Il workaholism: la dipendenza da lavoro
Dipendenza da lavoro: il lavoro può diventare una malattia
Quando si parla di stress e in particolare di stress correlato al lavoro è necessario riferimento ad alcune caratteristiche individuali centrali nella genesi del processo di stress. I fattori di rischio psicosociale svolgono un ruolo principale e predominante nel favorire lo sviluppo di patologie stress lavoro-correlate. Tuttavia, la letteratura sta evidenziando sempre di più come anche alcune caratteristiche individuali giochino un ruolo non trascurabile.
Questi fattori individuali sono considerati centrali in quanto in grado di modificare la relazione tra gli stressors (le fonti di stress a cui siamo esposti) e le reazioni negative allo stress (definite in letteratura strain, cfr. Quillian-Wolever e Wolever, 2003).
Caratteristiche individuali e risposta allo stress
Tra i fattori di vulnerabilità di cui si trova maggior riscontro in letteratura, il primo ad essere stato studiato e descritto è il Comportamento di tipo A. Questo è stato attenzionato per la prima volta verso la fine degli anni 50 per opera di due cardiologi che avevano iniziato a condurre una serie di osservazioni su dei pazienti coronarici (Friedman & Rosenmann, 1974).
I due medici definirono il Comportamento di tipo A come un insieme di comportamenti e stati affettivi osservabili in tutte quelle persone impegnate incessantemente e senza sosta. Queste sono persone accomunate da caratteristiche come l’ambizione, la competitività, la spinta al successo, l’impazienza, l’aggressività, l’ostilità e il senso di urgenza del tempo.
Un altro fattore di vulnerabilità individuale che ha dei punti in comune con il Comportamento di tipo A è il Workaholism. Esso può essere definito come una sorta di “spinta interna irresistibile e irrefrenabile a lavorare in maniera eccessivamente intensa” (Schaufeli, Taris & Bakker, 2008).
L’interesse per questa caratteristica individuale è cresciuto sempre di più negli ultimi 20 anni circa, tanto nell’ambito clinico che in quello occupazionale.
Workaholism: conosciamolo meglio
Da un punto di vista clinico il Workaholism può essere considerato come una vera e propria dipendenza patologica, pur non essendo formalmente contemplata come tale nei principali manuali diagnostici e statistici dei disturbi mentali. L’interesse per questa caratteristica individuale è stato guidato soprattutto dall’obiettivo di mettere a punto degli strumenti di screening e intercettazione del fenomeno.
Un primo trattodistintivo delle persone dipendenti dal lavoro è che generalmente rimangono impegnate nelle attività lavorative molto più di quanto formalmente richiesto o necessario. Alcuni studi hanno evidenziato che in alcuni casi l’attività lavorativa può protrarsi anche per più di 60 ore settimanali (Brett e Stroh, 2003).
La diretta conseguenza di questo iper-coinvolgimento nell’attività lavorativa porta queste persone a trascurare massicciamente le altre sfere della loro vita.
Tuttavia, il lavoro eccessivo non è l’unica caratteristica che definisce il Workaholism. Ci sono persone, infatti, che possono lavorare molto pur non essendo dipendenti dal lavoro. Ad esempio, per momentanei problemi finanziari oppure per la possibilità di sviluppo della propria carriera.
Nel caso di dipendenza dal lavoro vi è una vera e propria ossessione irresistibile e irrefrenabile nei confronti del lavoro. Essa impedisce alla persona di riuscire a staccare e a fermarsi.
Altri studi hanno portato alla luce come le persone dipendenti dal lavoro tendano ad essere disordinate, estremamente rigide e con evidenti difficoltà a delegare i compiti. Questo spesso le porta a rendere le cose più complicate del necessario e ad avere anche frequenti difficoltà relazionali con i propri colleghi (Van Wijhe, Peeters & Schaufeli, 2010).
I rischi del workaholism
Il Workaholism, dunque, si configura come un vero e proprio fattore di rischio per la salute individuale. Esso predispone lo sviluppo di stress lavoro-correlato, burnout, problematiche psicosomatiche e disturbi d’ansia.
Altrettanto evidenti risultano essere le difficoltà nella vita familiare, personale e relazionale delle persone dipendenti dal lavoro. In casi estremi, possono avere una vita sociale estremamente ritirata se non optare per un vero e proprio isolamento.
La ricerca scientifica sul Workaholism è comunque ancora aperta e sarà necessario che i prossimi studi indaghino ancora più nel dettaglio le correlazioni tra la dipendenza dal lavoro e tutte le problematiche connesse allo stress.
Se senti di non essere in grado di trovare un equilibrio tra lavoro e vita privata, chiedi aiuto a One Session: puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
Fraccaroli, F., Balducci, C. (2011). Stress e rischi psicosociali nelle organizzazioni, Il Mulino: Bologna.
Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile
Concedersi una pausa
Hai mai ragionato sull’importanza di concedersi una pausa, o tendi a farti trascinare solo dal flusso dei doveri? In questo articolo analizzeremo perché è fondamentale concedersi una pausa, e una strategia utile per riuscire a farlo!
Organizzando la giornata in blocchi di pensiero focalizzato, intervallati con pause di «spegnimento» del cervello, si permette alla mente di operare in modo più efficiente.
(Jenny Brockis)
Cultura del non stop vs salute mentale
E’ mattina, suona la sveglia, apri gli occhi e già pensi a tutto quello che dovrai fare durante la giornata. Andare a lavoro, sbrigare faccende di ordine quotidiano, appuntamenti, spese, gestione della casa, della famiglia. E’ mattina, suona la sveglia, apri gli occhi e sei già stanco/a.
La società moderna ci ha abituato a correre, a destra ed a sinistra, avanti e indietro. Un criceto che non si arresta mai sulla sua ruota. La cultura del “non-stop”: il tempo è denaro e chi non fa attivamente qualcosa sta “sprecando” il denaro o non lo sta generando bene.
Il lavoro, a volte, può essere impegnativo e se vi affannate ora dopo ora, è probabile che questa fatica vi costi più della produttività; così ciò prima sembrava produttivo, a lungo andare potrebbe rivelarsi distruttivo.
Quando si spendono tantissime energie sul lavoro e sugli impegni quotidiani, si può essere assaliti dalla sensazione di avere troppe cose da fare, ed è facile convincersi di non avere il tempo di potersi concedere delle pause.
In realtà, bisognerebbe trovare il tempo per tutto. Del resto, anche la vita insegna che esistono tempi per seminare e altri per raccogliere. Così è necessario sapersi concedere una pausa, fermarsi, riflettere, ritagliarsi del tempo anche per se stessi.
Trovare momenti lontani dallo stress è fondamentale per la salute del nostro cervello “Mens sana in corpore sano”. Negando al cervello delle pause diminuiamo la capacità di pensare in modo creativo e strategico nella gestione di problemi complessi. La nostra mente pensa più chiaramente quando si ferma per qualche istante, quando si concede di lasciare scendere quel criceto dalla sua ruota.
I benefici del concedersi una pausa
Diversi studi scientifici hanno dimostrato che un cervello, se costantemente stimolato e se non riesce a rilassarsi, finirà per sovraccaricarsi, iniziando a commettere degli errori. La produttività nello svolgere un determinato compito, è direttamente correlata al livello di concentrazione che riusciamo a mantenere mentre lo svolgiamo.
Per dare il meglio di sé, è necessario avere del tempo libero, e non solo per le vacanze. Chi riesce a concedersi un momento di riflessione o di meditazione, e lo fa quotidianamente, è più rilassato e più produttivo nel corso della giornata.
In uno studio (Bennett, et al. 2020) è stata valutata l’utilità di prendersi o meno delle pause durante le attività utilizzando un disegno sperimentale in un ambiente di lavoro simulato. I loro risultati hanno mostrato come tutte le condizioni di pausa hanno giovato non solo a ricaricare l’energia, ma anche a migliorare l’ attenzione, aiutando le persone a riprendersi completamente.
Concedersi delle pause ha un effetto benefico sul nostro stato d’animo, sul benessere generale e sulla capacità di rendimento “Mens sana in corpore sano”. Staccarsi regolarmente dalle attività lavorative, sia durante la giornata lavorativa che nelle ore libere, può aiutare a recuperare le energie a breve termine, e a prevenire il burnout a lungo termine. Concentrare l’attenzione per troppo tempo, saltare i pasti, pranzare mentre si lavora, può a lungo termine logorare.
Una strategia per gestire al meglio le pause: la tecnica del pomodoro!
Può essere che tu ne abbia già sentito parlare della tecnica del pomodoro, ma vediamo insieme come funziona e quali sono i passaggi per far si che questa funzioni e aiuti a gestire al meglio il tempo da dedicare al lavoro… e soprattutto alle pause!
Ti servirà solo un timer e un block notes!
Il timer avrà il compito di suddividere il tempo tra lavoro e pausa, il block notes servirà per riportare le attività della giornata in ordine di priorità.
5 semplici passaggi:
- Seleziona l’attività da svolgere secondo le priorità decise (stima il tempo di durata massimo trascrivendolo sul taccuino)
- Imposta il tuo timer a 25 minuti (evitando sia quello del telefono).
- Comincia a lavorare sull’attività scelta.
- Quando suona il timer inserisci una spunta sul block notes e concediti la pausa di circa 5 minuti.
- Dopo quattro blocchi da 25 minuti ciascuno si potrà effettuare una pausa più lunga (tra i 15 e i 20 minuti prima di ritornare al punto 1).
Regola fondamentale della pausa è evitare qualunque attività che richieda un qualsiasi sforzo mentale. Evitare anche di utilizzare la pausa per connettersi al cellulare. Piuttosto è consigliabile ascoltare musica, fare due passi, cambiare ambiente, fare stretching.
Hai solo l’imbarazzo della scelta sulle attività da poter fare, concedi alla tua mente di prendersi una pausa!
Se pensi di aver bisogno di un aiuto professionale, puoi rivolgerti a un professionista del One Session Center.
Ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 minuti.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare le nostre pagine Facebook e Instagram
Riferimenti bibliografici
Bennett, A. A., Gabriel, A. S., & Calderwood, C. (2020). Examining the interplay of micro-break durations and activities for employee recovery: A mixed-methods investigation. Journal of Occupational Health Psychology.
Fritz, C., et al. (2013). Embracing Work Breaks: Recovering From Work Stress. Organizational Dynamics.
Cirillo, F. (2019). La tecnica del pomodoro: Il celebre metodo per gestire al meglio il proprio tempo e diventare più efficienti e organizzati. Tre60.
Gestire la rabbia con la Terapia a Seduta Singola
Quali difficoltà possono insorgere se non si riesce a gestire la rabbia? In che modo la Terapia a Seduta Singola può venirci in aiuto? Lo scopriamo in questo articolo.
Definizione di rabbia e sue principali caratteristiche
La rabbia fa parte delle emozioni di base primarie (reazione affettive innate) ed è un’emozione universale e primordiale. A provare rabbia sono tutti gli esseri umani senza distinzione di età, di area geografica, di sesso.
Nella classificazione di Friesen ed Ekman la rabbia fa parte dell’elenco delle emozioni primarie: paura, rabbia, gioia, tristezza, disgusto e sorpresa.
Lo stesso nella classificazione di Plutchik dove le emozioni primarie sono: paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto, sorpresa, attesa, approvazione.
La rabbia ha come funzione adattiva quella di difendersi, di sopravvivere nell’ambiente. Essa aiuta l’individuo a mettere dei confini, ad affermarsi, è inoltre spinta all’attacco.
La rabbia come tutte le altre emozioni citate sopra non ha una connotazione negativa, è foriera anche essa di un messaggio che deve essere ascoltato e vissuto nella piena consapevolezza.
Nella vita di tutti i giorni rispondiamo con rabbia per esempio, di fronte ad un torto subito.
In alcuni casi la rabbia può essere espressa poi con dei comportamenti o delle espressioni verbali (urla, discussioni) in altri casi viene invece repressa o evitata.
Ad ogni modo qualunque sia la reazione, porta l’individuo ad uno stato tensivo molto forte.
L’andamento della rabbia si può presentare con dei picchi che tendono verso l’eccesso e a volte con intensità minore. Se l’andamento è verso l’eccesso la rabbia prenderà comunemente il nome di collera ed ira.
Se invece si dirigerà verso una intensità minore si chiamerà irritazione.
La rabbia, è un processo multi componenziale, in cui possiamo individuare almeno quattro componenti imprescindibili.
Esse sono la componente fisiologica, ossia la attivazione dell’organismo, la componente cognitiva, la componente espressiva e la componente comportamentale.
Nella esperienza individuale dello stato di rabbia rintracciamo tutti questi aspetti visibili nella persona: si accelera il battito, aumenta il flusso sanguigno, aumenta la tensione muscolare, aumenta la sensazione di calore e di sudorazione.
A livello espressivo cambia la mimica e la espressione facciale con cambiamenti generici del volto ravvisabili negli occhi, nelle labbra e nelle sopracciglia che cambiano forma, si modifica anche la postura.
Provare rabbia è un’esperienza che riguarda gli altri, ma potrebbe riguardare anche noi stessi, persone emotivamente lontane da noi, o persone a cui si è più legati sentimentalmente come per esempio a propria famiglia e i propri partner.
Dalla rabbia adattiva alla rabbia disadattiva
In linea generale, la rabbia comunica una funzione autodifensiva.
Si può parlare di una rabbia disadattiva, disfunzionale o patologica, quando crea una sofferenza individuale. E’ disattativa anche quando compromette le relazioni sociali o porta a compiere delle azioni dannose verso persone, cose o se stessi.
Nella maggior parte delle situazioni la rabbia è un campanello d’allarme utile per la nostra sopravvivenza. Altre volte può invece portare la persona a un vero e proprio stato di malessere.
In questo caso la rabbia se cronicizzata e non occasionale può portare a un peggioramento delle condizioni di vita della persona.
Questo peggioramento può poi dare sfogo anche a una serie di sintomatologie fisiche e psichiche in cui viene meno la armonia, l’equilibrio e il benessere in generale ed aumenta la inefficacia relazionale e la difficoltà di rapporti nella vita quotidiana.
Le reazioni disadattive alla rabbia sono di diversa tipologia e sono orientate all’evitamento o a un controllo eccessivo, per cui le persone reagiscono tenendo dentro la rabbia o invece esternalizzandola troppo, spesso esternalizzandola in modo inappropriato, mettendo in atto comportamenti o situazioni sconvenienti.
Si deduce che in un caso o nell’altro, sia trattenendo che tirando fuori, le due modalità, portano solo svantaggi. Se la rabbia inoltre permane a lungo non sarà lo stesso un buon segnale per l’individuo.
Cosa fare per la gestione della rabbia
Non saper gestire la rabbia nella maggior parte dei casi significa rischiare di recare danno agli altri e fare male a se stessi, intaccare i rapporti con chi ci circonda, e danneggiarci anche profondamente. Le ricadute della incapacità di gestione che possono verificarsi sono non solo psicologiche, ma anche fisiche. Alcuni studi hanno dimostrato che una situazione di rabbia costante porta a problemi di diversa natura organica come: la digestione, le funzioni epatiche, la muscolatura, i disturbi del sonno, e le emicranie che sono solo un piccolo esempio.
Quando si arriva a uno stato di malessere cronico diventa sicuramente importante rivolgersi a un terapeuta, che possa lavorare al fine di ripristinare un equilibrio nell’individuo.
Le psicoterapie brevi possono lavorare in pochi incontri ed in modo efficace, laddove sono stati fatti tentativi meditativi, pratiche yoga e si sia provato già ad intervenire cercando di allentare abitudini e comportamenti nocivi errati, tutte modalità che non sempre riescono a intervenire in modo risolutivo.
Imparare a gestire la rabbia, migliora il corretto funzionamento organico e psicologico. Con il terapeuta si può lavorare sulla sua gestione, per ripristinare un modo di vivere in cui l’ autocontrollo non ci fa sentire sopraffatti. Vivere in un costante stato di ruminazione rabbiosa cioè ripercorrere gli eventi che hanno generato la rabbia e rimanere in un loop di pensieri per alcuni diventa uno status quo, ma esso è assolutamente negativo per la mente.
Altra situazione invalidante è quando non si può nascondere la rabbia e se essa, inizia a guidarci in ogni azione che compiamo. Quando essa diventa lo stato emotivo prevalente, può portare a senso di colpa e a vergogna, e in alcuni casi a uno stato di isolamento, fino a sfociare in stati di depressione vera e propria.
La terapia a seduta singola per la gestione della rabbia
La domanda che ci poniamo come terapeuti specializzati nella pratica della Terapia a Seduta Singola è come essere efficaci ed efficienti anche in un solo incontro per lavorare sulla rabbia.
Cosa spaventa più una persona nel concetto di provare rabbia? Potrebbe essere provarla a lungo o provarla in diversi contesti. Oppure potrebbe essere non saper tenere a freno la rabbia, o ancora non riuscire a esternarla. Infine potrebbe temere di rovinare i rapporti, le relazioni per un eccesso della stessa.
Come abbiamo potuto osservare la rabbia può essere affrontata e valutata sotto diversi punti di vista, con la TSS diventa l’obiettivo in una singola sessione. Il paziente potrebbe arrivare nello studio con l’idea di voler abbassare la rabbia, di volerla controllare o diminuirla. Come potremmo lavorare?
Lavoreremo indagando le eccezioni al problema e verificando le tentate soluzioni. Esse sono schemi mentali o comportamenti attuati che in realtà perpetuano e fanno sussistere e mantengono in vita il problema.
Il terapeuta potrà decidere di sperimentare con il paziente già in seduta una nuova soluzione oppure dare un compito che poi la persona sperimenterà.
Un esempio sono le lettere della rabbia. Esse sono un potentissimo strumento per scaricare la rabbia.
La fanno fluire fuori con lo scopo di poter vivere poi con una qualità di vita migliore.
Le lettere consistono nello scrivere su un foglio, sino ad esaurimento dell’argomento. Vanno rivolte a chi o a cosa ha generato rabbia senza rileggere e senza controllare la correttezza della scrittura. Le lettere saranno mantenute dal paziente in un posto segreto o potranno essere distrutte in modo simbolico.
Un’altra modalità che si può sperimentare è quella di far elencare al paziente i segnali indici dell’arrivo della rabbia. Il riconoscerli, visualizzarli in forma scritta, prenderne consapevolezza ci dirige già verso una possibile individuazione di condotte più funzionali.
Se il problema è invece legato alla espressione verbale, può essere risolutiva una costruzione di un dialogo diverso ed efficace in cui la comunicazione può funzionare, senza scadere nella rabbia.
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Riferimenti bibliografici
Anolli, L., (2002). Psicologia della comunicazione. Edizione Il Mulino
Cannistrà, F., Piccirilli, F., (2021). Terapia breve centrata sulla soluzione. Principi e Pratiche
Di Donato, F., (2021). Counseling Psicologico- Il quaderno degli attrezzi per Psicologi e Dott. in tecniche psicologiche
D’Urso, V., Trentin, R. (2001). Introduzione alla psicologia delle emozioni. Laterza editore.
Ekman, P. & Oster, H. (1979) Facial Expression of emotion. Animal review of psicology. 20, 527-554.
Nardone, G., Watzlawick, P. (2007). L’arte del cambiamento
Secci, E.M., (2016). Le Tattiche del Cambiamento– Manuale di Psicoterapia Strategica
Sono una Psicologa Laureata all’Universita’ La Sapienza di Roma, iscritta all’albo Psicologi dell’Umbria, Mediatrice familiare, iscritta alla scuola di Specializzazione Icnos, formata in Terapia a seduta singola e in Terapia breve centrata sulla soluzione, mi occupo di consulenze brevi e credo fortemente nel fatto che il cambiamento può avvenire anche in una unica seduta.
Come superare un trauma
Come superare un trauma? Quando possiamo definire un’esperienza come traumatica? Cosa ci mantiene incastrati in quel limbo tra ciò che era prima e ciò che è stato dopo il trauma?
Cos’è un trauma?
Se consultiamo un vocabolario, la parola trauma verrà definita come lesione improvvisa e violenta. A livello psichico ci si riferisce ad un turbamento determinato da un episodio dotato di una notevole carica emotiva.
Il trauma apre una profonda ferita a livello psichico, e fa da spartiacque a quello che per la persona che lo ha vissuto sarà il “prima” e il “dopo”.
Il trauma è causato da un evento con una grande carica emotiva, dicevamo. Si è soliti pensare che vi siano degli eventi oggettivamente traumatici, ed eventi invece che non possano causare alcun trauma.
Non è così. Un’esperienza viene definita traumatica in base agli effetti che produce nella persona.
Il disturbo post traumatico da stress
Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali DSM-5, il disturbo post traumatico da stress può insorgere in seguito ad eventi stressanti tali da comportare una gravità oggettiva estrema, con minaccia per la vita o l’integrità fisica propria o di altri (Cagnoni e Milanese, 2009).
Il disturbo post traumatico da stress può insorgere sia che questi eventi siano vissuti direttamente, sia che siano vissuti come testimoni, ma può anche bastare il semplice venire a conoscenza di eventi accaduti a terzi.
Le caratteristiche del disturbo post traumatico da stress includono i seguenti vissuti:
- Ricordi intrusivi dell’evento traumatico
- Ricorrenti incubi riguardanti l’evento traumatico o le emozioni ad esso collegate
- Episodi di flashback, in cui la persona sente o agisce come se l’evento traumatico si stesse ripresentando
- Intensa sofferenza psicologica in presenza di eventi o fattori che possono ricordare l’evento traumatico
- Reazioni fisiologiche intense a seguito di fattori scatenanti che possono ricordare l’evento traumatico
Vivere nel trauma
È chiaro come tutti i sintomi tipici del disturbo post traumatico da stress siano estremamente spiacevoli ed invalidanti.
Per questo i tentativi delle persone che si trovano in una condizione simile sono tutti volti ad evitare di dover avere a che fare con pensieri, situazioni e sensazioni che hanno a che fare col trauma vissuto.
Spesso però, sono proprio questi tentativi di liberarsi dal problema che lo mantengono vivo, o addirittura lo esacerbano.
Comportamenti che ti tengono incastrato nel trauma
- Cercare controllare i propri pensieri. La persona che ha vissuto l’esperienza traumatica cerca in tutti i modi di dimenticare il trauma vissuto cercando di non pensare. Ma “pensare di non pensare è pensare ancora di più”: cercando di scacciare pensieri e immagini legate al trauma, la persona si vincola ad un circolo vizioso paradossale, finendo per intensificare proprio ciò che si vuole estinguere.
- Evitare tutte le situazioni potenzialmente collegare all’evento traumatico. Si comincerà ad evitare il luogo in cui è avvenuto il trauma, le persone ad esso collegate, fino ad evitare situazioni ed eventi che in un qualche modo possono essere ad esso associate. Quale effetto si otterrà? Questi evitamenti arriveranno a confermare la pericolosità di situazioni che non sono in alcun modo collegate al trauma. La paura incrementerà e la persona finirà per non credere più nelle proprie risorse, aumentando le proprie paure e rendendo il disturbo sempre più invalidante.
- Richiesta di aiuto e rassicurazioni. La persona sente il bisogno di essere sempre accompagnata, in modo da avere con sé qualcuno che possa intervenire in caso di pericolo o di crisi. Il fatto di affidarsi ad altri non farà però che confermare la propria incapacità di affrontare in autonomia le situazioni temute, rendendo la persona dipendente dagli altri.
La scrittura per superare il trauma
Uno strumento molto potente per riuscire a superare le conseguenze psicologiche di un’esperienza traumatica è la scrittura.
Narrare ogni giorno per iscritto, come se fosse la prima volta, l’evento traumatico, andando nei dettagli di ricordi, sensazioni ed emozioni che l’episodio ha scatenato va esattamente contro quello che chi ha vissuto un trauma cerca di fare: eliminare i ricordi dolorosi.
Abbiamo visto però che il tentativo di eliminarli non fa altro che incrementarli. Dovremo quindi agire seguendo una logica diversa, cioè passandoci in mezzo volontariamente.
Rivivere quotidianamente per iscritto l’esperienza traumatica (senza rileggere) farà in modo che la persona possa esternalizzare i ricordi e le sensazioni che quotidianamente la affliggono, permettendole di prenderne le distanze, mettendo fuori di sé ciò che di solito è dentro.
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Riferimenti Bibliografici
Cagnoni F., Milanese R. (2009). Cambiare il passato. Superare le esperienze traumatiche con la terapia strategica. Firenze: Ponte alle Grazie.
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
Winter blues: 10 rimedi per la tristezza d’inverno
“D’inverno mi sento triste, freddo, stanco, giù…come le foglie”
Ci sono persone particolarmente sensibili alle stagioni fredde, durante le quali manifestano sintomi di down psicofisico, per poi sentirsi “rinascere” con le stagioni calde.
Queste persone sono affette dal Disturbo Affettivo Stagionale (SAD) invernale, detto anche Winter Blues. Tutti possiamo sentirci avvolti da tristezza e malumore, è normale, ma se i sintomi durano oltre due settimane si parla di Disturbo.
Il Winter Blues è più frequente:
- nelle donne,
- in coloro che, nella loro storia familiare, presentano forme di Depressione, Disturbo Bipolare o Disturbo Affettivo Stagionale,
- in chi ha bassi livelli di vitamina D e di Folati,
- nelle persone che vivono in Paesi lontani dall’equatore o abitano in case poco illuminate.
Molte ricerche, svolte per comprendere le cause del Disturbo Affettivo Stagionale Invernale, hanno dimostrato che i livelli dell’ormone del buonumore (Serotonina), diminuiscono in assenza di luce e che il sistema neuroendocrino si modifica in base alla lunghezza delle giornate. Dunque la luce solare e le stagioni, influenzano le funzioni organiche, tra cui metabolismo e ritmo sonno-veglia, e l’umore. Quest’ultimo è legato alla Vitamina D, che a sua volta dipende dalla luce solare. Cosa accade quindi nel periodo autunno/inverno? Diminuiscono le ore di sole delle giornate.
Quali conseguenze?
Il cervello vedendo buio dice: “È notte, andiamo a dormire”, così aumenta l’ormone del sonno, diminuisce l’ormone attivante e la Serotonina. Per cui abbiamo:
Ø scarsa presenza di Serotonina, quindi più tristezza e malumore;
Ø alterazione degli ormoni sonno-veglia, perciò sonnolenza, stanchezza o al contrario insonnia e stress (meno frequente).
Tutti soffrono di Winter Blues? No.
È stata rilevata, in coloro che non sono soggetti al Disturbo Affettivo Stagionale, un’attività equilibrata del sistema neuroendocrino per tutto l’inverno. Siamo tutti soggetti alle variazioni stagionali, tuttavia in alcune persone le modificazioni neurochimiche e conseguenze connesse, sono disfunzionali.
Le caratteristiche sintomatologiche del Winter Blues.
- Il Tono dell’umore è basso. Spesso ingiustificato. Varia dal semplice malumore, alla tristezza, melanconia, fino a uno stato depressivo. Curioso che l’acronimo SAD, sia anche una parola inglese che significa Triste.
- La mancanza di piacere, soprattutto in ciò che generalmente lo provoca, e di energia e stimoli, con difficoltà a svolgere attività quotidiane.
- Aumento di peso finanche all’Obesità, o al contrario perdita di peso, per un alterato stimolo della fame e del desiderio di carboidrati o grassi.
- Ipersonnia e astenia (mentale e fisica) o al contrario insonnia.
- Irritabilità, ansia e senso di colpa
- Isolamento sociale
La gravità dei sintomi è variabile. Ci sono forme lievi, dette anche Subsindromi di Disturbo Affettivo Stagionale, ed altre più severe.
Il Winter Blues di frequente rientra nelle Subsindromi.
La persona è tendenzialmente in grado di condividere gioie ed eventi positivi, quando li vive e, anche se con molta difficoltà, riesce a gestire il quotidiano. Purtroppo per questi motivi, il disagio non severo delle persone con il Disturbo Affettivo Stagionale, è molto spesso sottovalutato sia da
chi ne è affetto, spesso colpevolizzandosi e peggiorando il suo stato, che dagli altri, anche dai medici.
Ma la ricorrenza degli episodi depressivi nelle stagioni autunno/inverno, può portare a un peggioramento nel tempo.
Cosa fare?
Prevenire.
Affrontare l’inverno in stato depressivo, o similare, non è affatto semplice. È possibile però prevenirlo, gestirlo e superarlo. Ecco alcuni rimedi che, se agiti tutto l’anno, possono aiutare a ridurre l’insorgenza di recidive.
1. L’uso di antidepressivi utile in presenza di sintomi severi. Non è la prima scelta dei medici nei casi di Subsindromi di Disturbo Affettivo Stagionale. Il primo antidepressivo è la luce.
2. Light therapy o fototerapia.
Esponiti alla luce di una lampada medica solare, soprattutto se il tempo è cupo. Trenta minuti per un totale di due ore al giorno. Mai la sera, avresti l’effetto contrario. Questa lampada genera un effetto sull’organismo quasi pari a quello del sole. Purtroppo non è adatta per chi soffre di Disturbo Bipolare, di Emicranie e fa uso di psicofarmaci. Né può essere usata nei mesi estivi per prevenzione. Meglio parlarne con un professionista.
Il rimedio più naturale per tutti? La luce solare. Uscire all’aria aperta almeno un’ora, anche se nuvoloso. Stare a contatto con la natura e la luce naturale. Assaporare dettagli, colori e profumi.
3. Assumere cambiamenti nello stile di vita e nella dieta, eliminando nicotina, caffeina e alcool.
4. Esercizio fisico regolare, antistress e antidepressivo efficace. Meglio all’aperto. Se al chiuso svolgetelo davanti alla finestra. L’attività fisica va evitata di sera, altera il ritmo sonno-veglia.
5. Routine dei piccoli piaceri. Un bagno o una doccia calda, una tazza di tè o latte caldo, un incontro tra amici, sorprendersi davanti a un panorama, un massaggio, un libro, un sms… Sollevano dalla tristezza e aiutano a svegliarsi col buon umore, in fondo “il bello deve ancora venire”. E poi…
6. Ridere.
7. Scopri la bellezza delle stagioni fredde. Paesaggi innevati, anche inaspettati come una spiaggia. Avere più tempo per riflettere su cosa lasciar andare (come le foglie) e cosa trattenere (come linfa).
8. Scrivere un diario, in cui appuntare i sintomi, quando iniziano, l’intensità, come evolvono, cosa sta funzionando, cosa no. Cosa ti mantiene il sorriso, cosa ti fa ridere. Valutare il tuo livello di stagionalità, sarà utile per prepararti ad affrontare la stagione invernale successiva. Anticipando l’insorgenza del Winter Blues e rafforzando le tue risorse.
9. Tecniche di respirazione e di meditazione. Se hai già constatato con un professionista quali, e se, sono adatte alla tua persona, potrai praticarle gestendo i sintomi della tristezza invernale.
10. Terapia psicologica. Ricerche hanno evidenziato l’utilità del supporto psicologico, preventivo e non solo in emergenza, per ridurre le recidive stagionali e l’insorgere della Depressione Maggiore.
Ti trovi in difficoltà nel quotidiano? Ti senti giù di morale senza apparente motivo? Vuoi imparare a trovare le strategie più adatte a te per gestire la tristezza? Vuoi affrontare un inverno all’insegna del benessere?
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One Session è il nostro servizio di ascolto psicologico attivo il martedì dalle 18.00 alle 20.00,
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Conflitti a lavoro? Collaborazione come strategia vincente.
Pensando al conflitto, l’immagine che ho avuto è stata il fungo atomico ad Hiroshima e Nagasaki.
Il mondo del lavoro può essere un campo di battaglia, con un effetto distruttivo, causato da un bombardamento, in questo caso emotivo, di rabbia e frustrazione.
Emozioni che montano sempre più nelle persone, che tra l’altro non si sono scelte e debbono convivere sotto lo stesso tetto lavorativo.
Una condivisione psicofisica che richiede energie non indifferenti, in uno spazio in cui regna spesso la competizione più che la collaborazione.
Affrontare discussioni
Affrontare una discussione genera molta tensione, ansia e paura di trovarsi di fronte a divergenze di opinioni.
Inoltre la conflittualità è valutata in modo negativo (non solo in ambito lavorativo), tanto da danneggiare spesso chi la attiva.
Per questi motivi difficilmente ci si espone nel manifestare conflitti e intavolare discussioni.
“La nostra mente evita di confrontarsi con ciò che ci minaccia. Il problema è che, facendo gli struzzi e non affrontando i problemi, si rischia di ingigantirli a dismisura dentro la nostra testa” (Rampin M. 2018).
In sostanza, tranne in pochi casi di pura ingiustizia o particolari patologie mentali, un conflitto nasce principalmente quando sorgono differenze e si ha difficoltà ad accordarsi. La mancanza di flessibilità e collaborazione diventa una delle cause dei conflitti relazionali e interiori.
A scapito della professionalità, si procrastina un confronto maturo, che offre possibili risoluzioni dei problemi e la prevenzione delle conseguenze del disaccordo.
Eppure i conflitti sono parte della vita, ed imparare ad affrontarli è necessario.
I conflitti sul lavoro
Quando il luogo di lavoro diventa costellato di conflittualità, si trasforma in un ambiente scomodo e disagiato. Uno spazio sociale in cui i conflitti interpersonali possono essere vissuti attaccando in modo evidente, o subdolamente, oppure in silenzio, sopportando e covando.
Entrambi i casi sono accompagnati da diffidenza, sguardi inaspriti od evitanti, pensieri frustranti, rimuginii, ansia e insoddisfazione, che spesso rimangono ancoràti nelle maglie emotive delle persone, tanto da essere portati anche a casa e permanere a lungo come effetti indesiderati.
Le conseguenze più comuni sono la riduzione della produttività, della qualità del lavoro e del benessere personale, con un aumento dello stress e del barn out.
Le manifestazioni psicofisiche e comportamentali che ne derivano, sono diverse e a vari livelli. Ad esempio:
- minore attenzione e concentrazione
- aumento del sospetto e di emozioni negative
- impazienza e inquietudine
- somatizzazioni: emicrania, mal di schiena, alterazione del sistema digestivo e del ritmo sonno-veglia
- isolamento, rottura dei rapporti ostili, abuso di ansiolitici e sostanze (cibo, alcol …)
Superare i conflitti
È possibile prevenire e trasformare un conflitto, in una condizione funzionale e utile?
Si, attivando la collaborazione e strategie per favorirla.
La Oxford Languages descrive il conflitto così: “contesa rimessa alla sorte delle armi, guerra; urto, contrasto, opposizione”.
Se il concetto di guerra lo abbiamo visto, è importante soffermarci un momento sulla parola opposizione, la quale non implica necessariamente incompatibilità.
Basti pensare alla capacità dei poli + e – di attrarsi e condividere spazi in equilibrio.
Ebbene, anche da differenti personalità, possono nascere condivisione e sinergia, dando vita a confronti ed opportunità, anche piccoli ma significativi.
Il “con-fronto” per definizione implica che ci si ponga uno difronte all’altro, in posizione opposta. Si può scegliere se attaccarsi o se cercare la risorsa per poter lavorare assieme, in un ambiente più favorevole per tutti.
Come si può agire la Collaborazione?
Alcuni suggerimenti.
- Focalizzate l’attenzione sulla persona e non sul problema relazionale.
Anche l’altro vive il conflitto e probabilmente è stanco quanto voi di questa situazione, ma forse non sa da dove partire per migliorarla. Ascoltatelo, potrebbe dire cose interessanti.
Nel confronto rimanete ancorati all’obiettivo di lavoro/argomento di cui vi state occupando, senza andare sul personale.
L’attacco alla persona genera solo muri di difesa, tensioni e rigidità sulle proprie convinzioni. E se l’altro lo fa con voi, allora in modo assertivo, fatelo presente.
- Abbiate perciò chiaro l’obiettivo.
Voglio “con-frontarmi” o prevalere sull’altro? Per risolvere un problema, è essenziale ascoltare l’altro e il suo punto di vista.
L’ascolto permette di focalizzarsi su ciò che dice, non dice e come lo dice. Se le emozioni sono “hot”, fermatevi. Prendetevi un momento.
- Dunque usate una comunicazione efficace ed empatica, e create un clima positivo.
Lasciate andare le provocazioni. Usate parole ben pesate, un tono di voce e un ritmo pacato, perché favoriscono il clima sereno, senza mai alzare l’indice come una spada da sguainare.
Partite con dei commenti positivi e con ciò che vi accomuna, per poi confrontarvi su ciò che vi differenzia. A volte l’autoironia spegne dardi infuocati, ma è bene evitare il cinismo.
Non lamentatevi e non parlate male di altri, rimanete sui fatti.
Abbiate un sincero interesse nella sua opinione, e fiducia che dal confronto potreste raggiungere un accordo comune, tale da favorire la collaborazione ed entrare in sinergia di idee e risorse.
Proponete una soluzione da rivedere assieme, ma non scegliete mai per l’altro.
- Valorizzate abilità e talenti di ognuno.
- Fate autocritica, per riconoscere cosa ostacola in voi la cooperazione.
In conclusione
Ricordate che essere differenti non significa essere per forza oppositivi e incompatibili, ma che si può scegliere di essere collaborativi.
Essere collaborativi, per creare un ambiente professionale più vivibile, aumentare e mantenere il proprio benessere e raggiungere obiettivi, non significa diventare amici.
È naturale che non ci piacciano tutti.
Ma certamente crescere nella capacità di collaborare, di gestire i conflitti e affrontare una discussione, significa fare un salto di qualità personale che si rifletterà in tutte le relazioni.
Se stai vivendo una situazione di conflittualità a lavoro, e vuoi ottenere un aiuto immediato, concreto e duraturo, chiedi aiuto a One Session!
Ti forniremo strumenti pratici e utilizzabili fin da subito per uscire da questa difficile situazione con le tue stesse risorse!
Ci trovi ogni martedì dalle 18.00 alle 20.00. Prendi appuntamento scrivendo a info@onesession.it o contattandoci sulle nostre pagine Facebook e Instagram
Riferimenti bibliografici
Funes C. (2014), Come gestire i conflitti. Risolvere i contrasti al lavoro per migliorare la produttività. Ed. De Vecchi, Milano
Rampin M., Mattiolo G. (2018), Con occhi di tigre, Ed. Sperling & Kupfer, Milano
Hollweck I. (2016), Conflict coaching: Allenarsi ad affrontare i conflitti di tutti i giorni con maggiore fiducia, Ed. Franco Angeli, Milano
Insonnia: 3 consigli per superarla
Di insonnia soffre una grande fetta di Italiani. Secondo uno studio condotto nel 2019 un italiano su 7 dorme male, e 3 su 10 dormono poco.
Quando parliamo d’insonnia?
Secondo il DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico per i Disturbi Mentali), l’insonnia è caratterizzata da una soggettiva insoddisfazione rispetto la quantità o qualità del sonno.
L’insonnia può riguardare diverse fasi del ciclo del sonno. Si può avere un insonnia iniziale, con difficoltà all’addormentamento. Altri soffrono di insonnia centrale, cioè la difficoltà a mantenere il sonno. Altri ancora vengono disturbati dall’insonnia tardiva, che si manifesta con risveglio precoce e incapacità di riaddormentarsi.
Quali sono le conseguenze dell’insonnia?
Una cattiva qualità e quantità del sonno produce inevitabilmente una serie di conseguenze nella quotidianità della persona.
Chi soffre di insonnia avrà frequenti preoccupazioni rispetto relative al proprio sonno, che generalmente aumentano nelle ore serali. La persona ha paura di passare un’ulteriore notte in bianco e questo pensiero sarà fonte di ansia e stress.
La scarsa qualità e quantità del sonno, inoltre, renderà chi soffre di insonnia piuttosto irritabile. Ecco che quindi ne risentiranno anche i rapporti interpersonali, oltre che la propria soddisfazione personale.
Un’altra conseguenza dell’insonnia si potrebbe verificare anche a livello fisico. Forti mal di testa, sintomi gastrointestinali e formicolii tengono frequentemente compagnia a chi dorme male.
Ultimo ma non ultimo, le capacità attentive e di concentrazione si riducono. Questo avrà un effetto negativo sul rendimento delle varie aree di vita della persona.
Perché per quanto mi sforzo l’insonnia non mi abbandona?
Chi soffre di insonnia generalmente mette in atto una serie di tentativi per riuscire a dormire, che purtroppo spesso si rivelano controproducenti. Il fatto di non ottenere risultati attraverso questi tentativi, poi, aumenta il senso di frustrazione e stress.
Il primo tentativo è quello di sforzarsi di addormentarsi. Peccato che però il sonno sia un’attività spontanea che prescinde dalla nostra volontà. Cercare di rendere volontario un gesto che è spontaneo non farà altro che togliere spontaneità all’addormentamento. I nostri tentativi non faranno altro che rendere sempre più difficile addormentarsi.
Un altro tentativo controproducente è quello di rimanere a letto pur non avendo sonno, anche quando ormai si è svegli. L’errore di questo tentativo sta nel fatto che, reiterando questo comportamento, il nostro cervello non sarà più abituato ad associare il letto alla sola attività del dormire. A lungo andare quindi verrà sovvertita l’associazione letto – sonno. Il letto, per il nostro cervello, diventerà luogo di svolgimento di diverse attività, come il leggere o guardare film.
3 consigli per superare l’insonnia
Partendo dai tentativi controproducenti spiegati poco sopra, vediamo quali possono essere 3 buone abitudini per riuscire ad alzare la propria qualità e quantità di sonno.
- Coricati a letto solo quando senti sonno. Riprendi ad utilizzare il letto solo per il dormire. Questo aiuterà il tuo cervello a ricostruire il collegamento tra il luogo letto e l’attività dormire.
- Se non riesci ad addormentarti, non rimanere a letto. Sappiamo che sei stanco, che dormire è una necessità, che non ne puoi più delle notti insonni. Ma rimanere a letto anche quando non riesci a dormire non ti aiuterà. Ti può aiutare, invece, spostarti in un altro luogo della casa e dedicarti ad un’altra attività, come la lettura. Finché non senti che il sonno sta tornando. Quello è il momento per tornare a letto. Ma se, una volta tornato a letto ti rendi conto che ancora non riesci ad addormentarti, ripeti quanto appena fatto. Alzati, dedicati ad altro, e solo quando torna il sonno coricati.
- A prescindere da quanto hai dormito, mantieni la sveglia allo stesso orario. Non cercare di compensare il mancato sonno notturno ritardando la sveglia o con dei riposi durante il giorno. Questa compensazione in realtà non farà altro che ripercuotersi alla sera, quando difficilmente sarai in grado di addormentarti.
Senti il bisogno di un aiuto professionale? Chiedi aiuto a One Session
In un solo colloquio aiutiamo le persone che si sentono bloccate in un problema che impedisce loro di vivere la vita che vorrebbero ad ottenere un risultato immediato e duraturo, fornendo strumenti pratici, concreti e utilizzabili fin da subito per farle uscire da questa situazione grazie alle loro stesse risorse.
Siamo attivi tutti i martedì dalle 18.00 alle 20.00.
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Riferimenti Bibliografici:
https://www.lostudiodellopsicologo.it/disturbi/soffrire-insonnia/ (consultato in data 05/11/2021)
https://www.iss.it/news/-/asset_publisher/gJ3hFqMQsykM/content/come-dormono-gli-italiani-uno-su-sette-dorme-male-e-tre-su-10-dormono-poco (consultato in data 05/11/2021)
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
Sindrome da corridoio: 3 consigli per uscirne
Con “Sindrome da corridoio” ci riferiamo a quella condizione in cui le persone non riescono a tenere distinte situazione lavorativa e vita privata. Questo genera elevato stress in entrambi gli ambienti.
Perché il nome “Sindrome da corridoio”?
Il corridoio è la parte della casa dove le varie stanze si affacciano, dove avvengono gli scambi tra un ambiente e l’altro.
Metaforicamente, può accadere che si crei un corridoio tra vita privata e lavoro.
In questo corridoio, non vi sono argini o confini che mantengono separati i vari ambiti.
Il corridoio può crearsi a livello mentale, quando i problemi lavorativi ci accompagnano anche a casa e viceversa, autoalimentandosi.
Può essere anche un problema di spazi fisici. Abbiamo visto come con l’arrivo della pandemia da Covid-19 tanti lavoratori abbiamo intrapreso la strada dello smartworking, e stiano ancora continuando così.
Questo ha portato ad avere fisicamente l’ufficio in casa, facendosi spazio nelle proprie aree relax, o sul tavolo della cucina, quando non in camera da letto.
Il rimanere fisicamente nello stesso ambiente per tutte le attività che dobbiamo svolgere durante la giornata, alimenta la fatica a distinguere quando una problematica o un evento stressogeno appartiene alla categoria “vita personale” o alla categoria “lavoro”.
Quali sono le conseguenze della sindrome da corridoio?
La sindrome da corridoio ha diverse conseguenze, a livello fisico, familiare e lavorativo.
A livello lavorativo produce un calo della produttività. Il fatto di non sapersi concentrare sulla mansione da portare a termine in quel momento perché preoccupato per problematiche domestiche incide indubbiamente sulla qualità del lavoro. Lavoro che, se non verrà svolto in un certo modo, sarà causa di malumori che sicuramente verranno riportati all’interno della famiglia, andando ad alimentare un circolo vizioso.
A livello familiare si inaspriranno le discussioni e le incomprensioni. Aumenteranno i vissuti di rabbia e frustrazione. Trovandoci in un corridoio, questi vissuti incideranno senza dubbio anche sul lavoro, aggiungendo altra legna al fuoco rispetto alla frustrazione lavorativa.
Infine, non sono da sottovalutare le conseguenze fisiche. La forte tensione creata dal bagaglio emotivo che non si riesce più a gestire può infatti rendere più vulnerabili ad incidenti ed infortuni.
Prevenire la sindrome da corridoio
La sindrome da corridoio non è quindi una problematica da sottovalutare.
Oggi vogliamo fornirti 3 consigli per riuscire a prevenirla.
1. Metti dei paletti tra vita privata e lavoro.
Questa è la forma di prevenzione più efficace che puoi attuare. Ottimizza ambienti e orari lavorativi. Chiudi quindi le porte che si affacciano sul corridoio. Per esempio, una volta terminato l’orario di lavoro, spegni il telefono aziendale, non controllare le mail.
2. Dedicati quotidianamente del tempo.
Individua delle attività che ti piacciono e ti rilassano e assicurati di dedicarvi un po’ di tempo giornalmente. Ti può essere utile metterle in agenda, per obbligarti a farle e non farti soffocare dal lavoro. Ne trarrai vantaggio in tutte le sfere della tua vita.
3. Tieni un diario.
La scrittura ha un grande potere terapeutico e, soprattutto nelle situazioni di stress, è una valida alleata per abbassare i livelli di frustrazione. Prenditi una decina di minuti al giorno per scrivere i tuoi pensieri, le tue sensazioni, il tuo stato fisico.
Se senti che non riesci a distinguere sfera privata e lavorativa e che questa cosa non ti permette di vivere la tua vita in modo soddisfacente, chiedi aiuto a One Session.
Siamo attivi tutti i martedì dalle 18.00 alle 20.00 per aiutarti ad ottenere un cambiamento immediato e duraturo, fornendoti strumenti pratici, concreti e utilizzabili fin da subito per uscire grazie alle tue stesse risorse da questa situazione, anche dopo un unico incontro.
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Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
Sensazione di vuoto: il languishing
Negli ultimi mesi molte persone stanno sperimentando una particolare sensazione di vuoto che può essere efficacemente descritta con il termine languishing.
Sembra infatti che, nonostante i vaccini e i passi che stiamo facendo per tornare alla normalità, in gran parte della popolazione rimanga una sorta di apatia.
Non è un vero e proprio stato di malessere, ma piuttosto una mancanza di benessere.
Nonostante il termine languishing sia stato usato frequentemente negli ultimi tempi legandolo alla problematica del COVID, non si tratta di una condizione nuova.
Che cosa si intende per languishing: la sensazione di vuoto
Il languishing e il suo opposto, il flourishing, sono i 2 poli della teoria del benessere di Keyes.
Il languishing rappresenta il polo negativo, uno stato di disordine, che genera una sensazione di vuoto, di apatia e di scarsa motivazione, una condizione di assenza di benessere ed emozioni positive.
All’opposto troviamo il flourishing che sarebbe il funzionamento ottimale, uno stato in cui sentiamo di avere una vita piena, ricca e felice.
Ovviamente è importante capire che trattandosi degli estremi di un continuum potremmo anche trovarci in una situazione intermedia.
Il languishing è un problema?
L’assenza di emozioni positive e questa sensazione di vuoto, per un breve periodo, sono quasi fisiologiche e facilmente comprensibili, considerato che stiamo attraversando una pandemia.
Tuttavia Keyes sottolinea che, secondo i dati, il rischio di un episodio depressivo è quasi sei volte maggiore nelle persone che sperimentano lo stato di languishing.
Perciò potrebbe essere utile chiedere un supporto psicologico, soprattutto se sperimenti questa situazione vuoto e di assenza di emozioni positive da diverso tempo.
Sensazione di vuoto e terapia a seduta singola
La terapia a seduta singola può rivelarsi estremamente utile per risolvere questa condizione in tempi brevi.
Persino una singola seduta può essere sufficiente per aiutarti a individuare delle strategie per affrontare e risolvere il problema.
Infatti la terapia a seduta singola focalizzandosi direttamente sul problema permette fin da subito di individuare l’obiettivo e di iniziare a lavorare su di esso.
Il modello PERMA
In molti casi chiedere un supporto psicologico è la scelta migliore, ma cerchiamo di capire fin da subito su che cosa possiamo lavorare per spostarci dallo stato di languishing verso quello di flourishing.
Innanzitutto possiamo cercare di lavorare sul nostro benessere psicologico e sui vari aspetti che lo caratterizzano.
Una definizione del benessere molto pratica e interessante, ampiamente riconosciuta in psicologia è il modello PERMA di Martin Seligman.
“PERMA” è un acronimo che sta per:
- P – Emozioni positive (Positive emotion): sperimentare emozioni positive è fondamentale per il benessere. Sia le emozioni positive che negative vanno gestite con efficacia.
- E – Coinvolgimento (Engagement): Essere coinvolti in attività che ci assorbano completamente, in cui perdiamo la cognizione, sperimentando il cosiddetto flow sono estremamente importanti per il benessere.
- R – Relazioni (positive) (Relationship): siamo animali sociali, le relazioni positive sono uno dei fattori più importanti per il nostro benessere.
- M – Significato (Meaning): dedicarsi a una causa che abbia un significato più grande di noi, che abbia implicazioni anche collettive..
- A – Realizzazione (Achievement): pianificare, perseguire e raggiungere obiettivi migliora autostima, resilienza, ottimismo e più in generale il nostro benessere.
Questo modello è basato sulle evidenze di ricerche scientifiche sul benessere, ognuno di questi 5 aspetti influisce sul senso generale di benessere.
Come abbiamo detto il languishing è caratterizzato da una sensazione di vuoto e di assenza di emozioni positive. Le emozioni positive sono uno dei cardini centrali del modello, ma concentrarsi solo su di esse potrebbe non essere sufficiente per sviluppare un senso globale di benessere.
Dovremmo lavorare su tutte le componenti del modello per costruire una vita piena e significativa.
Dal languishing al flourishing
Quindi in breve cosa possiamo portarci a casa dal modello PERMA?
Che da ciò che emerge dalle ricerche possiamo migliorare il nostro benessere e passare dal languishing al flourishing lavorando su:
- Sperimentare un maggior numero di emozioni positive: aggiungi attività piacevoli alla tua routine quotidiana che ti facciano sperimentare emozioni positive.
- Aumentare l’impegno e il coinvolgimento: trova degli hobby che ti coinvolgano davvero e ti permettano di sviluppare abilità ed esprimere le tue passioni.
- Migliorare la gestione dei rapporti: impara a costruire relazioni supportive basate sulla fiducia reciproca e sull’affetto, con amici, parenti e famigliari.
- Impegnarsi in attività abbiamo una causa comunitaria tramite il lavoro, hobby o attività di volontariato aiuta a migliorare il benessere e a colmare la sensazione di vuoto. – Pianifica con efficacia obiettivi che abbiano un valore per te, a breve e a lungo termine, mantieni l’equilibrio tra realizzazione e gli altri aspetti importanti della vita per il tuo benessere.
In conclusione questi sono alcuni consigli che spero possano esserti utili, nel caso non fossero sufficienti o ritenessi di avere bisogno di un supporto in più ricorda che la terapia a seduta singola può rivelarsi molto efficace in queste situazioni.
In alternativa puoi usufruire del nostro centro di ascolto psicologico One Session Center che offre una consulenza gratuita di 30 minuti ogni martedì dalle 18 alle 20 con uno dei nostri professionisti specializzati nella Terapia a Seduta Singola. Contattaci alla pagina Facebook OneSession.it.
Riferimenti bibliografici:
Keyes, C. L. M. (2002). The Mental Health Continuum: From Languishing to Flourishing in Life. Journal of Health and Social Behavior, 43(2), 207–222.
Keyes, C. L. M. (2005). Mental Illness and/or Mental Health? Investigating Axioms of the Complete State Model of Health. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 73(3), 539–548
Seligman M. (2017). Fai fiorire la tua vita. Una nuova, rivoluzionaria visione della felicità e del benessere. Anteprima Edizioni.
Sono uno psicologo e mi occupo soprattutto di consulenze brevi e di psicologia del benessere. Utilizzo la Terapia a Seduta Singola per diverse problematiche, in particolare per aiutare le persone ad affrontare ansia e momenti particolarmente stressanti.
La Terapia a Seduta Singola per la paura degli aghi
Che cosa si intende per “belonefobia” o “paura degli aghi”?
La “paura” rappresenta di per sé un’emozione fondamentale per il nostro adattamento al contesto circostante.
Essa ci mette in allarme di fronte a un pericolo imminente ed aumenta la nostra capacità di farvi fronte.
Quando tuttavia una persona entra in uno stato di allarme nei confronti di una situazione reale o immaginata in modo limitante per la propria vita, la paura rischia di diventare una gabbia in cui si rimane intrappolati.
Non amare particolarmente la vista o la sensazione di venir trafitti da un ago è piuttosto comune.
Ciò non rappresenta di per sé un problema, se ci consente comunque di condurre la nostra vita senza limitazioni.
Se però questa paura diviene sproporzionata rispetto al rischio reale, al punto da non riuscire più a controllare questa emozione e a rimanerne bloccati, potremmo trovarci di fronte ad una fobia specifica.
La “belonefobia” ( dal greco “ago” e “paura”), per poter essere ritenuta tale deve essere sperimentata dalla persona in modo marcato e persistente per almeno 6 mesi di fronte ad una specifica situazione o oggetto e scatenare una reazione immediata di ansia e paura, che compromette la propria vita (DSM-5).
Questa fobia può riguardare ad esempio la vista degli aghi, la sensazione di esserne trafitti o anche l’avvicinarsi a contesti dove si possono trovare (ad es. studi medici, ospedali, negozi di tatuaggi…).
Quali sono le conseguenze?
Ogni persona vive la belonefobia in modo del tutto soggettivo.
Tra i sintomi fisici più frequenti, si possono riscontrare aumento del battito cardiaco, sudorazione improvvisa fino ad arrivare a nausea e svenimento di fronte agli aghi.
Altre persone sperimentano pensieri pervasivi di preoccupazione intensa, angoscia e reazioni di fuga.
Di fronte a questo limitante problema, ciascuno può quindi trovare il suo modo per poter ridurre al minimo questo disagio.
La soluzione maggiormente adottata per la belonefobia è l’evitamento di tutte quelle situazioni che possono mettere a rischio di entrare a contatto con gli aghi.
Questo si può esprimere ad esempio con la scelta di non sottoporsi a indagini, controlli e terapie mediche (come le analisi del sangue o andare dal dentista) arrivando anche a rifiutare interventi e ricoveri necessari per la propria salute.
Uno studio recente nel Regno Unito ha riscontrato ad esempio che nella popolazione adulta oggetto dello studio, la belonefobia potrebbe spiegare circa il 10% dei casi di esitazione al vaccino COVID-19 (Freeman D. et al (2021).
Un’altra modalità adottata per provare a gestire da soli la belonefobia è condividere con amici e parenti i propri vissuti.
Paradossalmente, parlare in continuazione del problema non fa che ingigantirlo ed amplificarne le conseguenze negative.
Anche pensare ripetutamente all’evento stressante in solitudine rischia di farci affondare nelle sabbie mobili della paura ancora di più.
Come può aiutarti la Terapia a Seduta Singola ad affrontare la paura degli aghi?
Se leggendo questo articolo hai pensato “ehi, ma anche a me succede! Sono proprio io!” sappi che la Terapia a Seduta Singola può risultare efficace nella risoluzione della belonefobia.
Fin dalla prima seduta lo psicologo esplorerà con te il tuo problema, cercando di identificare in quali circostanze specifiche e con quali modalità peculiari si presenta.
Lo psicologo potrà poi aiutarti ad individuare e sperimentare delle strategie alternative per fronteggiarlo.
A diverse persone può risultare funzionale iniziare ad esporsi in maniera graduale alla propria paura.
L’uso di immagini, video o prove sul campo può aiutare ad abbassare il livello di ansia e ad aumentare la propria capacità di sentirsi a proprio agio nel contesto inizialmente evitato.
Se hai trovato un modo efficace per vincere la tua belonefobia e hai voglia di condividerla con noi, raccontaci la tua esperienza nei commenti.
Ricordati inoltre che se preferisci affrontare la tua paura degli aghi con uno specialista, il team di psicologi di “One session” ti offre la possibilità di una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola della durata di 30 minuti, ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00.
Per prenotare, puoi inviare una email a info@onesession.it o contattarci sulla nostra pagina FB OneSession.it
Riferimenti bibliografici
Freeman D. et al (2021). Injection fears and COVID-19 vaccine hesitancy. Psychological Medicine 1–11.
McLenon J., Rogers M. (2019). The fear of needles: A systematic review and meta-analysis. Journal of Advanced Nursing 2019, 75 (1): 30-42. 301
Nardone, G. (2000). Oltre i limiti della paura. Milano: BUR Rizzoli.
Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.
Insonnia: quando addormentarsi diventa un incubo
Se hai provato a contare le pecore e sei arrivato ad una cifra astronomica. Se hai provato con la camomilla e poi sei passato alle tisane dai gusti più improponibili. Se hai provato con la musica rilassante e per disperazione hai messo in pausa alla melodia che riproduceva il suono degli uccellini del bosco.
Se hai provato con tutti i prodotti che il tuo farmacista ti ha consigliato, ma invano.
Forse ciò che ti crea malessere è un disturbo del sonno e si chiama insonnia.
L’insonnia può essere occasionale, persistente o associata a concomitanti condizioni mediche o ad abuso di sostanze o alla presenza di disturbi mentali.
Le cause dell’insonnia occasionale, di cui ci occuperemo in questo articolo, possono essere legate ad un momento di stress, di preoccupazione o crisi che stiamo attraversando o anche ad un cambio di stagione o al jetleg.
Può dunque trattarsi di una fase transitoria che scompare all’improvviso così come è comparsa ma che comunque può creare dei fastidi a livello sia funzionale che emotivo.
A tutti noi sarà certamente capitata una notte insonne magari precedente ad un evento importante della nostra vita familiare, lavorativa o di studio che provocava eccitazione o ansia.
L’insonnia può interessare:
- difficoltà ad addormentarsi;
- risvegli frequenti con difficoltà a riaddormentarsi;
- risveglio precoce al mattino con problema a riaddormentarsi.
Quali conseguenze?
L’insonnia è di certo un disturbo le cui conseguenze e difficoltà hanno ripercussioni non solo nella fase notturna ma anche in quella diurna.
La mancanza di riposo e di sonno che ristora comportano conseguenze sul corpo e sulla mente.
Il non dormire in modo soddisfacente non consente la messa in carica e la messa in movimento delle energie necessarie ad affrontare le numerose ore di veglia.
Ore fatte di studio, lavoro, impegni e attività che richiedono un’attivazione corpo/mente profonda.
A prevalere saranno il senso di sonnolenza, la mancanza di concentrazione, l’irritabilità, il calo del tono dell’umore, la difficoltà di rendimento in ambito sociale, professionale, relazionale.
Differenti saranno poi anche i disagi fisici, quali emicrania, disturbi gastrointestinali, stati di tensione e agitazione motoria, senso di spossatezza, mancanza di forze.
Questi disturbi, seppure transitori, creano nella persona un disagio che condiziona in modo significativo le relazioni.
Come uscirne?
L’operatività e l’efficacia della terapia breve possono essere di grande aiuto per questo problema ma necessitano di un’attenta valutazione operativa.
Alcuni comportamenti e fattori possono mantenere l’insonnia, provocandola addirittura (a che ora si va a dormire, uso di caffeina o farmaci prima di andare a dormire etc.) .
Solitamente l’ansia di voler dormire e l’angoscia provocata dalla incapacità di farlo, già sperimentate nelle notti precedenti, creano uno stato di profonda frustrazione che va ad alimentare una sequenza di azioni e pensieri.
Sequenza che rafforza e mantiene il nostro problema.
Una profezia autoavverantesi, insomma. Non vi è dubbio infatti che negli esseri umani è presente una tendenza a cercare di confermare le proprie ipotesi. Questo fa si che la credenza crei la realtà.
Saresti pronto a rompere il meccanismo che ti porta a rimuginare su come e quando dovrai addormentarti?
La tua profezia può cambiare in positivo.
Potresti provare questa semplice tecnica che consiste nel trascrivere, prima di addormentarti o durante il risveglio, su un taccuino che accuratamente avrai scelto prima (forma, colore…) tutti quei pensieri che si presentano nella tua mente e che si inseguono senza fermarsi.
Scriverli per liberartene e alleggerire così la tua mente, trasformando la tua profezia in un rilassante “se vuoi, puoi”!
Riferimenti bibliografici
Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali, quinta edizione (DSM-5°) –Milano: Raffaello Cortina Editore
Attili G. (2002) – Introduzione alla psicologia sociale – Roma: Edizioni Seam
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
Come migliorare il rapporto con il tuo capo
Perché è importante avere relazioni serene nell’ambiente di lavoro?
Riuscire ad instaurare un rapporto soddisfacente con il proprio capo, e con i colleghi, è il desiderio di tantissime persone. Sul luogo di lavoro, infatti, è indispensabile poter contare su un ambiente tranquillo in cui poter lavorare con serenità. E’ ormai da diversi anni noto che, quando le persone si sentono tranquille e senza troppe pressioni addosso, il rendimento lavorativo e la soddisfazione personale aumentano!
Viceversa, un rapporto altalenante o scadente con il proprio superiore, può spesso essere collegato ad una soddisfazione minore verso il proprio lavoro, che può andare a ripercuotersi negativamente anche su altri ambiti di vita.
Qualche dritta per migliorare la situazione
Ottenere una relazione distesa con il capo può non essere un processo immediato, ma ecco qualche suggerimento per riuscire al meglio nella costruzione di rapporto nuovo e più sereno:
1. Sii proattivo
Se pensi di avere la soluzione per un problema, esponila! I suggerimenti, se dati con educazione e rispetto, faranno capire al tuo capo quanto tu sia dedito al lavoro e competente.
2. Presta attenzione alle scadenze
Anche se può essere difficile, soprattutto quando si è sommersi di lavoro, è molto importante rispettare le scadenze, perché sarà una prova formidabile della tua affidabilità.
3. Chiedi feedback
Quando te ne capita l’occasione, chiedere al capo dei feedback sul lavoro svolto ti farà apparire come una persona desiderosa di migliorarsi e fare bene il proprio lavoro. Non avere paura di eventuali riscontri negativi, se dovessero esserci saranno uno spunto per migliorare le tue prestazioni!
4. Ricorda che, oltre ad essere il tuo superiore, è una persona
Come tutti, anche il tuo capo avrà una vita fuori dall’ambiente lavorativo. Cercare di conoscerlo, mostrandoti autentico e rispettoso, potrebbe migliorare notevolmente il vostro rapporto!
Presta attenzione alla comunicazione
Un ultimo suggerimento per rendere il rapporto con il capo più sereno è quello di prestare molta attenzione alla comunicazione.
Il nostro modo di comunicare con gli altri è davvero importante, perché può influenzare direttamente la relazione con la persona che abbiamo davanti.
Quando si tratta di un superiore, è fondamentale adattarsi al suo stile comunicativo e al suo registro linguistico.
Cerca di mantenere questo stile anche nella comunicazione via e-mail, soprattutto se usate spesso questo strumento.
Inoltre, se possibile, cerca di prediligere gli scambi dal vivo a quelli telefonici o via e-mail, perché questi danno una possibilità maggiore di comprendersi e approfondire l’argomento di conversazione.
Riuscire a costruire un rapporto sereno con il proprio capo è possibile, anche se può richiedere qualche sforzo.
Tuttavia, l’impegno iniziale sarà ricompensato da un ambiente lavorativo più disteso, nel quale fare emergere le proprie competenze professionali.
E se credi di avere bisogno di un po’ di aiuto, la soluzione potrebbe essere chiedere aiuto ad un professionista, che ti aiuterà con un incontro di Terapia a Seduta Singola a trovare le risorse e comprendere come usarle per affrontare il problema.
Se sei interessato alla Terapia a Seduta Singola ogni martedì per un periodo limitato, dalle 18:00 alle 20:00 gli Psicologi e gli Psicoterapeuti del nostro team One Session si rendono disponibili per degli incontri gratuiti aperti a tutti.
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Bibliografia
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018), Terapia a Seduta Singola. Principi e pratiche. Giunti Psychometrics
Sono una psicologa, mi occupo di sostegno psicologico attraverso l’uso della Terapia a Seduta Singola per poter aiutare le persone a risolvere i propri problemi in tempi brevi. Ricevo a Cosenza e On Line (Skype).
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Di seguito alcuni semplici consigli:
Psicologa, laureata all’Università “La Sapienza” di Roma, mi sto formando come psicoterapeuta ad approccio Breve Sistemico-Strategico.
Lavoro da anni in Servizi rivolti a persone con disabilità e con disturbi psichiatrici, occupandomi di sostegno psicologico individuale, di coppia e alle famiglie, favorendo processi di crescita personale e la costruzione di percorsi volti a migliorare la qualità di vita.
Onicofagia: mangiarsi le unghie tra piacere e dolore
Le parole hanno una forma e una struttura, occupano uno spazio linguistico e culturale e rivestono un ruolo sociale. Ma le parole hanno anche e soprattutto un valore.
Possiamo leggere attraverso il linguaggio, il movimento e il pensiero di un’intera comunità.
L’etimologia, ha la straordinaria capacità di entrare nell’intimo delle parole in modo trasversale, percorrendone a fondo il significato.
Il termine onicofagia viene dal greco “òniks–ònykhos”, unghia e “phagia”, mangiare ed è il classico esempio di quando i suoni di una parola descrivono o suggeriscono l’oggetto o l’azione che significano.
Mangiare le unghie è un’abitudine molto diffusa tra le diverse fasce d’età e le diverse culture.
Tormento e piacere che possono andare avanti in maniera transitoria e senza conseguenze oppure per anni anche senza accorgersene, come riflesso incondizionato oppure ancora che possono minare la serenità e la socialità di un individuo totalmente dipendente da questo vizio-passione.
L’unghia, con la pellicina e la cuticola circostante, diventa l’oggetto di una violenza cronica che può essere attuata in momenti di stress o di eccitazione, oppure, nei momenti di noia o d’inattività.
È discutibile se l’onicofagia sia solo un’abitudine o ci sia qualche dinamica psicologica sottostante.
Cosa dice il DSM?
Nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5), l’onicofagia è classificata tra i disturbi ossessivo-compulsivi, che vedono la contemporaneità di ossessioni, vale a dire pensieri indesiderati e continui e di compulsioni, cioè comportamenti dettati dalla necessità di compiere una particolare azione.
Dal punto di vista medico, l’onicofagia ha delle manifestazioni fisiche particolarmente rilevanti; può causare dolore, sanguinamento, arrossamento.
È responsabile di infezioni batteriche o virali, di patologie dentali e può portare a lesioni gengivali, oltre a facilitare la diffusione d’infezioni alla bocca.
Dal punto di vista sociale ed estetico, vedere una mano con le unghie consumate o osservare una persona intenta a mangiucchiare, tirare, sputare o ingoiare unghie e cuticole, può dare fastidio e far pensare, nell’immaginario collettivo, ad un individuo che trova nella pratica del vizio un modo di gestire i propri stati emotivi.
L’onicofagia può avere cause di origine ambientale e\o biologica, come appunto stress, ansia, rabbia, noia o imitazione di altri membri della famiglia (es. genitori, fratelli etc.)
Come smettere?
Perché si può desiderare di smettere?
Potrebbe esserci la paura di sviluppare infezioni o la volontà, ad esempio, di avere un aspetto più curato e sano.
L’onicofagia può manifestarsi in forma lieve, media o grave.
Il trattamento più comune e ampiamente disponibile, prevede l’applicazione di uno smalto di sapore amaro, che scoraggia l’abitudine di mangiarsi le unghie; l’odore e il gusto sgradevoli ricorderanno all’onicofago di fermarsi ogni volta che porta le mani alla bocca.
Altri rimedi semplici ed immediati possono riguardare la cosmesi cioè il prendersi cura delle proprie mani, tenendo le unghie corte o ricostruendole.
Questi rimedi possono rivelarsi efficaci quando la manifestazione del problema avviene in forma lieve o media e può quindi essere gestita attraverso piccoli accorgimenti distraenti dall’azione.
Quando il problema si manifesta in forma grave sarà necessario concentrarsi sul cambiamento dei comportamenti, tenendo conto dei fattori emotivi che inducono l’abitudine (ansia, stress, rabbia, noia, tristezza).
Potrebbe essere necessario individuare un modo per scaricare il cumulo di stress e tensione repressi, per trarne un effetto positivo sul fisico e sulla mente.
Praticare una sana attività fisica è un buon modo per sfogarsi perché l’impegno fisico libera la mente ed allenta le tensioni (lunghe passeggiate, corsa, bicicletta, palestra…).
Lo sport potrebbe rivelarsi utile anche per combattere la noia e la tristezza.
Nei casi più gravi, l’onicofagia può assumere la connotazione di un atteggiamento autolesionistico, cioè un’espressione di aggressività rivolta verso se stessi e questo potrebbe richiedere l’aiuto di uno psicoterapeuta .
Come smettere utilizzando la Terapia Breve?
Mangiarsi le unghie è un vero e proprio rituale inevitabile e irrefrenabile che viene eseguito per prevenire la propria realtà, oppure porre rimedio alle conseguenze negative di una propria azione o pensiero.
Si cerca dunque di controllare la realtà e si diviene schiavi di questo controllo.
Una vera e propria sequenza di pensiero e azione che consoliderà il disturbo nel tempo e che il terapeuta cercherà di interrompere utilizzando stratagemmi terapeutici che mirano a creare esperienze emozionali correttive capaci di agire sul sistema percettivo dell’individuo e di conseguenza sulla capacità di gestire un comportamento.
Le esperienze emozionali correttive sono le chiavi che il terapeuta aiuta il paziente a trovare per aprire nuove porte, dietro cui troverà nuove esperienze e nuove emozioni.
Obiettivo primario di questi stratagemmi terapeutici è quello di far divenire il comportamento volontario e non più compulsivo, in modo da:
- rendere la persona capace di controllare il disturbo ossessivo;
- far si che la persona possa decidere di rimandare la messa in atto del rituale;
- interrompere la sequenza percettivo-reattiva che consolida il disturbo nel tempo;
- privare il rituale del suo piacere evidenziandone la sgradevolezza attraverso il controllo su di esso e attraverso il doverlo mettere in atto obbligatoriamente.
Hai letto questo articolo tutto d’un fiato?
Hai tormentato le tue unghie facendolo?
Se ritieni di non riuscire da solo attraverso semplici e immediati rimedi a gestire questo vizio, non esitare a rivolgerti ad un professionista capace di guidarti verso nuovi scenari.
Bibliografia
Dettore D., Giaquinta N., Pozza A. (2019) – I disturbi da comportamenti focalizzati sul corpo – Firenze: Giunti Editore
Nardone G. (1993) – Paura, panico, fobie. La terapia in tempi brevi – Firenze: Ponte delle grazie
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
STOP al lavoro: GODITI le vacanze!
“Basta, quest’anno voglio riposarmi in vacanza”
“Spengo il telefono e non voglio sentire nessuno”
“Se la caveranno anche senza di me”
Quane volte ti sarà capitato di dire queste parole, sperando di poter finalmente passare una vacanza senza portarti dietro l’ansia lavorativa?
E ogni volta puntualmente non sei riuscito nell’intento per il messaggino che è arrivato nel momento sbagliato, la chiamata a cui hai dovuto assolutamente rispondere o un email che ti sei scordato di inviare.
Succede! La vita è imprevedibile e non è facile tenere tutto sotto controllo, anzi: a volte è veramente impossibile. Più cerchi di mantenere il controllo e più lo perdi.
Inoltre, stabilire un periodo nel quale dovrai a tutti costi rilassarti, smettere di pensare al lavoro e stare meglio, renderà quel bisogno un imposizione a cui dovrai sottostare; quelle giornate dovranno essere “migliori delle altre”, proprio perché tu dovrai rilassarti.
Non trovi che sia stressante?
Lo stress di fine anno!
La vacanza è una pausa dalla solita routine: è uno spazio dedicato a “fare altro”, a spezzare i soliti schemi della tua giornata tipo, a uscire fuori dal contesto giornaliero per respirare un aria nuova e diversa.
La vacanza estiva giunge alla fine di un anno lavorativo con i suoi pro e i suoi contro ed è facile che ti porti a fare il bilancio annuale, valutando l’operato, gli errori, i miglioramenti, i cambiamenti, creando così uno stress mentale.
“Ho deciso, a settembre cambio vita”
“A settembre inizio la dieta”
“Appena torno dalle vacanze, giuro che mi organizzo le giornate e smetto di fare le cose di corsa”
Potrei continuare all’infinito con i buoni propositi.
Le opzioni sono tante, ma a stressarti è il ventaglio di scelte che hai davanti, l’ansia di doverle iniziare e non sapere da dove partire.
Sei un pesce che annaspa tentando di restare a galla e che, via via che si avvicina la fine delle vacanze, anneghi lentamente nel tuo mare di paure.
Stop!
Fermati e riorganizzati, affinché tu possa godere appieno dei benefici dell’estate e delle vacanze, ripartendo a settembre con più energia.
I consigli per l’estate!
Ci sono delle strategie che puoi adottare per ridurre lo stress, pensiero costante rispetto agli impegni, l’ansia del “mi devo riposare a tutti i costi” e la paura del ritorno imminente.
- Blocca i pensieri
Quando sopraggiunge il rimugino, il pensare al problema costantemente, tu non rispondere, non dargli adito ma bloccalo schioccando le dita, dicendo il tuo nome e tornando al momento presente. Ogni volta che arriva il pensiero ansioso, puoi schioccare le dita e dire: “Mario! Torna qui!”. Richiami la tua attenzione, rimproverandoti di assecondare l’ arrivo di quel pensiero ansioso.
Rimuginare è ormai un’ abitudine per te; la cosa più semplice che puoi fare è disinnescare questa abitudine. Visto che non puoi interrompere il rimuginare sul problema che ti assilla, perchè quando arriva arriva, puoi agire proprio sul rimuginare, interrompendolo con lo schiocco delle dita.
- Organizza il tuo tempo prima della vacanza
Puoi ricorrere a una semplice to do list, che ti aiuti a sfoltire le incombenze prima di partire per le vacanze:
- Scegli uno strumento che ti aiuti a pianificare le attività, come una agenda.
- Compila la tua to-do list.
- Fai una lista di 6 punti massimo.
- Definisci il tempo che vuoi dedicare ad ogni attività.
- Differenzia le attività importanti da quelle urgenti.
- Svolta un’attività, cancellala.
- Definisci i tuoi obiettivi alla fine della vacanza.
Quando sei di ritorno dalle vacanze, prendi un foglio di carta e scrivi gli obiettivi che vuoi raggiungere e che ti sei prefissato per il nuovo anno lavorativo, senza esagerare.
Per ogni area della tua vita (professionale, personale, economica e lavorativa) individua un solo obbiettivo. Non strafare.
L’obiettivo deve essere:
- Specifico: “Voglio allenarmi 3 volte a settimana “
- Misurabile: deve essere possibile valutare i miglioramenti. “Voglio allenarmi 3 volte a settimana ” è misurabile perche ti permette di valutare i risultati che raggiungi.
- Raggiungibile: il tuo obiettivo deve essere fattibile. Dire ” voglio allenarmi 3 volte a settimana ” e poi essere consapevoli di non avere il tempo, i soldi, la voglia etc, non è un obiettivo raggiungibile. Devi tenere conto delle tue reali possibilità e ridimensionare l’ obiettivo in base a queste.
- Realistico: stabilisci un obiettivo che sia reale. “Voglio diventare campionessa olimpionica di salto con l’ asta ” non è realistico nel momento in cui non hai intrapreso quella carriera o “Voglio viaggiare nello spazio ” non è possibile, se non sei un astronauta.
- Temporalizzabile: stabilisci il giusto tempo per il tuo obiettivo. Considera il tempo che ti serve per realizzarlo in ogni suo aspetto e definisci un tempo di scadenza. Non lasciare che cada in prescrizione.
Se pensi di stressarti troppo in vacanza e di pensare al lavoro, puoi mettere in atto queste strategie.
Se hai bisogno di un aiuto più concreto, puoi contattare uno psicologo formato in terapia a Seduta Singola che può aiutarti anche con un singolo incontro.
Vai sul sito https://www.onesession.it/, cerca il terapeuta più vicino a te ( scegliendolo anche online).
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Bibliografia:
https://www.riza.it/psicologia/ansia/4320/ansia-in-ferie-cosi-te-ne-liberi.html
Sono una psicologa che si occupa di consulenze brevi e di TSS: il mio obiettivo è ridurre i tempi della terapia e massimizzare l’efficacia della seduta, offrendo un sostegno focalizzato e concreto per affrontare sia le piccole che le grandi difficoltà della vita
Gestire lo stress e tornare a stare bene sul posto di lavoro: come si fa? Ecco alcuni suggerimenti e strategie per fronteggiarlo!
Contrariamente a quanto si pensa di solito, non dobbiamo ed in realtà non possiamo evitare lo stress. Quello che possiamo fare, però, è riconoscerlo e gestirlo in modo efficace, cercando di trarne vantaggio, imparando i suoi meccanismi di funzionamento e adattando la propria filosofia di vita ad esso.
Ma procediamo con ordine.
Innanzitutto, che cos’è lo stress lavoro-correlato?
Sicuramente la maggior parte di voi potrà darne una definizione soprattutto in termini di sintomi: mal di testa, cattivo umore, difficoltà a concentrarsi, stanchezza cronica…
In letteratura, si definisce stress lavoro-correlato quella condizione che si verifica “nel momento in cui le richieste provenienti dall’ambiente lavorativo superano le capacità dell’individuo nel fronteggiare le richieste stesse”.
In Europa questa condizione sembra riguardare almeno un lavoratore su quattro e una delle conseguenze più negative per le aziende è l’assenteismo che provoca ritardi nello svolgimento quotidiano delle mansioni e ovviamente perdite economiche importanti.
Uno studio dell’Università Bocconi di Milano ha messo in risalto come per le donne, lo stress sia anche maggiore rispetto agli uomini: infatti, lo stress viene intensificato dall’esigenza di dover gestire la propria professione e la famiglia.
Quali sono i sintomi dello stress lavoro-correlato?
I sintomi possono essere di varia natura, ma per semplicità possiamo suddividerli in 4 grandi categorie:
- Fisici: mal di pancia, mal di testa, problemi dermatologici, difficoltà a prendere sonno e/o dormire, disturbi nella sfera sessuale, crisi respiratorie.
- Comportamentali: insicurezza, pressione, abbassamento dell’autostima, impazienza, impulsività, insicurezza, isolamento, aumento del consumo di sigarette o caffè durante il giorno.
- Lavorativi: assenteismo, infortuni, conflitti nelle relazioni lavorative, scarso rendimento nelle attività, problemi disciplinari.
- Psicologici: ansia, difficoltà di concentrazione, scarsa attenzione, umore depresso, attacchi di panico, crisi di pianto, stanchezza cronica, sensazione di avere la testa pensante o vuota.
Sicuramente una persona che soffre di stress lavoro-correlato avrà sperimentato o sta sperimentando questi sintomi, arrivando a pensare di essere inadeguata, sbagliata e pensare di dover lasciare il lavoro perché incapace.
Cosa fare per fronteggiarlo?
Per cominciare, potresti riflettere su questi punti:
Quali sono le cose che ti fanno più arrabbiare o agitare? Che cosa ti rende ansioso/a?
Rispondere a queste due domande ti può aiutare a focalizzare il problema e permetterti di restringere il campo rispetto a ciò che temi o che ti innervosisce.
Quando esci dall’ufficio sei in grado di lasciare lì i problemi?
Molto spesso, se non si riescono a lasciare le difficoltà lavorative fuori dalla porta di casa, può crearsi un corridoio pericoloso che fa circolare i problemi da lavoro a casa e viceversa, andando ad inquinare tutti e due gli ambienti. Un suggerimento è quello di trovare un gesto, un rituale, un’abitudine da fare prima di entrare in macchina dopo il lavoro o prima di entrare a casa, che ti permetta di percepire un distacco fra un ambiente e l’altro; come un segnale che ti faccia capire che stai chiudendo con la giornata lavorativa e stai passando ad altro. Come ogni buon training, deve essere ripetuto per un po’ prima che funzioni.
È davvero il luogo di lavoro a renderti nervoso/a?
Oppure scarichi in quell’ambiente la tensione che accumulo nella tua vita personale? Se così fosse, il problema non sarebbe collegato al lavoro, ma piuttosto a problematiche private.
Se ti rendi conto che il lavoro ti sta creando uno stress intollerabile e delle problematiche eccessive e, da solo, non riesci ad uscire da questa situazione, ti consiglio di consultare uno Psicologo.
Infatti, soprattutto con il metodo della Terapia a Seduta Singola (TSS), anche dopo il primo incontro potrai sperimentare concreti benefici ed essere un passo più vicino alla soluzione del problema ed al benessere.
Il segreto è ampliare la consapevolezza, riconoscere i comportamenti disfunzionali e dannosi ed agire con più ampie possibilità di scelta, così da poter trasformare i momenti difficili e critici in occasioni di crescita individuale, relazionale e lavorativa.
Non esitare quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito www.onesession.it, il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
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Sono una Psicologa, specializzata in Dipendenze da sostanze, comportamentali (gioco d’azzardo, shopping, ecc) e relazionali (dipendenza affettiva). Sono formata all’utilizzo della Terapia a Seduta Singola (TSS) e della Terapia Centrata sulla Soluzione, per aiutare le persone a risolvere i loro problemi e tornare al benessere nel più breve tempo possibile, imparando a scoprire e sfruttare al meglio tutte le loro risorse.