua intervista: “Agli appuntamenti sono immancabilmente in ritardo, a volte anche di due ore. Ho provato a cambiare questi miei modi, ma i motivi che mi fanno ritardare sono troppo forti e troppo piacevoli”.
Quali sono i motivi, le situazioni che fanno andare in black out il tempo del ritardatario?
Non lasciarsi travolgere dall’ansia di far presto, di arrivare ad un appuntamento importante in tempo, non farsi prendere dallo stress di raggiungere quella situazione o quella persona ad un orario preciso e stabilito…insomma vivere in modo easy e slow il proprio tempo magari decidendo addirittura di non indossare l’orologio.
Una gran bella strategia…ma gli altri? Quelli che aspettano? Come si sentono? Cosa provano dinanzi ad una mancanza di rispetto e attenzione così evidente?
La pigrizia poi, un altro freno al tempo del ritardatario. Alzarsi dal letto al mattino all’ultimo minuto, arrivare in aereoporto o in stazione poco prima che chiuda il ceck-in o che il treno parta solo perché la forza di volontà non riesce a dominare il piacere di restare a poltrire. Una pigrizia rischiosa, adrenalinica fatta di corse, fiatone ed eccitazione.
Cosa dire poi degli eterni ottimisti; quelli che: “mica trovo traffico!”, “sicuramente mi aspetteranno…”, “certo che non chiudono in orario!”, “ma cosa potrebbe mai capitarmi?”.
Gli eterni ottimisti non considerano per nulla la possibilità di un imprevisto. Seguono il proprio e altrui tempo in maniera molto serena.
L’indecisione è un altro grande ostacolo…questa situazione ci riporta immediatamente agli occhi la scena di una donna in sottoveste o in biancheria intima dinanzi all’armadio aperto e stracolmo di abiti che disperata dice: “non so cosa mettermi!” e poi c’è chi non sa se andare in macchina o in moto, chi torna indietro perché non ricorda se ha chiuso la porta o se ha preso le chiavi.
Il ritardatario sembra quasi un ribelle del tempo, un eterno ottimista che sposa uno stile di vita tranquillo e rilassato ma allo stesso tempo fatto di accelerazioni e sensi di colpa.
Uno di stile di vita molto spesso accompagnato dalla speranza o dalla promessa di non rifarlo la volta successiva. Promessa e speranza che nella maggior parte dei casi vengono tradite da situazioni esterne, stranamente sempre indipendenti dalla propria volontà.
Esistono delle strategie per “fregare” questo tempo post datato?
Sarebbe innanzitutto opportuno osservare se il ritardo è dovuto a comportamenti specifici (distrazione, pigrizia, paura di andare sotto pressione…etc.) o se magari si fa tardi sempre e solo in una circostanza ben definita o per andare in un certo luogo.
Osservare il ripetersi di un certo atteggiamento può essere utile e può aiutare a individuare le eccezioni, orientandosi così alle risorse e ai punti di forza.
Siamo sicuri che arrivare puntuali ci farebbe star meglio? Che valore e senso diamo al nostro ritardo? Cosa ci guadagniamo a far tardi? Arrivare in orario ci fa sentire in ansia o sperduti? È possibile addomesticare il nostro tempo? Ci si può chiedere spesso se è il ritardatario che ha bisogno di cambiare o se chi attende ha bisogno di rilassarsi?
Se arrivare in ritardo per te è uno stile di vita che è diventato un peso, impara a organizzarti, a dare la priorità ai vari impegni che scandiscono il tempo.
Se il tuo processo di cambiamento diventa complicato e ti accorgi di non farcela da solo/a, affidati a un professionista oppure alla visione di un buon film:
Virginia: Come faccio a sapere che ci sarai?
Mac: Se ti dico che ci sarò, ci sarò. E sono sempre puntuale.
Virginia: Sempre?
Mac: Sempre. Se ritardo, vuol dire che sono morto.
(Sean Connery e Catherine Zeta Jones nel film Entrapment, 1999)
Bibliografia
Alfonso Signorini – Marilyn. Vivere e morire d’amore – Ed. Mondadori, 2010
Diana DeLonzor – Never Be Late Again – Ed. Post Madison Pub,2002
Flavio Cannistrà, Federico Piccirilli – Terapia a seduta singola – Ed. Giunti, 2018
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
La Sindrome del cane San Bernardo: come smettere di dire sempre “Sì”
Rifiutare le richieste, i favori, il supporto a chi te lo chiede…sono cose che ti mettono in grande difficoltà.
Anche se hai degli impegni personali non riesci a non accontentare gli altri e, piuttosto, rinunci tu ai tuoi piani. E così ti ritrovi spesso incastrato in situazioni da cui non riesci a svincolarti per la tua innata indole di aiutare gli altri, che ti porta inevitabilmente a dire sempre di “sì”.
Proprio come un cane San Bernardo dedito al soccorso e all’aiuto anche in condizioni estreme.
Però, a volte dire un “no” è necessario e oggi ti spiego come imparare a farlo.
Se anche a te capita di non riuscire a rifiutare le richieste, questo è l’articolo che fa per te e di seguito ti suggerirò alcune strategie per imparare a dire di no senza sentirti in colpa.
3 passi per imparare a dire di “no”
Prima di descrivere i 3 passi per imparare a dire “no”, vorrei fare chiarezza su un punto fondamentale: si dice di “no” ad una domanda non ad una persona. Questa precisazione che può sembrarti banale, in realtà è ciò che tiene in vita il problema. Infatti, molto spesso, si tende ad aiutare gli altri per essere utili e per fare qualcosa di buono, ma anche per non sentirsi eventualmente in colpa. Attenzione, però, a non confondere l’altruismo con l’essere impegnati costantemente e, soprattutto, a proprio discapito, in costanti “salvataggi”.
Come fare per dire di no senza sensi di colpa?
Ecco i primi 3 passi:
1. “Scusa, vorrei tanto, ma non posso”
Da oggi, una volta al giorno per due settimane, mettiti in una situazione in cui qualcuno ha una richiesta da farti: può essere una chiacchierata con un amico che ti chiede un prestito, con un collega che ti chiede un cambio turno oppure una richiesta di un membro della tua famiglia e prova a rispondere “Scusa, vorrei tanto, ma non posso”. Con questa frase puoi permetterti di dire di no alla richiesta che ti viene fatta puntando sul fatto che il rifiuto non dipende da te, ma dai tuoi impegni. Evita di far seguire delle spiegazioni, e se proprio l’altro è insistente accampa una scusa vaga – e se insiste mostrati pure infastidito.
È chiaro che non sempre sarà possibile ogni giorno trovare una situazione in cui qualcuno ti fa una richiesta. L’importante, però, è che ti metti in gioco: se lo fai solo per 2 o 3 volte non serve a nulla.
2. “Scusa, potrei farlo, ma in questo momento ho cose più importanti di cui occuparmi”
Quando ti sentirai sicuro di aver fatto tuo il primo passo e ti sentirai più sciolto nel non assecondare ogni richiesta, potrai passare ad un gradino più in alto rispondendo “Scusa, potrei farlo, ma in questo momento ho cose più importanti di cui occuparmi”. Rimane sempre l’idea che ci sia un impegno che ti impedisce di accogliere la richiesta dell’altro, ma in più c’è anche un elemento di scelta, perché stai dando una priorità alle tue cose da fare piuttosto che alle sue.
Anche qui, esercitati per due settimane e fai tuo questo nuovo modo di fare.
3. “Potrei aiutarti, ma non mi va”
Adesso è giunto per te il momento di mettere in pratica il terzo passo, rispondendo “Potrei aiutarti, ma non mi va”, mettendo la museruola al Cane San Bernardo che è in te.
Con l’esercizio costante ti renderai conto che ti verrà molto più facile dire di no quando non puoi, non vuoi o semplicemente non ti va, facendo di conseguenza anche cambiare la prospettiva che gli altri hanno di te e, chissà, magari si mostreranno anche più sensibili rispetto a quelle che sono le tue richieste ed esigenze.
E ricorda: se dici di no, non sei una persona cattiva!
Se ti rendi conto di aver bisogno di un aiuto in più con l’apprendimento del dire “no”, puoi sempre contattare uno Psicologo formato in Terapia a Seduta Singola che può aiutarti già dopo un unico incontro.
Cerca sul nostro sito https://www.onesession.it/il terapeuta più vicino a te (o anche online) e più adatto alle tue esigenze.
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Bibliografia
Sellin, R. (2015). Le persone sensibili sanno dire no. Milano: Feltrinelli.
Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.
Star bene con gli altri fa bene alla salute: 4 consigli utili.
L’importanza delle relazioni sociali
Ognuno di noi, nella propria quotidianità, è portato a relazionarsi con altre persone: l’uomo è, infatti, un “animale sociale” che tende per natura ad interagire e a creare legami.
Le relazioni che intessiamo rappresentano un elemento importante per la nostra esistenza.
Che si tratti d’amore, amicizia, fratellanza, lavoro o famiglia, ogni relazione porta con sé degli elementi che possono favorire un processo di crescita personale ed incidere sulla percezione che abbiamo della qualità della nostra vita.
Oggi, però, riuscire a mantenere relazioni stabili diventa sempre più difficile: i ritmi di vita, le condizioni di lavoro e, per dirla con Sennet, la nostra condizione di “flessibilità” ha conseguenze dirette nella gestione dei rapporti umani.
Il nostro stile di vita, infatti, può portare ad un impoverimento della sfera relazionale. Intrattenere relazioni sociali è tuttavia fondamentale.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, stabilire relazioni soddisfacenti e mature è un elemento essenziale per il nostro benessere psicologico che, a sua volta, rappresenta un fattore determinante per la nostra salute. Relazionarsi con gli altri è, quindi, una dimensione indispensabile della nostra esistenza, anche se le problematiche relative a quest’aspetto diventano ogni giorno più numerose.
Cosa c’è che non va nelle nostre relazioni?
Oggi le persone che lamentano insoddisfazione nella sfera relazionale sono tantissime. In genere, ad incidere sono soprattutto due aspetti: un aspetto quantitativo “avere poche relazioni” ed uno qualitativo “il relazionarsi in modo superficiale”.
Da un lato, infatti, a partire dai 25 anni i rapporti sociali tendono ad essere sempre meno numerosi, dall’altro, mantenere esclusivamente rapporti superficiali può fare emergere una sensazione di solitudine.
Chi ha problemi ad avere rapporti con le altre persone tende a credere di essere il “solo”, ma non è così.
Contrariamente a quanto si creda, gli italiani mostrano bassissimi livelli di soddisfazione nella loro sfera sociale. Il report BES, pubblicato da Istat, mostra come la qualità delle nostre relazioni sia drasticamente calata dal 2010 ad oggi. Ad essere peggiorati sono tutti gli aspetti della vita sociale: dalle relazioni amicali (-9%) a quelle familiari (-7,5%) in un contesto in cui la fiducia nelle persone è calata sensibilmente (-9%).
Cosa fare per migliorarle?
Se credi che le tue relazioni abbiano bisogno di migliorare, sappi che non sei il solo, e soprattutto, che questo problema non è insormontabile. La prima cosa da fare è capire i motivi per cui sei insoddisfatto delle tue relazioni e provare ad uscire dalla tua zona di comfort. All’inizio ti sembrerà difficile ma ogni tuo sforzo sarà più che compensato.
Ecco per te alcuni consigli su come aumentare il ventaglio delle tue relazioni e migliorare quelle già esistenti:
1) Scegli una cosa che ti piace fare
Frequentare posti in cui entrare in contatto con persone che condividono i tuoi stessi interessi e le tue stesse passioni è un ottimo modo per avviare nuove conoscenze;
2) Vai oltre il “buongiorno”
Sono tante le persone che quotidianamente incrociamo ma di cui sappiamo poco o nulla. Prova ad andare oltre il semplice saluto. Da un caffè può nascere una splendida amicizia.
3) Scopri il territorio
Il luogo in cui vivi ti offre tanto: dalle attività culturali alle occasioni di svago. Sicuro di aver preso in considerazione tutte le opportunità? Scegline una ed esci!
Sii cittadino attivo
Aiutare gli altri ci permette di star meglio con noi stessi ed incontrare persone e storie nuove. Impegnati in una causa sociale che ti sta a cuore.
E se non funziona? Non temere! Può accadere che da soli non si riesca a raggiungere l’obiettivo desiderato. In tal caso puoi rivolgerti ad un professionista che ti aiuterà ad individuare quali siano per te i passi più giusti da compiere.
Grazie alla Terapia a Seduta Singola hai la possibilità di ottenere risultati in tempi brevi partendo dalle tue risorse e dai tuoi punti di forza. A volte anche un solo incontro può aiutarti a farti superare quelli che ti sembravano ostacoli insormontabili.
Roberta Miele
BIBLIOGRAFIA
R.Sennet (2001), L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale. Feltrinelli.
Rapporto BES 2018, ISTAT .
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018), Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti Psychometrics .
Hai mai sofferto il giudizio degli altri?
Ti senti inadeguata, sotto giudizio, ti senti sempre piccola e gli altri sempre più grandi e più bravi di te?
Quando sei davanti ad altre persone che conosci poco o non conosci per niente, ti senti sempre sotto esame, come se dovessi continuamente dimostrare quanto vali?
Hai paura di come ti vedono gli altri e senti puntati addosso i loro occhi, tanto da chiederti continuamente: “Sarò stata abbastanza brava? Cosa penseranno di me? Mi riterranno alla loro altezza?”.
Non c’è dubbio, soffri molto il giudizio degli altri, forse al punto da star male e condizionare buona parte della tua vita. Nonostante le conferme e il giudizio positivo che ricevi dall’esterno, niente sembra sufficiente per rassicurarti e farti sentire più adeguata.
Nei momenti di lucidità, sei consapevole che non sono sempre tutti lì a giudicarti, di non essere sempre al centro dei pensieri degli altri ma poi torna inevitabilmente la paura di non essere abbastanza e di conseguenza di essere giudicata.
Non ti senti abbastanza brava, bella, brillante o intelligente. Pensi di non essere un buon partner o un bravo genitore o magari non ti senti abbastanza di successo nel tuo lavoro.
Questi pensieri forse sono continuamente nella tua testa, chissà quante cose avrai fatto per ottenere un “sei brava” e quante per paura di non riceverlo!
A qualcuno sarà capitato di sentirsi dire dai genitori o dalle persone amate: “Non vali niente! Potevi fare di più! Non sei stato molto bravo!” e queste frasi probabilmente lo avranno portato ad aver paura del giudizio degli altri. Ma non è necessario per forza avervissuto un’infanzia difficile per sviluppare questa paura, molti si ritrovano con la paura del giudizio pur provenendo da famiglie affettuose e serene.
Avrai sentito tante volte la gente giudicare gli altri, e purtroppo sono in tanti a farlo, ma nonostante ciò, non devi lasciare che il tuo desiderio di voler essere apprezzata da tutti in ogni momento crei dentro di te la paura del giudizio degli altri, imponendoti il modo in cui ti approcci alla vita.
Ti chiederai: “Ok, ma come posso fare? Come posso superare la paura del giudizio degli altri?”.
Come prima cosa ti suggerisco di cercare di capire chi vuoi essere!
Se sei spesso concentrata su che cosa gli altri pensano di te probabilmente non hai ben chiaro chi vuoi essere nella vita. Per questo devi cercare di capire chi sei, individuare i tuoi limiti per imparare ad accettarli ma soprattutto devi scoprire i tuoi punti di forza, perché sono quelli che ti aiuteranno a tenere a bada la paura del giudizio.
Un’altra cosa che ti suggerisco è di smettere di giudicarti!
Se sei tu per prima a dare troppa importanza a ciò che pensi e fai, forse hai un senso critico troppo duro nei tuoi confronti e finché non smetterai di giudicarti tu per prima, probabilmente avrai sempre la sensazione che lo facciano anche gli altri.
Come ultimo suggerimento ti consiglio di lavorare sulla tua autostima!
Il problema centrale dell’aver paura del giudizio degli altri è che tu probabilmente non credi in te stessa, se lo facessi, non ti importerebbe così tanto di quello che pensa la gente. Per questo sarebbe opportuno che tu lavorassi su come aumentare la fiducia in te stessa.
Magari leggendo dei libri o facendo degli esercizi mirati per aumentare l’autostima.
Quando una persona ha così paura di essere giudicata, spesso alla base ci sono insicurezze che si porta dietro dal suo passato, quindi se così fosse potrebbe esserti utile rivolgerti ad un terapeuta che ti consentirà di accrescere la tua fiducia e la tua forza interiore sconfiggendo la tua paura e ottenendo così dei buoni risultati già dopo una solo incontro.
Non aspettare quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito www.onesession.it, il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
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I primi 3 passi per uscire da una relazione tossica
Ti senti spesso triste e in ansia?
Ormai senza quasi accorgertene dai sempre precedenza alle esigenze e i bisogni del tuo partner trascurando i tuoi?
Per evitare discussioni con lui scendi di continuo a compromessi senza imporre mai le tue volontà?
Se non ti senti serena e libera di esprimerti in modo naturale, se ti senti insicura e sola, se ti accorgi di essere in una relazione in cui hai paura di essere te stessa, allora credo proprio che non sia una relazione propriamente sana.
In una relazione accade spesso che ci siano incomprensioni, momenti o comunque dinamiche con il proprio partner che non ci rendono molto appagate e felici, ma questo è normale se gli episodi avvengono sporadicamente o se capita in periodi particolari, magari periodi in cui ci sono dei cambiamenti. D’altronde si sa, non esiste una relazione totalmente perfetta.
Certo! Il discorso è diverso se la tua tristezza, il tuo sentirti insicura, infelice, la tua frustrazione rispetto quelli che sono i tuoi desideri e bisogni sempre trascurati e tutti gli stati d’animo negativi che ne derivano, rappresentano la quotidianità o quasi. In tal caso parliamo di veri e propri campanelli d’allarme di una relazione tossica che sarebbe meglio cercassi di risolvere. Ma se hai già provato a farlo senza alcun risultato, allora sarebbe meglio chiuderla prima che peggiori.
Meglio che eviti di ritrovarti in situazioni pericolose da cui uscire diventa sempre più difficile e doloroso, non credi? Rifletti sui motivi che ti spingono a continuare questa storia d’amore che non ti rende più felice.
Forse la paura della solitudine o la voglia di condivisione ti spingono ad accettare questa relazione anche se ti rende la vita impossibile e infelice.
Tranquilla, non sentirti sbagliata, può succedere che il bisogno di ricevere amore e attenzioni possa averti fatto scambiare una relazione difficile e malata come l’unica via per essere felice. Ma credimi, puoi essere felice anche senza avere una relazione!
L’amore deve portare serenità e benessere non dolore e sofferenza!
Non devi aver paura di rimanere sola. Impara a volerti bene e darti il valore che meriti, solo in questo modo riuscirai ad essere felice e a vivere una storia d’amore serena. Nel momento in cui imparerai a dedicarti con amore a te stessa, vedrai che attirerai le relazioni e gli uomini che meriti. Se ci pensi, come potresti amare qualcuno se per prima non ami te stessa?
Ma vediamo, come puoi fare per uscire da questa relazione tossica, da questo rapporto malato che forse sarebbe opportuno interrompere il prima possibile? Eccoti di seguito i primi 3 passi da fare:
- Prima di tutto devi riuscire ad ammettere che la relazione che stai vivendo è una relazione disfunzionale che ti rende insicura e infelice. Per questo sarebbe opportuno seguire una psicoterapia che ti permetta anche di comprendere le possibili motivazioni che ti hanno portato a continuare a vivere una relazione divenuta tossica.
- Osserva attentamente la situazione e comincia a riflettere su come poterla risolvere, sul “piano d’azione” da mettere in atto, ai passaggi necessari che dovrai affrontare per chiuderla. Considera quindi tutte le possibili difficoltà che ti si potranno presentare una volta che avrai deciso di chiudere definitivamente la relazione, e come affrontarle. Soprattutto se nella vostra relazione è presente violenza fisica. Devi cercare di prevedere ogni cosa non solo per la tua sicurezza, ma anche per quella dei tuoi eventuali figli.
- Passa all’azione mettendo in pratica tutto quello che hai pianificato precedentemente. Nelle relazioni sentimentali sane è opportuno comunicare di persona la decisione di chiudere la relazione, mentre in quelle tossiche, a volte è preferibile andarsene quando il partner è assente per evitare violenza e scenate pericolose o comunque utilizzare altre vie come il telefono, l’email o altro ancora.
Senti di farcela? Lo so, immagino non sia facile, ma posso garantirti che puoi uscire da questa difficile situazione. Se ti senti troppo fragile e senti di non potercela fare da sola, affidati a un terapeuta che sostenendoti ti indicherà la strada da seguire per uscire da questa relazione tossica.
Pensa, è stato dimostrato che, già dopo una Singola Seduta puoi ottenere dei risultati inaspettati. Cosa aspetti quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito onesession.it, il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
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Mobbing: violenza psicologica a lavoro
Non ce la fai proprio più, sei stanco fisicamente e psicologicamente, vorresti quasi ti venisse la febbre piuttosto che andare a lavoro, eppure, una volta ti piaceva!
Ora, ogni mattina non appena suona la sveglia, con la luce del giorno ecco che arriva anche l’ansia e il mal di stomaco. Andare a lavoro ormai è diventato troppo pesante. In azienda, il tuo capoufficio non si regola proprio, si rivolge a te sempre attraverso critiche, calunnie e con un comportamento aggressivo e vessatorio.
Sembra faccia di tutto per emarginarti, sembra proprio c’è l’abbia con te!
Ti ha spostato da un ufficio all’altro quasi senza avvertirti, ti ha affidato compiti dequalificanti e ti mette sistematicamente in ridicolo di fronte a clienti, colleghi e superiori. Sopporti da tanto e ancora ti chiedi quale sia lo scopo di tali comportamenti e perché si comporta in questo modo con te. Hai sentito parlare tanto di Mobbing e ti stai chiedendo se ne sei o no una vittima?
Allora vediamo un attimo, se per esempio, il tuo capoufficio arriva in ritardo a lavoro, nervoso e arrabbiato perché gli hanno tamponato l’auto nuova mentre veniva in ufficio, e quando arriva tutto trafelato, tu gli riferisci subito un problema lavorativo o che deve fare una telefonata a un cliente indigesto, allora in questo caso è praticamente sicuro che verrai trattato male e ti farà sentire umiliato e ferito.
E’ vero! Dovrebbe controllarsi perché non è colpa tua se lo hanno tamponato, però diciamo che comunque, questo suo modo di fare aggressivo e sicuramente poco piacevole da subire, fondamentalmente è legato a un fattore situazionale, che in questo caso è l’auto tamponata, ma potrebbe essere per esempio: una giornata storta, problemi privati, un forte mal di testa, o altro, e quindi i modi fastidiosi che ne derivano sono molto sporadici e non possiamo parlare di Mobbing.
Se invece, il comportamento da prepotente del tuo capoufficio è una vera e propria abitudine, le critiche, le umiliazioni e l’aggressività nei tuoi confronti sono ormai quotidiani e durano già da parecchio tempo, allora possiamo parlare di Mobbing.
Il Mobbing infatti si manifesta con una serie di azioni aggressive, che vengono messe in atto dal “mobber” in modo sistematico e si ripetono per un lungo periodo di tempo, con lo scopo ben preciso di danneggiare una determinata vittima o il “mobbizzato”.
Il mobbizzato viene assalito e aggredito intenzionalmente da questi mobber che fanno di tutto per distruggerlo a livello sociale, professionale e ovviamente psicologico, portandolo all’isolamento e all’emarginazione.
Qual’è il loro scopo? Può essere vario, ma sicuramente sempre distruttivo. Un mobber potrebbe volerti eliminare perché sei divenuto in qualche modo “scomodo” e con il suo comportamento non cerca che indurti a dare le dimissioni o di provocare un tuo licenziamento.
Se ti sei riconosciuto nel mobbizzato, non vergognarti a chiedere aiuto. Lo sai che nei casi più gravi il tuo capoufficio potrebbe addirittura arrivare a sabotarti il lavoro e ad azioni illegali? Quindi cosa aspetti a fare qualcosa?
E’ importante tu richieda un supporto di tipo sociale e di tipo legale e che ti rivolga a un terapeuta che possa aiutarti a riprenderti a livello psicologico lavorando su tutti quegli aspetti negativi generati in te dal mobbing, come: la vergogna, la disistima, il fatto di sentirti umiliato, di esserti ritirato nella solitudine ma anche per poter gestire tutta la rabbia provocata dai comportamenti subiti dal tuo capoufficio.
Se non vuoi che la tua condizione peggiori, cosa ne dici di chiedere subito aiuto a un terapeuta? Ti sembrerà strano, ma ricerche hanno dimostrato che spesso, anche con una singola seduta di terapia, imparando a recuperare e utilizzare le tue risorse potrai lavorare su tutti questi aspetti che ti ho appena riportato e vedrai che il tuo capoufficio non riuscirà più ad avere la meglio su di te!
Contatta uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito www.onesession.it, il terapeuta che ti è più vicino e soprattutto più adatto alle tue esigenze.
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Fobia sociale: sto bene anche da solo ma ho bisogno di te
Sarà capitato anche a te di fare un discorso in pubblico, di affrontare un colloquio di lavoro o di vivere qualsiasi altra situazione sociale. Spesso magari con la paura di “fare brutta figura”. E se l’ansia, di fronte a situazioni di questo tipo, diventasse intensa e invalidante? In questo caso, parleremo di fobia sociale, detta anche ansia sociale.
La paura del giudizio: che penseranno di me?
La fobia sociale fa parte dei disturbi d’ansia e comporta il provare un’immotivata ansia generalizzata, nonché una paura intensa e pervasiva, di fronte a svariati contesti sociali, per paura del giudizio altrui o di mettere in atto comportamenti imbarazzanti (come tossire, starnutire, perdere il controllo…).
Le occasioni in cui si presenta possono essere varie, come il parlare in pubblico, o semplicemente il fare la spesa al supermercato. Sono tutte situazioni in cui, in un modo o nell’altro, il soggetto si sente al centro dell’attenzione. Non credere però che si tratti di una patologia che ha un’unica modalità di espressione: tutt’altro!
Come in ogni altro disturbo psicologico, anche qui alcuni ne soffrono in maniera più lieve, altri in forma più grave. Alcune persone mostrano la propria ansia attraverso semplici manifestazioni fisiche, come sudorazione, palpitazioni, tremori o addirittura veri e propri attacchi di panico. Altri ancora, invece, vivono pure una sorta di angoscia e inquietudine perenne, che preclude loro di fare qualsiasi cosa presupponga un contatto con gli altri.
Bagnarsi ancor prima che piova: l’evitamento
L’elemento fondamentale che dunque caratterizza la fobia sociale è che la persona viene sopraffatta da un’ansia eccessiva di fronte a un determinato evento sociale. L’esporsi in pubblico, però, genera un disagio persistente che non si presenterà soltanto durante l’esperienza, ma anche molto tempo prima rispetto alla data in cui tale esposizione avverrà: si chiama ansia anticipatoria.
Tale ansia influenzerà negativamente qualsiasi tipo di comportamento il soggetto deciderà di compiere in futuro, specialmente riguardo quello specifico evento. In un certo senso, chi soffre di fobia sociale si bagnerà ancor prima che inizi a piovere!
Supponi, per esempio, di dover affrontare un colloquio di lavoro con l’equipe di un’azienda. Normalmente, prima di un colloquio di lavoro, può subentrare in chiunque un po’ d’ansia. Nel caso della fobia sociale, però, quest’ansia incomincerà già parecchi giorni prima. Il solo pensiero del colloquio, causerà una persistente paura del giudizio, intenso disagio, agitazione, il timore di mettere in atto comportamenti umilianti. E quale sarà la conseguenza di queste paure ansiose? Naturalmente, evitare di andare al colloquio, pur di non provare più quel fastidioso disagio interno.
Le conseguenze: “Sto bene anche da solo, ma ho bisogno di te”
Il disagio che prova chi soffre di fobia sociale è talmente elevato che condurrà quest’ultimo all’evitamento di qualsiasi situazione presupponga un contatto con gli altri. La fobia sociale predilige la solitudine, piuttosto che la relazione. Il soggetto metterà in atto una serie di atteggiamenti e stratagemmi in grado di consentirgli di evitare le relazioni, ma perseguire ugualmente le proprie attività quotidiane.
E’ una modalità di vivere l’esistenza altamente invalidante: qualsiasi persona è, infatti, immersa in un contesto sociale dal quale non può prescindere. Anche il semplice andare a fare la spesa o prendere un autobus, presuppone un contatto con qualcuno. Riusciresti a fare qualsiasi delle tue attività quotidiane, senza entrare in relazione con altri? Impossibile. Eppure è quello che illusoriamente vorrebbe chi soffre di fobia sociale: l’ansia sperimentata è talmente elevata che induce, talvolta, a non uscire nemmeno di casa, specie nelle forme più invalidanti.
Per questo motivo, chi soffre di ansia sociale, ha spesso poche amicizie, fa un lavoro in cui le relazioni col pubblico sono pari a zero e soffre anche di bassa autostima. L’evitamento delle situazioni sociali, tuttavia, non farà altro che aumentare la fobia, anziché diminuirla. Ridurrà, ovvero, il livello di autostima, mantenendo al contempo alti i sentimenti di inferiorità e inadeguatezza. Non è raro, d’altronde, che, assieme alla fobia sociale, sono presenti anche altri disturbi, specie di tipo ansioso-depressivo.
La via breve per superare la fobia sociale
L’uomo è un essere sociale: se al contatto con gli altri prova intenso disagio, allora c’è qualcosa che non va. Non sto parlando di chi è introverso, perché il problema principale non è provare ansia durante alcune relazioni sociali (capita di continuo a tutti), ma di esperire un disagio che conduce a mettere in atto comportamenti di evitamento per la paura del giudizio altrui.
Dayhoff, per l’ansia sociale di lieve entità, suggerisce alcuni piccoli stratagemmi, come fare telefonate, prendere parte a eventi sociali (per aumentare le interazioni con gli altri), oppure anticipare l’imbarazzo alle persone con cui ci si relaziona (“Ti avverto, diventerò rosso: non farci caso”). Stratagemmi che servono per normalizzare l’ansia e non essere del tutto ingabbiati dentro comportamenti evitanti.
Se con questi piccoli metodi non riuscirai a risolvere la tua situazione, allora è probabile che la fobia di cui soffri è più radicata. Prendi coraggio, e prova a parlarne con uno psicoterapeuta. So che anche questo presuppone un contatto con un’altra persona, ma in quel caso sei nel posto giusto: lui non aspetta altro che cercare di capire insieme te, qual’è la soluzione più adatta al tuo caso.
La soluzione c’è, e si può ottenere anche in poche sedute, se non che in un’unica seduta. Si tratta di trovare la chiave per “sbloccare” ciò che è rimasto “bloccato”. E la strada per farlo è, manco a dirlo, riprendere, gradualmente, a stare con gli altri!
Bibliografia consigliata
Dayhoff, S.A. (2008). Come vincere l’ansia sociale, Erickson, Trento.
Nardone G. (2014), Paura, panico, fobie, Tea, Milano.
Scopri se sei una dipendente affettiva
Se hai questo pensiero ovviamente è perché avrai sentito parlare molto di questo argomento. Effettivamente è una condizione comune a molte donne ma anche a parecchi uomini, che spesso ne sono affetti inconsapevolmente, e proprio per questo, la loro vita relazionale continua a fare acqua da tutte le parti.
Quando senti parlare di dipendenza, solitamente, penserai a quella da alcool, droga o al massimo dal cibo. Il dipendente affettivo invece dipende da una relazione. Si, dipende! Ma attenzione, non si parla per forza di dipendenza dal proprio partner, ma per esempio anche di quella da un’amica o un genitore, anche se ovviamente hanno delle sfumature diverse.
Quando si trova in coppia, il dipendente affettivo dipende dall’altro sia per essere felice che per essere amato. L’altro diviene essenziale, il centro di tutta la propria vita. I propri bisogni passano in secondo piano, per assecondare sempre i bisogni dell’altro, fare sempre ciò che vuole l’altro, poiché in questo modo si pensa che il partner non lo lascerà mai, che non può abbandonarlo.
Ma purtroppo, ciò che il dipendente affettivo non riesce a comprendere è proprio questo. Tale atteggiamento invece di far rimanere il partner, fa materializzare proprio la paura del dipendente affettivo, e cioè quella di essere abbandonato, di essere lasciato solo. Infatti il partner con il tempo, tenderà a stufarsi di questa situazione di estrema accondiscendenza e sudditanza e andrà alla ricerca di una persona più stimolante, di una persona che sappia esprimere la sua opinione, con le proprie idee, un suo modo di pensare e vedere le cose e che abbia anche altri interessi oltre la relazione stessa.
Pensi di essere anche tu una dipendente affettiva ma non sei sicura?
Prova a scoprirlo vedendo se ti rispecchi in qualcuna delle caratteristiche che ti elenco qui di seguito. Ho iniziato riportando prima quelle più comuni, poi quelle per fortuna meno frequenti essendo più gravi:
- Hai sempre un bisogno impellente di stare con il tuo partner;
- Non ti ritieni alla sua altezza;
- Non riesci a spiegarti perché sta con te;
- Provi una gelosia molto forte nei suoi confronti;
- Hai bisogno del tuo partner per fare qualsiasi cosa;
- Hai difficoltà a stare sola;
- Metti al secondo posto le tue esigenze e bisogni per soddisfare i suoi;
- Hai paura che il tuo partner ti abbandoni, ti lasci sola;
- Sei disposta a subire tradimenti e bugie pur di rimanere con lui;
- Neghi l’evidenza di un rapporto non sano pur di non affrontare i problemi;
- Sei disposta a subire maltrattamenti fisici e psicologici pur di non perderlo.
Vediamo un pò se sono riuscita a darti una mano? Se ti ho un pò aiutato a farti rendere conto della situazione che stai vivendo? Solitamente, chi è affetto da dipendenza affettiva è difficile che se ne accorga, dato che non vede la dipendenza come un problema, ma al contrario queste persone vivono l’amore ed il rapporto con il loro partner come la soluzione ad ogni problema.
Questo, infatti, spesso è il motivo principale per cui chi vive una situazione del genere arriva in terapia solo dopo anni di sofferenza e sacrifici, e nonricerca un terapeuta per questa difficoltà, ma per altri tipi di problemi come: ansia, problemi psicosomatici, attacchi di panico, disturbi del sonno o dell’umore, ecc.
Questi disturbi potrebbero infatti cominciare a presentarsi quando il tuo corpo manifesta la sofferenza attraverso i sintomi, il tuo corpo potrebbe ribellarsi a ciò che tu non vuoi vedere e continui ad accettare passivamente.
Non è facile, ma posso garantirti che puoi uscire da questa situazione affidandoti ad uno psicoterapeuta che ti aiuterà a spezzare questo circolo vizioso, questo bisogno di dipendere in tutto e per tutto dall’altro, insegnandoti a volerti bene e a recuperare la tua autostima e la tua forza.
Pensa, si è osservato che in alcuni casi, già dopo una Singola Seduta puoi ottenere dei risultati inaspettati. Cosa aspetti quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito onesession.it , il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
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Crisi adolescenziale: diventare adulti (o quasi)
Supponi di avere tra le mani un elastico e di tenderlo con l’una e l’altra mano sia verso destra che verso sinistra. L’elastico si dilaterà in relazione alla forza con cui lo tirerai da entrambe le parti, ma se continuerai a farlo all’infinito e a non rispettare il suo punto di equilibrio, dopo un po’ si deformerà.
E’ quello che capita agli adolescenti: essi vengono attratti da una parte dall’infanzia, che devono necessariamente abbandonare, e dall’altra dalla nuova vita adulta, cui si dovranno conformare. Lasciare l’infanzia per andare incontro all’adultità non è però semplice: vorrebbe dire abbandonare il proprio nucleo familiare, le sicurezze fino ad allora costruite e dirigersi verso una nuova forma di identità (Erickson, 1959), percorso che alcuni definiscono col termine di “individuazione” (Mahler et al., 1975; Mahler, 1968). Con “crisi adolescenziale” si intende proprio questo processo, ovvero un intenso periodo di passaggio, di cambiamento e di ricerca di stabilità interna ed esterna (Erickson, 1959; Ammaniti, 2002).
L’adolescenza
Tutta l’adolescenza, d’altronde, è il lasso di tempo durante il quale un ragazzo sperimenta, conosce e cerca di comprendere nuove situazioni sociali, psicologiche e fisiche. In altre parole, è il periodo in cui tutti i nodi del passato vengono al pettine, e si cerca di risolverli prima di entrare a far parte della vita adulta. La crisi si presenta, quindi, come la logica e necessaria conseguenza del tentativo di crescere e diventare autonomi (Ammaniti, 2002).
Pertanto, se sei un adolescente (o un genitore), non devi preoccuparti più di tanto se talvolta piangi, ti senti solo, triste, litighi con tua madre o tuo padre, poiché sono tutti elementi che fanno parte del normale processo di sviluppo che qualunque persona prima o poi deve affrontare. Per usare le parole di Winnicott: “L’adolescente è immaturo, ma l’immaturità è un elemento essenziale della sanità nell’adolescente” (1971).
Tipici comportamenti adolescenziali sono il rifugiarsi nel gruppo di amici, esplorare nuove emozioni con l’altro sesso o addirittura scontrarsi con i genitori, i quali spesso vorrebbero non vederti crescere, ma rimanere bambino (e allora tu, adolescente, faresti bene a seccarti con loro: il tuo obiettivo è quello di diventare un adulto, e non di rimanere un bambino! Altro che crisi: è un dovere farlo!). Sono tutte cose che fanno parte di questo particolare e complesso periodo di “crisi” dell’esistenza che, te lo ripeto, è auspicabile che si presenti in tutti i ragazzi.
E’ il caso di preoccuparsi?
Non sempre ma possiamo osservare alcune cose come, ad esempio, quando i tratti e i comportamenti diventano piuttosto marcati ed eccessivi: la tristezza, così, può sfociare nella depressione, oppure una delusione d’amore può far nascere desideri autolesionistici (Ammaniti, 2002). Una crisi “normale”, infatti, verrà superata più o meno naturalmente col passare del tempo, cosa che permetterà al ragazzo di diventare un adulto in maniera adattiva.
In una crisi complicata, invece, l’elastico non solo si deformerà, ma rischierà pure di rompersi: l’adolescente sarà incapace sia di abbandonare la propria infanzia che di accettare la vita adulta, rimanendo così in un limbo tra i due poli o rinchiuso all’interno di uno di essi. E’ il caso, ad esempio, di tutti quei ragazzi che commettono furti, fanno uso di sostanze, mettono in atto comportamenti violenti o, al contrario, si ritirano in sé stessi, diventano asociali oppure eccessivamente timidi (Jeammet, 1992; Ammaniti, 2002). E’ evidente che qualcosa, in queste circostanze, è andato storto: l’adolescente andrebbe aiutato a riprendere la giusta via di crescita,interrotta da un qualche fattore interno o esterno (un lutto? la perdita di una persona cara? un trauma?).
Come? Bè, non c’è una sola strada da percorrere.
L’adolescenza ha un’enormità di sfaccettature psicosociali che, oltre al ragazzo, includono la famiglia e la scuola. Se rimaniamo però nell’alveo psicoterapeutico, l’obiettivo è di condurre l’adolescente a una più matura identità di sé (Erickson, 1959; Senise, 2014). Si parla in certi casi di “terapia breve d’individuazione”, durante la quale l’adolescente viene portato, in poche sedute, a investire sulle proprie emozioni, sui propri affetti, nonché a sollevare dubbi e mettere in atto un pensiero e un esame di realtà più funzionale (Senise, 2014).
Lo stesso intervento si potrebbe fare nei confronti dei genitori (psicoterapia sistemica). In definitiva, si tratta di sperimentare fino a quando “quell’elastico”può essere teso, con quali modi e quale forza, fino al raggiungimento di un punto d’equilibrio ideale. Il chè corrisponderebbe con la tanto agognata entrata a far parte della vita adulta.
Bibliografia
Ammaniti, M. (2002). Manuale di psicopatologia dell’adolescenza, Raffaello Cortina, Milano.
Erickson, E.H. (1959). Identity and the life cycle, Psychological Issues, International Universities Press, New York.
Mahler, M.S., Pine, F., Bergman, A. (1975). La nascita psicologica del bambino, Boringhieri, Torino.
Jeammet, P. (1992). Psicopatologia dell’adolescenza, Borla, Roma.
Senise, T. (2014). Psicoterapia breve d’individuazione, Mimesis, Milano.
Winnicott, D.W. (1971). Gioco e realtà, Armando, Roma.