L’arrivo di un figlio: mantenere gli equilibri
L’arrivo di un figlio è uno degli eventi più trasformativi nella vita di una persona, di una coppia e della famiglia in generale. Ogni nascita porta con sé un cambiamento profondo negli equilibri, nelle dinamiche relazionali e nei ruoli. Il nuovo assetto familiare infatti deve necessariamente adattarsi alle esigenze primarie del neonato e anche queste si modificano nel giro di pochi mesi e nei primi anni di vita. La coppia deve imparare a conoscere il bambino, i suoi bisogni e il modo in cui li esprime. Allo stesso tempo ciascuno dei due genitori deve ri-conoscere se stesso nel suo nuovo ruolo di caregiver ed educativo, il più delle volte senza avere già le competenze nel suo bagaglio di esperienze.
I genitori di oggi infatti arrivano all’evento della nascita molto spesso preparati su ogni dettaglio del parto, dell’allattamento e dello svezzamento. Seguono corsi preparto e leggono libri su come riconoscere il pianto del neonato. Si informano sulle tipologie di culla e di seggiolini e acquistano accessori per la preparazione di pappe naturali e per rendere il bagnetto un’esperienza rilassante per il bambino.
Tuttavia ben presto si scontreranno con una realtà ben più complessa di quella che avevano immaginato. La giornata sarà scandita dai ritmi di sonno-veglia del bambino, la mancanza di sonno e la stanchezza spesso comportano sbalzi di umore e l’imprevisto sarà all’ordine del giorno nell’organizzazione delle attività che una volta erano gestite con estrema facilità. Questi e altri cambiamenti concreti nella vita familiare impattano molto non solo sull’organizzazione di questa ma anche a un livello più profondo. A livello psicologico entrano in gioco aspetti emotivi e affettivi ma anche una riorganizzazione dei significati che genitori e coppie attribuiscono alla loro vita, al concetto di famiglia e ai ruoli genitoriali.
La nascita come riorganizzazione di significati
Secondo la prospettiva costruttivista, ogni genitore sviluppa una propria “griglia” di significati con cui interpreta il mondo. Quando nasce un figlio, queste griglie vengono messe alla prova. Per esempio, un padre o una madre possono trovarsi a rivedere ciò che pensavano su cosa significhi essere un genitore o su come dovrebbero comportarsi nel loro nuovo ruolo. In questo entrano in gioco anche le aspettative culturali e sociali e molte delle credenze con cui il genitore arriva al suo nuovo ruolo possono cozzare con la realtà con cui si scontra. È importante affrontare questi cambiamenti con apertura e flessibilità, evitando di irrigidirsi su schemi di pensiero che potrebbero non essere più funzionali.
Il mantenimento dell’equilibrio passa attraverso il dialogo aperto, la flessibilità e l’adattamento. Entrambi i partner devono essere pronti a ridefinire le proprie aspettative e a negoziare nuove modalità di interazione che riflettano la presenza del figlio. Questo processo non è solo individuale, ma anche collettivo: la coppia costruisce insieme nuovi significati e nuove narrazioni della loro vita condivisa e ciascuno deve imparare anche a conoscere il partner nel nuovo ruolo di genitore.
Il ruolo della famiglia allargata
Un altro punto importante da tenere in considerazione è che l’arrivo di un figlio non impatta solo sui genitori, ma sull’intero sistema familiare. D’improvviso le famiglie d’origine della coppia
genitoriale rivestono un ruolo diverso per loro e nella crescita dei figli. A volte si acuiscono delle dinamiche conflittuali che erano latenti, altre volte l’arrivo del bambino fa sì che si appianino le divergenze. La nascita di un bambino crea nuove dinamiche tra i membri della famiglia, e queste dinamiche devono essere osservate e comprese per mantenere l’equilibrio.
Una delle idee centrali dell’approccio sistemico è che ogni cambiamento in un membro del sistema influenzi l’intero sistema. Per esempio, le interferenze degli altri nell’educazione dei bambini possono influire sulla vita di coppia. E’ importante che i genitori mantengano i confini e i ruoli ben definiti. E’ fondamentale che i genitori affermino il proprio ruolo e la propria autorità genitoriale in modo chiaro e rispettoso. Dovranno stabilire limiti sani con le figure esterne, come i nonni, per proteggere l’equilibrio familiare. Sebbene il supporto dei nonni possa essere prezioso, è essenziale che i genitori restino i principali decisori riguardo l’educazione e la gestione del bambino. Questa protezione dei confini non riguarda tanto l’esclusione, quanto la creazione di uno spazio sicuro in cui i genitori possano sviluppare il proprio stile educativo senza interferenze o pressioni.
Strategie efficaci per gestire il cambiamento
La terapia strategica suggerisce che la chiave per mantenere l’equilibrio non sia evitare il cambiamento, ma gestirlo con soluzioni concrete e funzionali. Uno degli strumenti della terapia strategica è la capacità di individuare i “tentativi di soluzione disfunzionali”. Sono strategie che, pur essendo messe in atto per risolvere un problema, finiscono per mantenerlo o peggiorarlo. Ad esempio, uno dei problemi più comuni dopo la nascita di un figlio è lo sbilanciamento dei ruoli all’interno della coppia, dove uno dei due partner si sente sovraccaricato mentre l’altro potrebbe sentirsi escluso.
In questi casi, è bene incoraggiare l’individuazione di soluzioni alternative che interrompano il ciclo disfunzionale. Una soluzione può essere il delegare le responsabilità, creare momenti di condivisione della genitorialità. Ancora, ridefinire i ruoli all’interno della coppia in modo più equilibrato. L’importante è che la coppia non si fermi su schemi che non funzionano, ma sperimenti nuove modalità di interazione.
Come mantenere l’equilibrio
Mantenere gli equilibri con l’arrivo di un figlio richiede una combinazione di flessibilità, comunicazione aperta e collaborazione. I genitori devono essere pronti a rinegoziare continuamente i loro ruoli, a comunicare i propri bisogni in modo chiaro e a collaborare per trovare soluzioni che funzionino per tutti.
In definitiva, il segreto per mantenere gli equilibri di fronte a un evento così trasformativo sta nella capacità di adattarsi al cambiamento, senza temerlo. Sta nella volontà di costruire insieme una nuova realtà familiare, fatta di collaborazione, dialogo e comprensione reciproca.
Se anche tu stai affrontando la nascita di un figlio e pensi di non riuscire a gestire da solo questo cambiamento i professionisti di One Session sono pronti ad affiancarti in questa fase (clicca qui)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Nardone, G. (2012). Aiutare i genitori ad aiutare i figli. Ponte alle Grazie.
Nardone, G., Giannotti, E., & Rocchi, R. (2012). Modelli di famiglia. Ponte alle Grazie.
Roth Ledley, D. (2012). Il mio primo anno da mamma. Italia: Erickson.
Thomas, G. (1994). Genitori efficaci. Ed. La Meridiana.
Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.
Esperienze traumatiche: primi passi per uscirne
Le esperienze traumatiche possono avere un impatto devastante sulla vita di una persona, lasciandola vulnerabile e talvolta incapace di vedere una via d’uscita. Che si tratti di incidenti, disastri naturali o episodi di violenza, il trauma può mettere in discussione le nostre convinzioni, i nostri sentimenti di sicurezza e la nostra fiducia nelle relazioni, cambiando radicalmente il modo in cui vediamo noi stessi e il mondo attorno a noi. Le ferite invisibili lasciate da eventi traumatici possono manifestarsi in una vasta gamma di sintomi, e ogni persona reagisce in modo diverso, influenzata da fattori come il supporto ricevuto e le risorse personali.
Tuttavia, uscire dal tunnel del trauma è possibile. In questo articolo, esploreremo i primi passi fondamentali per iniziare il percorso di guarigione.
Riconoscere il dolore
Il riconoscimento del dolore è il primo passo fondamentale per uscire da esperienze traumatiche. Troppo spesso ci troviamo a negare, minimizzare o addirittura a cercare di cancellare quello che abbiamo vissuto, sperando che possa semplicemente svanire nel nulla.
Il trauma, tuttavia, lascia un’impronta profonda in noi, continuando a condizionare i nostri pensieri, emozioni e comportamenti anche quando cerchiamo di ignorarlo. Fingere che non sia mai accaduto, rischia solo di farci sentire ancora più soli e disconnessi dagli altri.
Accettare la realtà dell’esperienza traumatica, significa guardare in faccia ciò che abbiamo vissuto, senza cercare di nascondere o sminuire le nostre esperienze. Significa riconoscere il dolore e la sofferenza che abbiamo provato, senza giudizio o vergogna. È un processo doloroso e spaventoso, poiché ci chiede di confrontarci con eventi che abbiamo cercato di evitare, reprimere, dimenticare.
Ma solo accettando la verità di ciò che ci è successo possiamo cominciare a superarlo. Il riconoscimento del dolore è il primo passo verso la guarigione, perché ci permette di dare valore alle nostre esperienze e iniziare a elaborarle in modo sano e costruttivo.
Routine e cura di sé
Prendersi cura di sé stessi è fondamentale durante il percorso di guarigione da un’esperienza traumatica. Concedersi dei momenti di piacere e relax ci permette di rigenerare le energie, lenire le ferite e riprendere gradualmente fiducia in sé stessi.
Ci sono molte possibilità: ci si può rilassare leggendo un libro, fare una camminata nella natura o semplicemente godersi una tazza di tè caldo. L’auto-cura non è un lusso ma una necessità, soprattutto per chi è stato travolto da un’esperienza traumatica.
È inoltre importante stabilire delle routine nella propria vita quotidiana, che possono essere un faro di sicurezza e stabilità in mezzo alla tempesta del trauma. Sapere cosa ci si aspetta durante il giorno e avere dei moment fissi per svolgere determinate attività può ridurre l’ansia dell’incertezza e fornire un senso di controllo della propria vita. Le routine possono diventare una roccia preziosa, dando una struttura alla giornata e ricostruendo un senso d normalità.
La riscoperta e il potenziamento delle proprie risorse
Il terzo, fondamentale, passo per iniziare il processo di guarigione da un’esperienza traumatica è la riscoperta e il potenziamento delle proprie risorse interne. È come fare un viaggio dentro noi stessi per individuare le forze che possono guidarci verso la guarigione.
Spesso, dopo un’esperienza traumatica, ci si sente sopraffatti, distrutti, incapaci d far fronte alle sfide che la vita quotidiana ci presenta. Tuttavia, anche nei momenti più bui, ci sono risorse dentro di noi alle quali possiamo attingere e che possono aiutarci ad affrontare le difficoltà e la nostra sofferenza.
Riscoprire queste risorse, significa guardare dentro di noi con onestà, gentilezza e compassione, accettando ed onorando le nostre esperienze passate. E significa anche riconoscere che siamo stati in grado di affrontare situazioni difficili in passato e che abbiamo la capacità di farlo ancora una volta.
Una volta identificate, queste risorse possono essere potenziate e rafforzate. Questo ci darà la forza necessaria per affrontare le sfide che incontriamo lungo il percorso di guarigione. Ci permette di vedere oltre al trauma e di costruire una vita significativa e appagante, nella quale possiamo crescere e prosperare nonostante le nostre esperienze passate.
Affrontare un’esperienza traumatica richiede una grande dose di coraggio. Accettare il dolore, concedersi del tempo per sé stessi e riscoprire le proprie risorse sono passaggi cruciali verso la guarigione.
Anche se può sembrare un viaggio difficile, è possibile superare il trauma e ritrovare il proprio equilibrio.
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Riferienti bibliografici
Cagnoni F., Milanese R., (2009). Cambiare il passato. Superare le esperienze traumatiche con la terapia strategica. Ponte delle Grazie.
Calogero I. (Curatore) (2016). Dall’emergenza alla normalità. Strategie e modelli di intervento nella psicologia dell’emergenza. Franco Angeli.
Calogero I. (Curatore) (2018). Il trauma psicologico. Nuove frontiere di ricerca. Franco Angeli.
Ciao! Sono una Psicologa e Psicoterapeuta in formazione presso l’istituto ICNOS, sono iscritta all’Albo delle Psicologhe e degli Psicologi del Veneto (n.12680) e coordino una comunità per persone disabili.
Come ampliare la rete di relazioni
Le relazioni sono intrinseche alla natura umana. Scopriamo in questo articolo come ampliare la nostra rele di relazioni.
Relazioni sociali
Gli esseri umani sono plasmati dalle loro esperienze con gli altri.
Con il termine: relazione interpersonale (o relazione sociale) ci si riferisce al rapporto che intercorre tra uno o più individui; le relazioni si possono fondare sui sentimenti come l’amore, la simpatia e l’amicizia.
All’interno delle relazioni possono essere condivisi passatempi o impegni professionali e sociali.
Secondo la gerarchia dei bisogni di Abraham Maslow, gli esseri umani hanno bisogno di provare amore e accettazione da parte dei gruppi sociali. Le relazioni interpersonali sono sistemi dinamici che mutano continuamente durante la vita di ciascun individuo. Tendono a crescere e migliorare gradualmente così come possono deteriorarsi.
Uno dei modelli più influenti di sviluppo delle relazioni fu proposto dallo psicologo George Levinger. Egli sosteneva che lo sviluppo naturale di una relazione segue cinque fasi: conoscenza, costruzione, continuazione, deterioramento e fine.
Conosciamo attraverso le nostre esperienze pregresse e costruiamo la socialità attraverso la condivisione di interessi comuni. L’impegno reciproco fra le parti aiuta nella continuazione del rapporto. La fiducia è un elemento importante per sostenere la relazione. Può inoltre capitare che l’insorgenza di problematiche causi una discendenza di relazione che porterà poi alla fine del rapporto.
Relazioni: salute fisica e psichica
I legami sociali sani migliorano la nostra salute fisica e mentale.
Chi ha delle buone relazioni sociali tende a dare alla propria vita un senso e uno scopo.
Stare in buona compagnia migliora il tono dell’umore e mette in circolo i cosiddetti ormoni della felicità: endorfine e dopamina.
Le relazioni positive sono associate ad una serie di benefici tra cui:
- riduzione dello stress, dell’ansia e della depressione,
- aumento della resilienza, della creatività e della produttività,
- miglioramento della salute fisica
Strategie
Concentrati sui tuoi punti di forza. Sarà utile pensare alle proprie unicità e bellezze, questo eserciterà maggior sicurezza nella relazione con l’altro e un maggior controllo sulle proprie capacità relazionali.
Impara a praticare un confronto costruttivo. Utile comportamento da attuare nel gruppo. Pensare in modo flessibile alle opinioni altrui aumenta la curiosità nella scoperta dell’altro, ponete domande costruttive e non siate rigidi e fermi nelle vostre convinzioni, questo genera chiusura, mettetevi in discussione e siate accoglienti.
Coltiva gli interessi. Mettiti in ascolto dei tuoi bisogni e passioni. Crea momenti per poter condividere e sperimentare con motivazione i tuoi piaceri, aiuterà ad avere meno timore di conoscere luoghi e persone ed avrai più energia per intraprendere esperienze nuove.
Liberati dal pregiudizio e fidati. Osserva, ascolta, chiedi e sii incondizionatamente liberi da preconcetti. Un utile strumento di conoscenza è il dialogo. Esplorare l’altro conoscendolo nelle molteplici sfaccettature di azioni e comportamenti ti aiuterà a comprendere meglio la persona e fidarsi reciprocamente.
Amplia la capacità di ascolto. Non è necessario riempire il tempo della conversazione senza avere un obiettivo. Si può lasciare spazio agli altri ascoltando in modo attento per poter successivamente integrare con il proprio pensiero e le proprie esperienze.
Comunica in modo efficace. è un ulteriore strumento per integrarsi, sii chiaro ed esplicito nel linguaggio rispettando i turni di parola.
E ancora…
Essere flessibili e imparare a gestire gli imprevisti è utile per non sentirsi vittime di situazioni apparentemente insolite. Cercate quindi di comprendere al meglio ciò che accade senza essere impulsivi e di trarre conclusioni non adeguate con le realtà.
Uscire dal proprio egocentrismo è importante per avere un atteggiamento aperto ed accogliente, ognuno deve avere il proprio spazio ed è corretto rispettarlo. Invece di osservare te stesso, osserva gli altri.
Frequenta luoghi di aggregazione, avere stimoli dai contesti facilita la relazione e la ricerca di nuove amicizie, partecipa ad aventi locali restando informato e attivandoti.
Supera l’ostacolo del primo approccio e non fingere interesse ma sii te stesso sempre.
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Riferimenti bibliografici
https://www.psyeventi.it ( consultato in data 23/05/2024)
Levingerg, Development and Change in Close Relationships, New York, W.H. Freeman and Company, 1983, pp.315-359
https://www.guidapsicologi.it (consultato in data 23/05/2024)
Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262
Terapia a Seduta Singola per affrontare la timidezza
La timidezza può essere un ostacolo.
Ti è mai capitato di sentirti a disagio in situazioni sociali? O nell’incontrare altre persone?
Di avere paura del giudizio negativo degli altri?
Ti senti inadeguat* nelle situazioni sociali e questo ti genera sofferenza?
Hai mai avuto difficltà ad avviare una conversazione?
O a creare amicizie, ad innamorarti?
Se è così sappi che sei semplicemente una persona timida, come il 60% degli Italiani, del resto.
La timidezza è definita come l’incapacità di rispondere in modo adeguato alle situazioni sociali. Come ben saprai, se sei una perosna timida, la timidezza è caratterizzata da componenti affettive, cognitive e comportamentali.
Ma…Allarme spoiler! La timidezza non è né un disturbo, né un tratto di personalità, è semplicemente “un’incompetenza” nell’affrontare situazioni sociali.
C’è quindi un’ottima notizia per te!
Se infatti la timidezza è solamente una questione di mancanza di esperienza o di strategie efficaci allora basterà semplicemente apprendere nuove strategie e diventare un’esperto/a di situazioni sociali per cambiare le cose!
Ovviamente stiamo parlando del caso in cui la tua timidezza tenda a renderti la vita difficile: a crearti barriere personali, sociali, professionali e quindi a portarti un disagio significativo tanto da spingerti a voler affrontare la questione.
È sempre molto importante ascoltare i propri bisogni e migliorarsi per stare meglio. Quindi, in questo caso, può essere importante per te cercare nuove e diverse strategie per vivere in modo più sereno le situazioni sociali.
Infatti, in misura lieve, la timidezza è molto diffusa, dipende solo da te e da quanto essa impatta nella tua vita e da quanto vuoi concederti di stare meglio. In altre parole: come già detto, essa non è una patologia o una problematica di per sè, ma puo’ diventare un’ostacolo a livello soggettivo per la singola persona e le nostre necessità non vanno mai messe in secondo piano.
Cosa fai e sarebbe meglio non fare?
Se stai leggendo questo articolo, molto probabilmente, sei una persona timida. Può darsi che tu tenda spesso a focalizzare l’attenzione sul tuo mondo interiore: sui tuoi pensieri, emozioni e comportamenti. Questa è una delle Tentate Soluzioni che molto spesso infatti i/le timidi/e mettono in atto.
Mi spiego meglio. Se ti trovi ad una festa, da brava persona timida, ti concentrerai molto sui tuoi comportamenti e cercherai di pensare come essi possano essere considerati dagli altri, temendo fortemente il loro giudizio. Spenderai molte energie nel concentrarti sul disagio che provi, nel pensare a come potresti provarne meno. Ti farai domande come: “Sono nel posto giusto?”, “Sono giust* per questo posto?”, “Sono all’altezza?”, “Ho fatto bene a venire?”, “Penseranno che sto malissimo vestit* così?”. Queste ed altre domande simili sono focalizzate sul disagio emotivo che stai provando, sul tuo imbarazzo, sulla paura del giudizio degli altri e sulla tua sensazione di inadeguatezza. Tutte queste domande generano un circolo vizioso alimentando la tua ansia e la tua sensazione di disagio. Infatti più tenterai di sforzarti a risolvere tali interrogativi più te ne verranno inevitabilmente di nuovi : “Sono all’altezza? Beh se mi hanno invitata forse lo sono, ma allora perché mi sento a disagio? Non sono capace a gestire queste situazioni, ma cosa sbeglio?Sicuramente potrei vivermi la festa con più leggerezza, ma perché non ci rieco?…”.
Le Tentate Soluzioni Disfunzionali sono infatti quelle che attuiamo provando a risolvere le nostre difficoltà, ma quello che facciamo risulta inefficace o addirittura peggiora il problema.
In questo caso il cercare di controllare la situazione e il giudizio altrui ponendo molta attenzione ai prorpi comportamenti e ragionando sulle prorpie insicurezze porta solamente ad aumentare la timidezza e a non vivere con serenità la situazione sociale della festa.
Seduta singola: diverse strategie
Sicuramente non basterà importi di non pensare al tuo imbarazzo, alla paura del giudizio ed alla tua timidezza. Infatti più cercherai di sforzarti a non pensarci più ci penserai (paradosso del controllo che fa perdere il controllo).
Puoi però provare ad utilizzare la Tecnica della Distrazione. Quando ti accorgi, in una situazione sociale, di concentrarti troppo sul tuo mondo interiore prova a dedicati ad altro, ad attività che portino la tua mente altrove. Queste distrazioni possono essere diverse per ciascuno a seconda delle risorse che la persona ha in se stessa.
Se ti rendi conto di aver bisogno di un aiuto in più, puoi rivolgerti ad uno/a psicologo/a per una consulenza psicologiga sulla timidezza. Ciò ti permetterà di risparmiare tempo prezioso e cominciare ad attuare da subito un cambiamento funzionale e durevole nel tempo.
La metodologia a Seduta Singola può essere una delle metodologie efficaci per la tua timidezza. Infatti insieme allo/alla psicologo/a potrai evidenziare le tue risorse e lavorare fin dalla prima consulenza sulla tua timidezza e su delle strategie efficaci che potrai utilizzare nelle situazioni sociali, subito dopo la seduta, non permettendo più alla timidezza di averla vinta.
Infatti, la metodologia a Seduta Singola è caratterizzata da un agire concreto e focalizzato (a volte una singola seduta è sufficiente) ed ha dimostrato una notevole efficacia di intervento, sia nel breve che nel lungo periodo. Puoi anche pensare di ricercare una consulenza psicologica online che ha la stessa efficacia di quella dal vivo.
Pront* per la prossima festa?!
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Riferimenti bibliografici
Cannistrà, F., & Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti
Coles, M. E., & Horng, B. (2006). Social anxiety disorder. Comprehensive handbook of personality and psychopathology, 138.
Henderson, L., Zimbardo, P., & Carducci, B. (2010). Shyness. The Corsini encyclopedia of psychology, 1-3.
Nardone, G. (1993). Paura, Panico, Fobie. La terapia in tempi brevi. Milano: Ponte alle Grazie.
Watzlawick, P., Weakland, J., Fisch, R. (1974). Change. La formazione e la soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio, 1975.
Quando il perfezionismo ostacola lo studio
Il perfezionismo può sembrare un’ottima qualità quando si tratta di studio. Come vedremo in questo articolo, in realtà lo può ostacolare!
Difficoltà nello studio
Ad ogni livello di sviluppo possono esserci delle criticità che in modo insidioso potrebbero bloccare lo studente nello studio.
Indipendentemente dalla fascia di sviluppo nella quale lo studente si colloca, nella maggior parte dei casi, la difficoltà degli studenti non riguardi le capacità cognitive (memoria, apprendimento, intelligenza) o motivazionali (passione, interesse, etica o della famiglia), ma sia riconducibile alle strategie disfunzionali utilizzate nell’affrontare lo studio e la performance scolastica.
In altri termini, che sia proprio il trattamento errato delle difficoltà di studio a strutturarla in problema, contribuendo così a perpetuare un basso rendimento o a bloccare definitivamente la performance dello studente.
Durante la vita scolastica, la maggior parte degli studenti convive con delle difficoltà che riesce a tollerare e a superare.
Avere una difficoltà nello studio non si traduce necessariamente in un blocco. Quando però la difficoltà diventa insuperabile si trasforma in problema.
Pefezionismo
Il perfezionismo scolastico può essere un problema.
La precisione, la meticolosità, la dedizione e l’aspirazione a un buon successo scolastico sono qualità elogiabili in qualsiasi studente. Significano impegno e coinvolgimento.
I problemi sorgono quando l’impegno diventa pedanteria, e l’applicazione si trasforma in un controllo asfissiante, motivato più che dal piacere della conoscenza dalla paura di sbagliare.
E’ infatti la paura di commettere errori, di non mostrarsi all’altezza delle richieste dei genitori e degli insegnanti, di non essere considerati “capaci” oppure di non corrispondere ad un ideale interiore di eccellenza.
Per esigenze perfezionistiche nello studio si intende una ricerca ossessiva di completezza, esaustività, impeccabilità. Se spinta all’estremo, più ci si impegna ad avere tutto sotto controllo, più si finisce per perderlo.
L’attenzione data ai compiti da svolgere a casa è maniacale. Programmazione, esecuzione, controllo diventano attività asfissianti nelle quali viene spesso coinvolto anche il genitore.
Inoltre vengono evitate attività ludiche o sportive perché vissute con angoscia togliendo del tempo allo studio.
Un ulteriore esito dell’eccessivo perfezionismo scolastico è lo sviluppo di “inspiegabili” crisi di nervosismo. Le crisi si esprimono sotto forma di pianti immotivati, attacchi di panico o rabbia e diventano ben presto un modo per accentrare tutta la famiglia attorno al proprio figlio generando una forte apprensione scolastica.
Frequenti somatizzazioni, mal di pancia, sintomi (pseudo)neurologici di vario tipo, mal di testa, iperacusie, disturbi della vista, vengono lamentati come causa di malessere che porta all’esplosione.
Come migliorare
Per un miglioramento efficace il primo passo è diventare consapevoli delle proprie risorse e capacità. Sarà utile imparare a comprendere le proprie competenze ripensando alle esperienze in cui siamo riusciti a superare una difficoltà oppure abbiamo messo impegno e dedizione al raggiungimento di un obiettivo.
Il confronto con gli altri deve essere agito in ottica positiva e propositiva. E’ possibile osservare e trarre delle corrette considerazioni su esperienze altrui con il fine di poterci stimolare a fare meglio. Per esempio apprendere delle strategie nuove nelle modalità di preparazione di un esame, oppure nell’organizzazione di compito importante.
Focalizzarsi sui piccoli passi di un miglioramento aiuta a cambiare la prospettiva del nostro pensiero critico, invece di focalizzarsi sulla perfezione ci si può concentrare sul progresso.
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Riferimenti bibliografici
Bartoletti, A. (2021). Lo studente strategico. Milano: Ponte delle Grazie
Cornoldi C., De Beni R., Gruppo MT (2008). Imparare a studiare 2. Trento: Erickson
Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262
Il workaholism: la dipendenza da lavoro
Dipendenza da lavoro: il lavoro può diventare una malattia
Quando si parla di stress e in particolare di stress correlato al lavoro è necessario riferimento ad alcune caratteristiche individuali centrali nella genesi del processo di stress. I fattori di rischio psicosociale svolgono un ruolo principale e predominante nel favorire lo sviluppo di patologie stress lavoro-correlate. Tuttavia, la letteratura sta evidenziando sempre di più come anche alcune caratteristiche individuali giochino un ruolo non trascurabile.
Questi fattori individuali sono considerati centrali in quanto in grado di modificare la relazione tra gli stressors (le fonti di stress a cui siamo esposti) e le reazioni negative allo stress (definite in letteratura strain, cfr. Quillian-Wolever e Wolever, 2003).
Caratteristiche individuali e risposta allo stress
Tra i fattori di vulnerabilità di cui si trova maggior riscontro in letteratura, il primo ad essere stato studiato e descritto è il Comportamento di tipo A. Questo è stato attenzionato per la prima volta verso la fine degli anni 50 per opera di due cardiologi che avevano iniziato a condurre una serie di osservazioni su dei pazienti coronarici (Friedman & Rosenmann, 1974).
I due medici definirono il Comportamento di tipo A come un insieme di comportamenti e stati affettivi osservabili in tutte quelle persone impegnate incessantemente e senza sosta. Queste sono persone accomunate da caratteristiche come l’ambizione, la competitività, la spinta al successo, l’impazienza, l’aggressività, l’ostilità e il senso di urgenza del tempo.
Un altro fattore di vulnerabilità individuale che ha dei punti in comune con il Comportamento di tipo A è il Workaholism. Esso può essere definito come una sorta di “spinta interna irresistibile e irrefrenabile a lavorare in maniera eccessivamente intensa” (Schaufeli, Taris & Bakker, 2008).
L’interesse per questa caratteristica individuale è cresciuto sempre di più negli ultimi 20 anni circa, tanto nell’ambito clinico che in quello occupazionale.
Workaholism: conosciamolo meglio
Da un punto di vista clinico il Workaholism può essere considerato come una vera e propria dipendenza patologica, pur non essendo formalmente contemplata come tale nei principali manuali diagnostici e statistici dei disturbi mentali. L’interesse per questa caratteristica individuale è stato guidato soprattutto dall’obiettivo di mettere a punto degli strumenti di screening e intercettazione del fenomeno.
Un primo trattodistintivo delle persone dipendenti dal lavoro è che generalmente rimangono impegnate nelle attività lavorative molto più di quanto formalmente richiesto o necessario. Alcuni studi hanno evidenziato che in alcuni casi l’attività lavorativa può protrarsi anche per più di 60 ore settimanali (Brett e Stroh, 2003).
La diretta conseguenza di questo iper-coinvolgimento nell’attività lavorativa porta queste persone a trascurare massicciamente le altre sfere della loro vita.
Tuttavia, il lavoro eccessivo non è l’unica caratteristica che definisce il Workaholism. Ci sono persone, infatti, che possono lavorare molto pur non essendo dipendenti dal lavoro. Ad esempio, per momentanei problemi finanziari oppure per la possibilità di sviluppo della propria carriera.
Nel caso di dipendenza dal lavoro vi è una vera e propria ossessione irresistibile e irrefrenabile nei confronti del lavoro. Essa impedisce alla persona di riuscire a staccare e a fermarsi.
Altri studi hanno portato alla luce come le persone dipendenti dal lavoro tendano ad essere disordinate, estremamente rigide e con evidenti difficoltà a delegare i compiti. Questo spesso le porta a rendere le cose più complicate del necessario e ad avere anche frequenti difficoltà relazionali con i propri colleghi (Van Wijhe, Peeters & Schaufeli, 2010).
I rischi del workaholism
Il Workaholism, dunque, si configura come un vero e proprio fattore di rischio per la salute individuale. Esso predispone lo sviluppo di stress lavoro-correlato, burnout, problematiche psicosomatiche e disturbi d’ansia.
Altrettanto evidenti risultano essere le difficoltà nella vita familiare, personale e relazionale delle persone dipendenti dal lavoro. In casi estremi, possono avere una vita sociale estremamente ritirata se non optare per un vero e proprio isolamento.
La ricerca scientifica sul Workaholism è comunque ancora aperta e sarà necessario che i prossimi studi indaghino ancora più nel dettaglio le correlazioni tra la dipendenza dal lavoro e tutte le problematiche connesse allo stress.
Se senti di non essere in grado di trovare un equilibrio tra lavoro e vita privata, chiedi aiuto a One Session: puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
Fraccaroli, F., Balducci, C. (2011). Stress e rischi psicosociali nelle organizzazioni, Il Mulino: Bologna.
Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile
Terapia a Seduta Singola per la paura della macchina
Hai paura della macchina?
Non sei il/la sol* è una paura molto più diffusa di quello che si crede.
Il 33% della popolazione ha questa paura!
Si chiama Amaxofobia (da amaxos, in greco: carro) e consiste nel provare ansia quando si è in un veicolo. Sia che si debba guidare o no quest’ultimo.
È molto variabile di intensità a seconda della persona. Può infatti non riguardare solamente la macchina, ma anche l’autobus, il treno o l’aereo.
Si manifesta con i sintomi tipici dell’asia, come tremore, sudorazione, fino ad arrivare a volte ad attacchi di panico.
È quindi spesso limitante per la vita, rendendo alle volte difficile o addirittura impossibile non solo guidare ma anche stare in una macchina.
Potrebbe derivare da esperienze che tu o qualcuno che conosci ha vissuto in auto e che ti hanno colpito molto. Infatti è normale e utile evitare pericoli di cui siamo a conoscenza direttamente o indirettamente. La paura è una grande alleata dell’uomo! Diviene però una spiacevole compagna quando “esagera” e come un’amica troppo premurosa, si attiva e ti attiva anche quando non sarebbe necessario. È in quel caso che la chiamiamo fobia o ansia.
Molte persone oltre alla paura della macchina hanno altre forme di ansia come l’agorafobia o gli attacchi di panico.
L’agorafobia è un’intensa paura di alcune situazioni come utilizzare i mezzi pubblici, stare in spazi aperti, o in spazi chiusi, come l’auto stessa.
Gli attacchi di panico sono caratterizzati da improvvisa paura intensa, senza un apparente pericolo, che raggiunge il culmine in breve tempo. Si manifestano con sintomi somatici come sudorazione, palpitazioni, tremori, sensazione di soffocamento, dolore al petto, vertigini, nausea, brividi, formicolii e sintomi psicologici come paura di perdere il controllo e/o di morire. Tali sintomi sono molto vari e differenti da persona a persona.
Cosa fai e sarebbe meglio non fare?
A volte proviamo a risolvere le nostre difficoltà, ma quello che facciamo è inefficace o addirittura peggiora il problema (in gerco tecnico si chiamano Tentate Soluzioni Disfunzionali).
La tentata soluzione che spesso chi ha paura di guidare o di salire in macchina utilizza è l’evitamento, cioè evitare ciò che fa loro paura. Questo a seconda dell’Amaxofobia può essere differente, c’è chi non sale in un veicolo o usa altri mezzi di trasporto, ma non la macchina, c’è chi non riesce a guidare da solo, chi non riesce a guidare in autostrada, ma solo in caso di tragitti brevi e conosciuti…
Questa strategia però ha come conseguenza a lungo termine di aumentare sempre di più le situazoni temute e quindi evitate, limitando sempre di più la vita. Quindi, ad esempio, potrebbe accadere che chi prima evitava solamente di guidare la macchina in autostrada, poi tenderà ad evitare di guidare anche nelle statali e via dicendo. Portando così a un circolo vizioso. Infatti più si evita più diventa difficlie affrontare la nostra paura e più questa paura tenderà a diventare più grande ed estesa a più ambiti. Pensate ad esempio ad un bambino che per la prima volta bagna i piedini nel mare, ha paura e si allontana, probabilmente la volta successiva il bambino non arriverebbe neppure a riva per il timore. Se invece nella stessa situazione il bimbo restasse a bagnarsi questo si accorgerebbe che non gli è successo nulla, che è in grado di farlo e non ne avrebbe più paura.
Altra tentata soluzione tipica è la ricerca di supporto degli altri, come appunto chi guida solamente in compagnia, per sentirsi protetto, rassicurato, meno sol*. Questo comportamento, però, può diventare limitante, poiché la persona si affida completamente ad altri e non sviluppa le proprie capacità di autoaiuto.
Cosa puoi fare di diverso?
La metodologia a Seduta Singola può essere una delle metodologie efficaci per evidenziare le proprie risorse e creare, insieme all* psicolog* delle strategie efficaci ed autonome per gestire/risolvere l’Amaxofobia.
Infatti, la metodologia a Seduta Singola è caratterizzata da un agire concreto e focalizzato ed ha dimostrato una notevole efficacia di intervento, sia nel breve che nel lungo periodo.
La Consulenza a Seduta Singola permette, fin dal primo incontro, di affrontare il problema dell’Amaxofobia.
Si lavora su come la paura della macchina funziona per te nello specifico, cercando di identificare in quali circostanze specifiche e con quali modalità si presenta per te. Insieme all* psicolog* si indaga cosa hai provato a fare finora per affrontarlo, quando ha funzionato e quando no. In questo modo sarà possibile provare da subito a fare qualcosa di diverso per cambiare le cose. Ad esempio nell’approccio strategico è utilizzata la ristrutturazione strategica tramite la quale ci si serve proprio della paura per cambiare un effetto che la paura stessa ha prodotto.
Chiedere da subito un aiuto ad uno specialista per l’Amaxofobia permetterà di risparmiare tempo prezioso e cominciare ad attuare un cambiamento funzionale e durevole nel tempo.
Prenota il tuo colloquio gratuito con gli psicologi di OneSession.it: puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association (2013), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi Mentali, Quinta edizione (DSM-5), trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2014.
Cannistrà, F., & Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti
Nardone, G. (2000). Oltre i limiti della paura. Milano: BUR
Nardone, G. (2007). Paura, panico, fobie. Il trattamento in tempi brevi. Milano: TEA – Tascabili degli Editori Associati
https://www.auxologico.it/vincere-paura-guidare-amaxofobia-laiuto-psicologo
Critiche costruttive e distruttive: come imparare a criticare
Tutti quanti abbiamo avuto almeno un’esperienza in cui abbiamo ricevuto qualche critica e, quando questa è stata troppo diretta, offensiva o svalutante, sarà stata sicuramente poco gradita. Talvolta alcune critiche possono essere così sprezzanti da rimanere impresse nella nostra memoria a lungo o rappresentare quasi delle sentenze che ci hanno segnato l’esistenza.
Perché la critica è difficile da digerire?
Perché se non è ben posta può essere percepita più come un giudizio che come una critica. Ma dove sta la differenza? Il giudizio esprime quello che si reputa di una persona o addirittura può richiamare una morale a cui attenersi. La critica invece implica sì una valutazione ma riguarda più il comportamento, le azioni o i fatti piuttosto che l’identità della persona.
Ecco che già questa impercettibile denotazione può essere un valido aiuto nel formulare una critica.
Infatti, saremo stati sicuramente anche noi qualche volta “giudici” di qualche comportamento, situazione o peggio, di qualche persona! E così come non ci piace ricevere critiche distruttive, dobbiamo a nostra volta metterci in discussione per capire se sappiamo formulare una critica in modo da non ferire o sminuire l’altro. Vediamo come!
Le critiche distruttive
La critica distruttiva è una critica che mira a svalutare la persona, tende a sottolineare gli errori e i difetti piuttosto che il margine di miglioramento, e a volte può essere offensiva se si usano toni sarcastici e denigratori. Questo tipo di critiche lascia un senso di frustrazione nella persona che può sentirsi umiliata, svalutata e demoralizzata. Alcuni modi di esprimersi possono addirittura ledere l’autostima dell’altro.
Uno dei modi per capire subito se una critica è stata posta nel modo sbagliato è fare caso al verbo usato: molto spesso una critica distruttiva comincia con “sei…”, andando quindi a giudicare la persona e la sua identità, piuttosto che il suo modo di comportarsi. “Sei un incapace!”, “Sei un disastro!”, “Sei proprio un insensibile”.
Un altro modo di porre le critiche malamente è quello di usare un linguaggio perentorio e disfattista, usando le negazioni e gli assolutismi: “Non farai mai nulla di buono nella vita!”, “Sei il solito scansafatiche!”, “Guarda cosa hai fatto! Combini sempre pasticci!”
Questo modo di esprimersi non lascia infatti alcuna possibilità di cambiamento e miglioramento e, specie se ripetuto, può incrinare la sicurezza e il potere di agire efficacemente per il proprio futuro. Attenzione quindi a usare certe espressioni con persone sensibili, come i bambini e le persone che vivono un momento di fragilità.
Le critiche costruttive
La critica costruttiva è al contrario una critica che esprime un parere con l’obiettivo di aiutare la persona a crescere e a migliorare. Si tratta quindi di un giudizio non di valore, mosso con riguardo e rispetto verso la persona, aspettandosi quindi che possa fare meglio considerando le sue attitudini e le sue risorse. Il termine costruttiva infatti lascia intendere che ci sia dietro un atteggiamento positivo, volto a incoraggiare e motivare la persona a fare di più. Questo implica che prima di aprire bocca abbiamo in mente di costruire nuove possibilità facendo la nostra critica, che sì, abbiamo notato un limite o una difficoltà nell’altro, ma non per questo lo azzeriamo. Quando una critica è ben posta infatti, può lasciare nella persona che la riceve un senso di fiducia e speranza che le cose possano cambiare.
Come imparare a fare una critica
Un modo per imparare a porre critiche costruttive è quello di individuare un punto di forza nella persona a cui abbiamo da dire qualcosa: sottolineare un errore ad esempio tenendo conto delle risorse che la persona ha, può aiutarci a costruire frasi come: “Ho notato che hai fatto fatica in questa situazione, ma credo che grazie alla tua tenacia saprai trovare una soluzione per andare avanti”.
Tutti infatti hanno delle capacità che spesso sono sottovalutate anche dall’individuo stesso, venire riconosciuti anche per queste capacità gioca un punto a favore dell’autostima e della motivazione al cambiamento.
Inoltre, come abbiamo accennato, la critica costruttiva si concentra sui comportamenti e sulle azioni: esse sono finalizzate a offrire suggerimenti concreti per migliorare. Ad esempio “Penso che potresti migliorare se facessi così”, oppure “Voglio aiutarti a raggiungere il tuo obiettivo: cosa ne pensi di questo suggerimento?”. Occhio però a non dare troppi consigli non richiesti: questo può far sentire la persona incapace di trovare da sola una strategia.
Per ovviare a questo, possiamo far uso di domande nelle quali chiediamo il parere o il punto di vista di chi abbiamo di fronte.
Un altro punto da tenere in conto quando formuliamo una critica è il contesto: prima di muovere una critica è necessario considerare le circostanze e il vissuto della persona, valutare l’ambiente in cui siamo, se in pubblico o in una situazione privata, immaginare che la persona possa vivere delle difficoltà transitorie e ammettere che, anche se conosciamo bene quella persona, non possiamo sapere tutto quello che gli passa per la testa né le motivazioni che l’hanno spinta ad agire in quel modo.
Come reagire alle critiche
E quando siamo noi l’oggetto della critica, come possiamo reagire al meglio?
Innanzitutto ricordiamoci che la nostra autostima e il nostro valore non dipendono dal giudizio degli altri. Se una critica ci sembra troppo tagliente e distruttiva, chiediamoci se c’è qualcosa di vero in quello che ci viene detto. Se la risposta è negativa, consideriamo che quella critica così mal posta ci dice qualcosa piuttosto su chi ce la muove, che su di noi.
Se riceviamo invece una critica costruttiva, ascoltiamo attentamente cosa ci dice quella persona e ringraziamo per il feedback ricevuto. Rifletti poi su quel suggerimento chiedendoti in che modo può esserti utile: se può aiutarti a imparare e a crescere, prendi spunto dal feedback per migliorarti. Una certa dose di umiltà e flessibilità è infatti sinonimo di intelligenza e saggezza.
In conclusione, saper fare delle critiche con rispetto è una abilità che fa parte della comunicazione assertiva, quel tipo di comunicazione che ha un atteggiamento partecipe e non in contrapposizione con l’altro. La critica sortisce il suo effetto se fatta con amicizia e riguardo. Per questo è importante anche ascoltare attentamente l’altro dopo che gli abbiamo fatto una critica, capire le sue ragioni e metterci sempre in discussione con un atteggiamento propositivo.
Riferimenti bibliografici
De Panfilis, A. & Romeo, P. (2020) La cultura del feedback: Dare e ricevere feedback con efficacia ed eleganza per stimolare lo sviluppo professionale ed organizzativo. Fym.it
Nardone, G., & Salvini, A. (2010). Il dialogo strategico. Ponte alle Grazie.
Thomas, G. (1994). Genitori efficaci. Ed. La Meridiana.
Treccani.it – Vocabolario Treccani on line, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana. URL consultato il 14 marzo 2024.
Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.
La Terapia a Seduta Singola per gestire la rabbia
“Ho visto tutto rosso/nero dalla rabbia”
“Ho perso il lume della ragione e sono andato su tutte le furie.”
“Mi ribolliva il sangue dalla rabbia.”
“Andare in escandescenze.”
Questi sono modi di dire che tutti conosciamo e spesso sentiamo dire quando, di solito a posteriori, viene raccontato il momento in cui si perde il controllo e si va in collera.
La rabbia viene comunemente considerata come una emozione negativa e spesso, fin dall’infanzia viene rimandato ai bambini che non è lecito esternalizzarla. In realtà tutti hanno provato almeno una volta cosa vuol dire alterarsi e provare ira, è un’esperienza umana naturale che a volte ha delle valide ragioni: subire un torto o sentirsi feriti da qualcuno. Altre volte a farci arrabbiare è una situazione stressante o frustrante, un imprevisto o qualcosa che ci aspettavamo andasse in un certo modo e che poi è disatteso.
Alcune persone sperimentano raramente quest’emozione prorompente, altri si sentono arrabbiati per la maggior parte del tempo. Ciò che rende problematica la rabbia è quando diventa incontrollabile e può portare a rovinare i rapporti con gli altri o a comportamenti dannosi per sé o per chi la subisce.
Infatti, avere a che fare con persone in collera non piace a nessuno e anche per questo motivo la rabbia rappresenta una delle problematiche per cui le persone si rivolgono allo psicologo.
Cos’è la rabbia
La rabbia è un’emozione basilare come la paura, la tristezza e la gioia e come tutte le altre emozioni ha una sua utilità e funzione. Come la paura, la rabbia comporta una attivazione fisiologica che prepara il corpo a reagire: aumento del battito cardiaco, della pressione del sangue e rilascio di ormoni come adrenalina e cortisolo. Questa attivazione permette infatti di reagire prontamente a situazioni che percepiamo come frustranti, come assistere a un’ingiustizia o sentirci attaccati, sminuiti o non considerati. In questi casi la rabbia, se ben canalizzata, può essere uno stimolo a ribellarsi o a difendere i propri bisogni.
Ci sono però casi in cui la rabbia se mal espressa può essere disfunzionale, perché può potenzialmente sfociare in violenza o sfoghi di aggressività verso gli altri o verso se stessi.
Nel nostro immaginario le persone arrabbiate esternano la loro rabbia urlando o esprimendo aggressività ma anche l’eccesso di controllo può essere motivo di malessere. La rabbia repressa infatti può portare conseguenze anche psicosomatiche importanti.
Quando rivolgersi a uno psicologo
Sebbene si tratti di un’emozione universale, alcune persone trovano difficoltoso gestire la rabbia o esprimerla in modo costruttivo. A volte ci si accorge di questo quando ci rendiamo conto che le nostre relazioni si stanno deteriorando per colpa delle nostre manifestazioni di collera.
O quando sentiamo che pur controllandola siamo come una pentola a pressione che prima o poi esploderà. Anche i comportamenti autolesionisti possono rappresentare un campanello di allarme.
Stando a quanto detto, i nostri tentativi di controllo sono spesso disfunzionali e sappiamo bene quanto sia inutile sentirsi dire “calmati!” durante gli scatti d’ira.
E’ molto comune credere che bisogna sfogare fisicamente questa emozione prorompente (ad esempio spaccando qualcosa o prendendo a pugni un oggetto).
Oppure ignorarla del tutto fingendo autocontrollo ma se nel breve periodo possiamo sentire un lieve sollievo, a lungo andare non abbiamo risolto affatto il problema.
Allora cosa fare?
Attraverso la terapia a seduta singola è possibile trovare delle utili strategie per gestire la rabbia. Questo metodo infatti si presta alla risoluzione di questo problema che affligge molti.
Infatti, attraverso un’analisi di come il problema si esprime concretamente per te, il terapeuta può aiutarti a individuare delle strategie specifiche costruite ad hoc per te.
Mettendo in luce le situazioni che potenzialmente possono scatenare la rabbia diventerai più consapevole di quali possono essere i campanelli di allarme che ti possono portare a sfoghi eccessivi.
Il suo obiettivo sarà anche quello di riconoscere ed evidenziare le tue personali capacità.
Grazie ai tuoi punti di forza potrai affrontare con maggior empowerment le situazioni frustranti che non sempre possiamo prevedere o controllare.
In tal senso si andrà ad individuare quali sono le eccezioni che si sono verificate o si verificano alla manifestazione di rabbia eccessiva.
Sulla base di queste è possibile ravvisare le tue personali risorse da mettere in campo una volta usciti dalla stanza dello psicologo.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, gli psicologi di OneSession.it ti offrono la possibilità di prenotare un primo colloquio gratuito. Per prenotare il tuo incontro, puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
Cannistrà, F., & Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Giunti Editore Firenze. Flanigan P.K. (2023) Strategic ways to control your anger. https://www.agegracefullyamerica.com/strategic-ways-to-control-your-anger/ [consultato in data 30/11/2023]
Novaco & Di Giuseppe (2011) Strategies for controlling your anger: Keeping anger in check https://www.apa.org/topics/anger/strategies-controlling [consultato in data 30/11/2023]
Psicologa clinica, mi occupo in particolare di età evolutiva e sostegno alla genitorialità.
Come cambia la coppia dopo l’arrivo di un figlio?
Cambiamento
La transizione, come sempre, porta con sé una crisi. Tale crisi non è necessariamente sinonimo di problema o di patologia. Ma è sinonimo di cambiamento. E il cambiamento, quasi sempre, implica possibilità e rischi.
La nascita di un figlio crea una nuova condizione psicologica. Questa, inevitabilmente, coinvolge il singolo ma anche la coppia.
Mamma e papà vivono in modo individuale l’evento e si preparano già durante la gravidanza a diventare genitori.
In questo periodo di progressivo adattamento la coppia comincia a modificarsi ma è nel momento della nascita che tutto cambia in modo “ufficiale”.
Ciò che era pensato ora diventa concreto.
L’arrivo di un figlio in ogni caso è un momento stressante, non in senso negativo ma come descrizione di un periodo di transizione che inevitabilmente crea fatiche e potenziali rischi.
Durante i primi mesi l’equilibrio fra i partner si modifica. La diade madre-bambino si innesta significativamente fra la coppia poiché il neonato richiede un forte impegno (allattamento, ritmo sonno-veglia).
La fatica sperimentata a livello fisico e psicologico può portare ad un umore negativo, tristezza e irritabilità.
Durante questa fase il rischio è che il padre avverta una distanza sempre maggiore dalla coppia e dalla compagna e dal figlio con il rischio di un isolamento familiare.
Il tempo libero che prima veniva condiviso dalla coppia si modifica per dare spazio al figlio oppure al riposo. Dunque in modo drastico vengono ridotti i momenti di piacere e svago.
Da un punto di vista organizzativo tutto cambia, i tempi del neonato non sono i tempi della coppia. Questo genera una sensazione di “perdita di controllo sulla propria vita” e dispercezione dei carichi di lavoro e impegno profuso.
Queste fatiche possono generare potenziale conflittualità all’interno della coppia e una diminuzione di dialogo e complicità.
In alcuni casi avere le famiglie di origine distanti e non poter contare su un aiuto esterno rende tutto molto più complesso e si sperimenta la solitudine.
Infine le coppie sono talvolta vittime di una società che rimanda l’idea che i neogenitori siano prestanti, reperibili al lavoro nell’immediatezza, avere un’abitazione sempre ordinata ed accogliente per ospiti.
Questa idea genera una pressione significativa che fa perdere il focus della coppia su ciò che è importante e prioritario ovvero cominciare a conoscere il “nuovo arrivato” e costruire con lui una relazione.
Fattori protettivi
Per essere più pronti come coppia prima del lieto evento bisogna avere-trovare un buon equilibrio.
È importante che i partner cerchino di adottare una visione realistica della loro futura vita a tre, Cercando di documentarsi.
E’ buona norma abbandonare una visione unicamente romantica di quella che sarà la loro vita futura prendendo in considerazioni più variabili.
E’ utile, ad esempio, riorganizzare la nuova distribuzione dei compiti, in considerazione dei nuovi impegni a cui ciascuno inevitabilmente andrà incontro.
Così, in una coppia ognuno darà il suo contributo in modo particolare sui compiti domestici. Ognuno dovrà fornire la propria collaborazione per cercare di alleviare la fatica iniziale, soprattutto nei primi anni.
E’ importantissimo lasciarsi uno spazio di dialogo affinché il confronto sia continuo anche nei momenti più duri. Il rischio è quello di sentirsi sempre più distanti, con l’inevitabile accumulo di gelosie e possibili rancori.
Strategie
- Impegnarsi a trovare del tempo per la coppia.
La coppia dovrebbe vivere questo spazio come un appuntamento (quotidiano, settimanale ecc.) irrinunciabile da pianificare a tutti i costi.
- Perdonarsi per le proprie paure.
Avere paura di mettere al mondo un figlio e di accudirlo è la cosa più normale del mondo. Non c’è nulla di patologico nell’avere paura, essa ci serve per mettere in campo tutte le nostre risorse per svolgere al meglio i compiti difficili. Serve per muoverci con cautela e prestare la giusta attenzione su ciò che stiamo facendo.
- Chiedere aiuto
Quando il peso dei problemi e delle difficoltà quotidiane diventa insostenibile è bene allentare la tensione e lasciarsi aiutare. Chiedere aiuto non deve rappresentare una sorta di fallimento. In altri casi la coppia può temere di essere di peso se chiede aiuto e così facendo si priva della possibilità di scoprire che a volte genitori, amici e parenti sono ben contenti di rendersi utili.
- Incoraggiarsi a vicenda sostenendosi nelle fatiche del quotidiano, utilizzare un linguaggio positivo e propositivo.
- Allenare la socialità e le relazioni esterne.
Siete una coppia con un figlio in arrivo e avete bisogno di un aiuto in più?
Potete chiedere aiuto a One Session! Vi basta inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
https://www.guidapsicologi.it/articoli/equilibri-di-coppia-dopo-la-nascita-di-un-figlio (consultato in data 17/11/2023)
https://www.mammasuperhero.com/il-rapporto-di-coppia-dopo-un-figlio-cosa-fare-e-cosa-evitare/ (consultato in data 17/11/2023)
https://www.parentube.it/blog/diventare-genitori/coppia-figlio/ (consultato in data 17/11/2023)
Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262
Affrontare il rimuginio con uno schiocco di dita
Chi di noi non ha mai sperimentato il tormento del rimuginio, quel vortice di pensieri che si ingarbugliano tra di loro, alimentando preoccupazioni che sembrano non voler dare tregua?
Il rimuginio è un fenomeno comune che coinvolge la ripetizione ossessiva di pensieri negativi o preoccupazioni, spesso legate a esperienze passate o preoccupazioni future.
Questi pensieri possono riguardare esperienze passate, in cui ci colpevolizziamo o rimpiangiamo scelte fatte, oppure preoccupazioni future, in cui ci concentriamo sulle peggiori ipotesi e temiamo il peggio.
Il rimuginio può avere un impatto significativo sulla nostra salute mentale e sul benessere generale.
Effetti del rimuginio sulla nostra salute mentale
Il rimuginio eccessivo può avere una serie di impatti negativi sulla nostra salute mentale e fisica. Ecco alcuni di essi:
- Dissociazione: Essere costantemente immersi nella nostra mente ci allontana dalla realtà. Questo può portare a fenomeni di depersonalizzazione o derealizzazione.
- Depressione: persi nei nostri pensieri, non ci accorgiamo della vita lì fuori. Se non interrotto per tempo, il rimuginio ci porterà a perderci i bei momenti della nostra vita, e a ritirarci da tutte le esperienze che potremmo fare.
- Difficoltà nel Concentrarsi: essere immersi nei pensieri può interferire con la nostra capacità di concentrarci sul presente, riducendo la nostra produttività e la qualità del lavoro svolto.
Risolvere il rimuginio con uno schiocco di dita
Esiste una tecnica semplice, ma non facile, per risolvere il rimuginio.
Si tratta di schioccare le dita.
Lo scopo principale per stoppare i continui pensieri sarà quello di imparare a distogliere l’attenzione dai pensieri assorbenti, e riportarla nel qui ed ora.
Ogni volta che ti rendi conto di essere immerso nei tuoi pensieri, quindi, schiocca le dita, invita la tua attenzione a “tornare qui” e focalizzala su quello che di concreto ti circonda.
Poco dopo sei nuovamente immerso nei pensieri? Schiocca di nuovo le dita, commentando con un “Torna qui!”.
Hai abituato la tua mente ad agganciarsi ai pensieri, il lavoro sta nell’allenarla a sganciarsi.
E l’allenamento richiede impegno costante.
Se stai vivendo un problema di rimuginio persistente, puoi chiedere aiuto a One Session! Puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
www.lostudiodellopsicologo.it/disturbi/un-martello-pneumatico-come-fermare-il-rimuginio-ossessivo/
Bartoletti, A. (2019). Pensieri Brutti e Cattivi: Ossessioni tabù: Come Liberarsene. Angeli.
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
One Session Center: il cambiamento in una sola seduta
Fin dal suo lancio nel 2019, One Session ha trasformato la vita di centinaia di individui, offrendo loro un’esperienza tangibile di crescita personale.
I terapeuti di One Session sono tutti formati in Terapia a Seduta Singola (TSS).
Grazie a loro otterrai un aiuto mirato, ricevendo soluzioni personalizzate.
La Terapia a Seduta Singola è più che una semplice conversazione.
Rappresenta un’opportunità per scoprire nuove prospettive e sviluppare competenze. Potrai trasformare il tuo modo di vedere il mondo e la tua capacità di affrontare le sfide quotidiane.
Sotto la guida esperta dei terapeuti di One Session, avrai l’opportunità di esplorare le tue risorse interiori, individuare soluzioni su misura e ricevere un supporto immediato per superare gli ostacoli che potresti incontrare.
Nuova Data a Roma
Siamo lieti di invitarti il 15 settembre presso la nostra sede in Via Nomentana 60, a Roma.
Puoi semplicemente presentarti al nostro centro clinico tra le 9:00 e le 13:00 e suonare il campanello ICSST – ICNOS oppure prenotare un appuntamento specifico attraverso questo link: https://forms.gle/ASfR546AK6nTfahXA
Disponibile Anche Online
Ricorda che i terapeuti di One Session sono disponibili online dal lunedì al sabato. Puoi prenotare un colloquio online comodamente da casa tua, scegliendo i giorni e gli orari che meglio si adattano alla tua routine (clicca qui).
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Ti aspettiamo con entusiasmo il 15 settembre presso la nostra sede in Via Nomentana 60, a Roma, oppure online.
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Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
Sono in vacanza ma non so come rilassarmi: come staccare la spina
Come staccare la spina quando si è in vacanza? Sai come rilassarti?
Non per tutti le vacanze sono sinonimo di relax, recupero e divertimento; anzi, per molti il periodo delle vacanze può diventare fonte di vero e proprio stress.
Quando siamo stressati tendiamo a trascurare e a sottostimare le attività che potrebbero farci stare meglio, con il rischio di accrescere ulteriormente la nostra condizione di malessere.
Ciò che facciamo durante le nostre giornate ha il potere di influenzare enormemente il nostro benessere, e quindi, la qualità della nostra vita: ogni giorno compiamo decine e decine di scelte che hanno un impatto diretto sul nostro benessere e su quello delle persone intorno a noi.
Ogni giorno scegliamo, ad esempio, cosa mangiare, come vestirci, come utilizzare il tempo libero, se dedicarci ad un’attiva sportiva oppure no, se leggere un libro piuttosto che guardare la televisione, se trascorrere tempo sui social, anziché dedicarsi ad un proprio progetto.
Malessere e disagio sono spesso conseguenze delle scelte che noi agiamo, la maggior parte delle volte sulla base di abitudini, comportamenti automatici che mettiamo in atto, anche se questi nuocciono al nostro benessere psicofisico.
Possiamo, infatti, non renderci conto di non dedicare tempo a sufficienza per il riposo, di sacrificare i progetti che in realtà ci appassionano e danno senso alle nostre giornate, di trascurare i segnali di stanchezza che il nostro corpo ci manda.
Come fare, quindi, ad agire delle scelte per favorire il nostro benessere ed evitare che la vacanza diventi un ripetersi di malsane abitudini?
Non sai come rilassarti? Allora concentrati sul far fallire la tua vacanza!
Effettivamente potremmo non sapere come rilassarci e staccare la spina, perché magari non abbiamo mai prestato attenzione a questa cosa e potremmo avere difficoltà a capire cosa fare: come afferma un antico stratagemma orientale “se vuoi imparare a raddrizzare una cosa impara prima come storcerla di più” (cfr. Nardone (2003), Cavalcare la propria tigre; Nardone & Balbi (2017), Solcare il mare all’insaputa del cielo).
Pertanto, potremmo effettivamente non sapere cosa fare per rilassarci in vacanza: un buon punto di partenza, a tal proposito, potrebbe essere quello di sapere tutto ciò che potrebbe peggiorare ulteriormente la nostra situazione in vacanza, rendendola un vero incubo.
In tal caso, potrebbe tornarti utile una tecnica molto utilizzata nelle terapie brevi strategicamente orientate ovvero la tecnica del come peggiorare:
“Se volessi deliberatamente peggiorare la tua situazione in vacanza, farla fallire, cosa dovresti fare o evitare di fare, dire o evitare di dire, pensare od evitare di pensare, se volessi stressarti ancora di più anziché rilassarti?”
Questa tecnica (che ha una precisa utilità e finalità all’interno del contesto terapeutico, ma che in questo caso possiamo utilizzare per aiutarci a cambiare la prospettiva da cui guardiamo la situazione) ti impone di cambiare punto di vista. Ti impone di non concentrarti su quello che dovresti fare per rilassarti ma su tutto quello che dovresti fare per boicottarti. Porterà alla luce tutte quelle cose che magari stai già facendo e che ti impediscono di riposare, di recuperare le energie e che, al contrario, te le stanno togliendo.
Non sai come rilassarti? Dovrebbe accadere un miracolo!
Un altro passo che potresti attuare per imparare a fare delle buone scelte che rendano la tua vacanza un momento di relax è sicuramente quello di immaginarti in uno scenario senza il problema, in cui riesci finalmente a rilassarti e a staccare la spina.
In questo caso, può risultare utile e possiamo prendere in prestito la tecnica della domanda del miracolo (De Shazer, 1988), intervento principe nella terapia breve centrata sulla soluzione. Questa domanda può aiutarti a concentrarti in maniera concreta e dettagliata sullo scenario desiderato:
“Immagina che domani tu ti sveglierai e starai vivendo la vacanza dei tuoi sogni, quella in cui potrai finalmente rilassarti. Quale sarà, svegliandoti, la prima cosa che noterai che ti farà dire che è così? Quali sono le cose che farai che ti diranno che ti stai rilassando? Che cosa ci sarebbe? Che cosa non ci sarebbe più? Cosa faresti? Cosa non faresti più’?”
Individuati tutti i comportamenti, in maniera dettagliata e concreta, inizia a metterli in pratica attraverso dei piccoli passi….e buona vacanza!
Serve un aiuto in più? Puoi sempre chiedere una consulenza gratuita agli Psicologi di One session.it: puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile
Come trovare il lavoro dei sogni
Esiste il lavoro dei sogni? Come fare a trovarlo?
I sogni sono degli obiettivi che hanno bisogno di essere concretizzati…
altrimenti rimangono sogni!
Alla ricerca del lavoro dei sogni
La ricerca di un lavoro, o meglio la ricerca del lavoro che risponde alle nostre aspirazioni, alle nostre passioni, è un obiettivo senza dubbio sfidante. Il suo raggiungimento necessita di un forte mix di motivazione, forza di volontà, autodeterminazione e, soprattutto, la capacità di gestire in maniera efficace un piano d’azione appositamente definito.
La strada per trovare il lavoro dei sogni è infatti un percorso lungo il quale possono incontrarsi ostacoli di vario genere e che potrebbero, in determinati momenti, far sprofondare la persona in uno stato di sconforto e di scarsa fiducia nelle proprie capacità di riuscita.
La ricerca del lavoro desiderato non è un percorso privo di ostacoli….
Pensiamo ai momenti inevitabili di stallo, a chiamate per colloqui che non arrivano o a colloqui che vanno in un modo diverso da quello che ci eravamo aspettati.
Tutto questo potrebbe facilmente portare la persona, che già sta vivendo un momento di vulnerabilità, a pensare che non ne valga la pena, che tanto le cose non cambieranno nonostante tutti gli sforzi possibili.
Il lavoro, oltre a garantirci una sicurezza economica, è anche e soprattutto una fonte di benessere e di equilibrio psicologico e sociale.
La sua mancanza, al contrario, incide profondamente sulla nostra autostima e sul senso di efficacia personale. Non riuscire a provvedere a sé stessi, o peggio ancora alla propria famiglia, possono alimentare l’insorgere di un senso di profonda inadeguatezza. Questo può alimentare credenze circa la propria incapacità, il fatto di essere dei buoni a nulla, degli/delle sfortunat/e o peggio ancora che non ci meritiamo nulla di buono.
Il tempo: una risorsa preziosa per trovare il proprio lavoro desiderato
Un aspetto che spesso si tende a sottovalutare è l’utilizzo della risorsa tempo. In realtà, la gestione efficace e produttiva della risorsa tempo diventa uno dei più importanti elementi di riuscita del proprio progetto professionale di ricerca del lavoro desiderato.
Come riuscire allora a rendere produttivo il proprio progetto professionale di ricerca del lavoro desiderato? Di seguito propongo alcune tips e approfondimenti utili per non lasciare nulla al caso, che ti aiuteranno a gestire efficacemente il tempo dedicato alla ricerca del lavoro desiderato.
Alcune tips utili per una ricerca efficiente ed efficace
- Chiarisci i tuoi valori professionali, il perché vuoi fare proprio quel lavoro, perché è importante per te.
- Definisci un obiettivo “ben formato”. Un obiettivo ben formato dovrebbe innanzitutto essere espresso in positivo (Voglio trovare il lavoro che desidero vs Non voglio più essere disoccupato), dovrebbe essere concreto (che lavoro voglio cercare? Quali caratteristiche deve avere?), essere realistico (in relazione alle mie possibilità e alle possibilità dell’ambiente di riferimento), essere ecologico (i costi non devono superare i benefici) ed infine, essere misurabile (ovvero è fondamentale stabilire una timeline di azione).
- Fai un’analisi delle tue competenze. Cosa hai fatto fino ad oggi, quali sono i tuoi punti di forza a livello di skills e quali sono invece le capacità che potresti migliorare per rendere più accattivante e più competitiva la tua presentazione.
- Stabilisci delle priorità. Quali sono per te, in questo momento, gli aspetti più importanti, quelli che per te sono un punto fermo nella ricerca di un lavoro (la retribuzione, l’area geografica, l’inquadramento professionale etc)?
- Lavora sul tuo atteggiamento che deve essere positivo, proattivo e orientato al risultato.
- Costruisci una strategia di comunicazione efficace e, in generale, allinea tutti gli strumenti di comunicazione (profili social, LinkedIn, Facebook…..lettera di presentazione)che devono essere coerenti, gradevoli, focalizzati e funzionali all’obiettivo.
- Definisci un piano d’azione e mettilo subito in pratica. La metodicità è un fattore molto importante che ha una forte influenza in percorsi come quello della ricerca del lavoro. Crea dei micro-obiettivi e cerca di perseguirli ogni giorno (questo ti aiuterà anche ad evitare la tendenza a procrastinare).
- Non buttarti a caso, la tua comunicazione deve essere sempre coerente e strategica rispetto al tuo obiettivo. Fai piuttosto un’analisi di mercato e seleziona i target che potrebbero essere potenzialmente in linea con il tuo profilo professionale.
- Lavora anche sul tuo network personale: vecchi amici e conoscenze (reali!) che possono contribuire con un utile apporto e con utili informazioni per la causa.
- Lavora sui momenti di tristezza e di scoramento: sono naturali ed inevitabili ma potrebbero essere la vera chiave del tuo cambiamento.
- Sii curioso/a di sperimentarti anche in qualcosa di alternativo/diverso dalle tue competenze: potresti riscoprirti appassionato/a e particolarmente bravo/a in qualcosa che mai avresti immaginato.
Hai bisogno di un aiuto in più?
In caso di necessità, puoi far riferimento anche ad un professionista del settore dell’orientamento professionale. Potrà supportarti con gli strumenti giusti, nella definizione del tuo obiettivo professionale e nella preparazione di un piano d’azione.
Bibliografia di riferimento
Tucciarelli, M. (2014), Coaching e sviluppo delle soft skills, Editrice La Scuola
Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile
Affrontare il discorso separazione con i figli
La separazione è un momento doloroso che coinvolge tutta la famiglia, come affrontare il discorso con i figli?
Separazione ed emozioni
I figli possono sperimentare senso di impotenza di fronte alla separazione dei genitori, che può essere alimentata da sentimenti confusi e contraddizioni con incertezza per il futuro.
Non sarà possibile avere una ricetta valida per tutti i casi perché ogni separazione è differente dall’altra e può presentare caratteristiche e variabili di criticità di grande complessità.
Ogni bambino può reagire in modo differente, anche all’interno della stessa famiglia i fratelli possono avere reazioni diverse.
Nei pensieri dei genitori la decisione di separarsi si accompagna quasi sempre con la domanda di come i figli reagiranno e di quali ripercussioni questa decisione avrà su di loro.
Può avvenire che nella fase iniziale della separazione i pensieri rispetto al futuro dei figli rimangano in secondo piano, poichè diventano prioritari gli aspetti concreti: le questioni legali e a volte anche di una ridefinizione a livello professionale.
Accade spesso che i sentimenti siano, in questa fase, distribuiti in modo disuguale tra i partner, evidenziando una differenza emotiva: per qualcuno prevarrà la rabbia, il lutto, il senso di perdita e di fragilità; per qualcun altro il senso di liberazione e la voglia di iniziare una nuova vita, con una nuova relazione.
Occorre una positiva rielaborazione dei sensi di colpa che può essere attuata attraverso l’assunzione consapevole della decisione. Ha poco significato rimuginare sul cosa si sarebbe potuto fare per evitarlo e lo sguardo deve essere posto sul futuro, cercando di estrapolare il meglio da questa situazione.
Non è utile addossarsi tutta la responsabilità ma assumersi quella riguardante la decisione specifica e per le sue conseguenze, considerare quello che è meglio per tutti.
Accettare le proprie debolezze e i propri errori è utile durante l’arco di tutta la vita, è un processo di apprendimento continuo, meglio apprendere dai propri errori e cercare di fare meglio nel futuro.
Come lo dico?
All’inizio di ogni separazione i genitori dovrebbero prevedere un momento in cui parlare con i propri figli per comunicare la decisione che hanno preso. Si dovrebbe trattare di un dialogo che trasmetta amore e sicurezza.
E’ fondamentale comunicare con i propri figli la separazione, condividendo ciò che sta accadendo realmente. E’ molto importante quello che verrà comunicato insieme, quindi successivamente devono rimanere a disposizione per rispondere a domande.
La regola è che i coniugi non devono svalutarsi a vicenda, è possibile prevedere un accordo su cosa dire nei dettagli oppure provare il discorso davanti ad una persona di fiducia.
Bambini 0-3 anni: quando il bambino non sa ancora parlare dovete comunicare in modo rilassato ciò che sta avvenendo, ad esempio quando il bambino è tranquillo e state giocando con lui usando un tono di voce calmo e affettuoso.
Bambini 3-6 anni: i bambini in questa età sono nel pensiero magico, è l’età in cui stanno ancora imparando a distinguere ciò che è reale da ciò che è fantasia e questo accade indipendentemente dalla loro volontà, frutto delle loro rappresentazioni.
Spesso immaginazione e realtà si confondono.
Quanto più la cosa è forte emozionalmente più la loro tendenza è quella di aggiustare con le fantasie. A questa età molti bambini tendono a rielaborare la separazione , cercandone le ragioni mescolando in maniera irrazionale realtà e immaginazione.
Bambini dai 6 ai 12 anni: si può chiedere loro cosa sanno del divorzio e confrontarsi su idee e credenze.
L’importante è trasmettere sicurezza per il futuro ed essere sinceri.
Dai 12 anni in poi: in questa fase è maggiore la maturità a livello cognitivo e la voglia di ragionare, la comprensione dei ragionamenti è migliore. Questo non significa trascurare la componente emotiva. I ragazzi non sono obbligati a dire qualcosa, hanno il diritto di stare in silenzio se vogliono. I ragazzi hanno il diritto di essere arrabbiati , ed è preferibile questa reazione piuttosto che la rassegnazione.
Il senso di perdita o aggressività repressa possono manifestarsi successivamente in modo più o meno nascosto o aperto.
Fattori protettivi
E’ ormai assodato che la separazione e il divorzio non portano inevitabilmente a danni permanenti nei figli. Tuttavia la loro serenità e benessere, anche futuri sono connessi ad alcune condizioni, che richiedono da parte dei genitori maggiori sforzi e consapevolezza di quelli che sono necessari nelle famiglie “intatte”. Se i genitori ci mettono quest’impegno, non hanno niente da rimproverarsi per il fatto che la famiglia creata si è dissolta. I “fattori protettivi” agiscono in modo che i vostri figli diventino adulti felici e soddisfatti.
Sarà molto importante:
essere affidabili, evitare le svalutazioni reciproche, evitare di “viziare” i figli mantenendo un ruolo di educatori coerenti e responsabili.
Dopo la separazione non trattare i figli come “partner”. E’ molto importante tracciare un confine molto chiaro tra i loro interessi, da una parte, e quelli dei figli dall’altra.
Rivolgete uno sguardo al futuro con ottimismo.
Ricorrete ad un supporto professionale nel caso in cui emergano sintomi depressivi. Trasmettete ai figli una buona autostima attraverso una comunicazione positiva e rimanete una coppia genitoriale forte.
Nonostante la separazione si rimane una coppia di genitori per tutta la vita.
Se senti il bisogno di un aiuto professionale, gli psicologi di OneSession.it ti offrono la possibilità di prenotare un primo colloquio gratuito. Per prenotare il tuo incontro, puoi inviare una e-mail a info@onesession.it oppure compilare il form (clicca qui)
Riferimenti bibliografici
Koch C. e Strecker C. (2014). Mamma e papà si separano. Trento, Erickson
Fabio R.A (2004), Genitori positivi, figli forti, Trento, Erickson
Lavigueur S., Coutu S.e Dubeau D. (2011), Sostenere la genitorialità, Trento, Erickson
Psicologa & Psicoterapeuta in formazione. Specializzata in Potenziamento Cognitivo e Psicologia Scolastica. Ordine degli Psicologi della Lombardia n.03/13262
Quando rivolgersi ad uno psicologo?
Quando è giusto rivolgersi ad uno psicologo?
Quando si pensa allo psicologo è un pensiero molto diffuso che generalmente si ricorra a questa figura professionale solo in presenza di sintomi e disagi che comprometto la qualità della vita della persona.
Situazioni di perdita, difficoltà nel superare efficacemente determinate fasi del ciclo vitale, difficoltà personali e relazionali che non consentono alla persona di vivere una vita soddisfacente e in linea con i propri obiettivi, sintomi specifici legati ad ansia, tristezza, fobie, stress, sono alcune tra le più diffuse problematiche che possono portare la persona a richiedere un intervento supportivo di natura psicologica.
L’obiettivo, in questi casi, è quello di ripristinare- nel più breve tempo possibile- una condizione di benessere psicologico e aiutare la persona ad uscire dallo stato di sofferenza in cui si trova.
Verranno mobilite le sue risorse interne ed esterne e la persona verrà aiutata a trovare strategie di superamento efficaci.
Se la presenza di un disturbo o di una difficoltà di natura psicologica rappresentano una condizione quasi d’obbligo per richiedere un supporto psicologico, non sono di certo le uniche.
Ma lo psicologo opera solo in condizioni di disagio psicologico?
Per rispondere a questo domanda è opportuno fare un breve riferimento alla Legge 56 del 18 febbraio 1989. Essa istituisce formalmente la figura professionale dello psicologo e nell’articolo 1 vengono definiti quelli che sono gli atti tipici della professione:
“La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.”
Risulta sufficientemente chiaro come lo psicologo, lungi dal poter intervenire efficacemente solo in situazioni di disagio psicologico, possiede altresì le conoscenze e le competenze per poter intervenire anche in altri ambiti legati alla salute mentale.
Lo fa a partire da attività di prevenzione primaria volte ad impedire l’insorgenza di un disagio a attività di sostegno e promozione della salute psicologica, volte a migliorare ed accrescere una condizione di benessere già presente.
Lo psicologo è un promotore di benessere!
Sono infatti sempre di più le situazioni in cui l’intervento psicologico si inserisce all’interno di una situazione di empowerment e di promozione alla salute. L’obiettivo in questo caso è accompagnare la persona in un percorso di potenziamento delle proprie risorse, aumentando l’autoconsapevolezza rispetto alle proprie modalità di azione e reazione, alle proprie capacità e punti di forza. Ma anche alle proprie vulnerabilità, stimolando e facilitando l’emersione di nuove strategie e soluzioni, funzionali al ripristino o al potenziamento di una condizione di benessere.
Lo psicologo non ti da la risposta ma ti aiuta a costruire la tua strada
La figura dello psicologo è da sempre avvolta da una serie di pregiudizi, ancora oggi molto difficili da abbattere. “Lo psicologo è colui che cura i matti”. “Parlare con lo psicologo è come parlare con un amico”. “Siamo tutti un po’ psicologi in fondo”.
La realtà è che andare dallo psicologo aiuta, e molto! Sia in condizioni di disagio che nella condizione in cui ci si voglia prendere cura del proprio benessere e accrescerlo.
Questo perché alla base di ogni intervento psicologico, la persona è considerata come portatrice di risorse e soluzioni. Lo psicologo ha il compito di accompagnarla, supportarla verso il raggiungimento del benessere psicologico e il miglioramento della qualità della vita. Non darà risposte al posto della persona, ma la aiuterà a tracciare il proprio percorso attraverso un lavoro su obiettivi specifici che verrano condivisi insieme.
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Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile
Superare la fine di una relazione
La fine di una relazione è un’esperienza pressoché universale: siamo degli animali sociali e siamo fatti per costruire relazioni, per entrare in relazione con l’altro. Pensiamo al legame di attaccamento e a come il bambino appena nato si trovi ad affrontare un compito cruciale per il suo sviluppo, ovvero formare un legame unico e speciale con il caregiver, ovvero la principale figura di accudimento nei primi mesi di vita, che possa fornire quel supporto, quella protezione e quelle esperienze emotive di cui il bambino ha bisogno e che garantiscono la sua sopravvivenza.
Citando John Bowlby, padre dell’appena citata Teoria dell’Attaccamento, l’essere umano viene al mondo con una “predisposizione biologica” ad entrare in relazione con l’altro, che nelle prime fasi della vita di ciascun individuo svolge la funzione biologica di fornire protezione e accudimento e la funzione psicologica di fornire sicurezza.
Nonostante siamo predisposti a costruire relazioni con gli altri, a condividere esperienze, questo, il più delle volte, non ci rende altrettanto bravi nella gestione della fine di una relazione.
Si tratta di processi psicologici che fanno parte del nostro percorso evolutivo: soprattutto se una relazione è stata particolarmente significativa ed importante per noi, la sua fine può avere delle ripercussioni importanti in più ambiti della nostra vita, ed è del tutto normale sentirsi sopraffatti da tante emozioni anche contrastanti, soprattutto nelle prime fasi della perdita.
La fine di una relazione è come un lutto
Molto spesso si parla di una vera e propria elaborazione di un lutto quando si fa riferimento alla fine di una relazione: uno dei modelli più diffusi e conosciuti nel panorama della psicologia è sicuramente quello sviluppato dalla psichiatra Elisabeth Kübler Ross (1969) che ha teorizzato 5 fasi del lutto che si attraversano e che portano ad elaborare una perdita e che possono essere utilizzate per ripercorrere ciò che può accadere alla fine di una relazione d’amore:
1. Fase della negazione/del rifiuto della perdita
La fine di una relazione può creare una rottura molto forte ed anche uno sconvolgimento importante della vita e della quotidianità fino a quel momento vissuta e condivisa con l’altra persona: il tutto può essere vissuto come intollerabile, e la negazione della realtà e quindi della perdita, diventa l’unica strada percorribile in questa fase iniziale.
2. Fase della rabbia
In questa fase il dolore e la sofferenza sono molto intensi: la perdita della relazione può essere vissuta come una profonda ingiustizia subita dalla persona. Questa fase è comunque una fase importante in quanto c’è un primo contatto con la realtà e si inizia a riconoscere la perdita.
3. Fase del patteggiamento/della negoziazione
Questa fase è molto importante in quanto si cerca di riprendere il controllo della propria vita e di trovare delle strategie utili di fronteggiamento della situazione.
4. Fase della depressione
Il tempo che passa porta sempre di più consapevolezza della perdita, di ciò che non si tornerà più a vivere e di ciò che non si potrà più condividere, creando le condizioni per vissuti di profonda malinconia e tristezza.
5. Fase dell’accettazione
Arrivati a questa fase, la persona ha elaborato la perdita e ne è consapevole. La vita va avanti ed è arrivato il momento di riorganizzarla.
La relazione finisce ma la tua vita continua
Come già accennato, quando finisce una relazione, soprattutto quando è stata molto importante e intensa, la prima reazione è quella di un vero e proprio shock: la persona potrebbe trovarsi a sperimentare un vero e proprio “frullatore emotivo” tra la paura di non farcela, di non poter andare avanti senza quella persona, di sentirsi talmente persa come se mancasse la terra sotto i piedi.
Se, come è stato già sottolineato, la prima reazione è quella di negare la realtà per mettersi al riparo da una situazione percepita come troppo dolorosa e insostenibile, è altrettanto importante, rispettando quelli che sono i propri tempi, ricominciare a prendere consapevolezza della realtà.
Cerca di essere onesto con te stess*
Guardare in faccia la realtà è senza dubbio un processo molto doloroso, ma inevitabile e salutare se si vuole superare la perdita in modo funzionale. Generalmente quando finisce una storia d’amore, la nostra mente tende a riportare alla nostra attenzione e a focalizzare solo gli aspetti positivi e i bei ricordi che abbiamo perso: tutto quello che invece non funzionava o ti faceva già soffrire dell’altra persona, tende a passare in secondo piano.
Potresti avere reazioni e provare emozioni anche contrastanti tra loro
Quando finisce una storia d’amore non solo soffriamo per la perdita subita ma soffriamo anche perché le nostre aspettative si sono infrante. Questa sofferenza potrebbe avere ripercussioni in più ambiti della tua vita e portarti a sviluppare delle difficoltà anche sul lavoro e nelle amicizie.
Potresti avere difficoltà nel controllare le tue emozioni, sviluppare difficoltà nel dormire, avere pensieri intrusivi e ricorrenti e magari l’impulso a contattare il tuo ex partner, trovando le più varie giustificazioni per farlo. Potrebbero essere molteplici le reazioni che potresti avere e le emozioni che potresti provare. È fondamentale, quindi, dare dignità alle tue emozioni e permettere a te stesso di sentire quello che senti.
Non evitare il dolore ma passaci dentro per superarlo
Quando cerchi di evitare alcuni pensieri e alcune emozioni, in realtà stai producendo il risultato opposto, ovvero quelle emozioni e quei pensieri diventano ancora più intrusivi. Le emozioni non vanno evitate, vanno accolte perché costituiscono una componente fondamentale delle nostre esperienze di vita. Ripeterti che “non devi stare così” avrà solo l’effetto di acuire e prolungare la tua sofferenza. E’ fondamentale, invece, trovare e dare spazio a questa sofferenza e capire come possa contribuire alla tua evoluzione personale.
Se solo avessi…
Generalmente la fine di una relazione attiva tutta una serie di pensieri che possono arrivare a tormentare la persona e ad imbrigliarla in una serie di quesiti senza risposta “perché lo ha fatto…” “se solo avessi detto questo…” “se non avessi fatto…”. Tutto questo lavoro mentale, in realtà, lungi dall’essere di supporto, contribuirà solamente ad acuire il dolore e la sofferenza. Porterà la persona ad attribuirsi delle colpe che non corrispondono alla realtà. Non possiamo, infatti, modificare il passato e chiederci cosa sarebbe cambiato se solo avessimo detto o fatto qualcosa di diverso, semplicemente non ha senso.
Riconoscere la trappola di questi pensieri è il primo passo per ridurre la sofferenza e quindi la loro intensità. Concediti piuttosto, un tempo predeterminato (ad esempio 10-20 minuti), in cui ti immergerai nei tuoi più dolorosi pensieri e domande. Una volta concluso questo tempo, però, dovrai tornare a fare ciò che stavi facendo. Non combattendoli ma concedendogli uno spazio controllato, con il tempo, diventerai sempre più consapevole dei tuoi pensieri quando si presenteranno alla porta delle tua mente.
Se senti il bisogno di un aiuto concreto per superare la fine della tua relazione, rivolgiti al nostro servizio gratuito di consulenza psicologica a Seduta Singola!
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Riferimenti bibliografici
Baroni, D. (2020), L’arte di riparare un cuore. Edizioni Erickson
Kübler-Ross, E. (1969), On Death and Dying. Macmillan, New York NY.
Psicologa- specializzanda in psicoterapie brevi sistemico-strategiche. Grazie alle terapie brevi e alla mia formazione nell’ambito dell’orientamento professionale e dello sviluppo delle soft skills, riesco ad aiutare le persone che si rivolgono a me a superare momenti di difficoltà e disagio, sia in ambito personale che lavorativo, riattivando le risorse e abilità personali e aiutandole a realizzare i propri obiettivi e riconquistare una percezione generale di benessere nel più breve tempo possibile
Superare l’insonnia, anche in una sola seduta
L’insonnia è davvero una spiacevole compagnia. All’interno di questo articolo scoprirai come superare l’insonnia e come anche una sola seduta può essere risolutiva del problema.
I disturbi del sonno
Si stima che gli italiani che soffrono di insonnia siano 12 milioni, con un maggiore interessamento per le donne.
L’insonnia ha diverse forme: non solo quella della persona che, girandosi e rigirandosi tutta la notte nel letto, non riesce a chiudere occhio e si sveglia che sembra uno zombie.
L’assenza totale di sonno è una delle manifestazioni dell’insonnia. Si aggiungono a questa le difficoltà di addormentamento, ridotti cicli di sonno, risvegli frequenti con difficoltà a riaddormentarsi o risvegli precoci senza riaddormentamento.
Le conseguenze del poco sonno o del sonno disturbato si fanno sentire a più livelli. Scarsa concentrazione, ansia e irritabilità, mal di testa e problemi relazionali e lavorativi sono spesso lamentati da chi dorme poco e male.
Cosa fai per combattere l’insonnia?
Sono piuttosto certa che, se soffri di sonno disturbato o di assenza di sonno, hai messo in atto almeno una volta uno di questi comportamenti.
- Sforzarti di dormire. Se il sonno non viene da sé, cerchi di farlo arrivare intenzionalmente, impegnandoti ad addormentarti.
- Ti rilassi a tutti i costi. Musica rilassante, tisane, luci soffuse, perché no un po’ di training autogeno o meditazione. Le provi tutte per metterti in una condizione di relax che, a rigor di logica, dovrebbe farti poi addormentare.
- Rimani nel letto per ore nonostante tu non riesca ad addormentarti. Ti giri e rigiri, ma non hai la minima intenzione di alzarti, DEVI a tutti i costi addormentarti.
Funzionano queste tecniche? Direi di no, altrimenti non staresti leggendo questo articolo 😊
Questi stratagemmi che ben conosci altro non fanno che peggiorare i tuoi problemi col sonno! Ebbene sì. Il sonno è una funzione fisiologica spontanea (come il respiro, il battito cardiaco) e quindi non può essere indotto con la volontà. Ogni tentativo fatto di generare intenzionalmente una condizione spontanea, avrà esito contrario. Come avrai potuto sperimentare sulla tua pelle.
Superare l’insonnia in tre semplici mosse
Niente strani stratagemmi o assurde tecniche per riuscire a dormire sonni tranquilli!
Il dott. Fabio Leonardi, psicoterapeuta, propone queste semplici 3 mosse che nel giro di pochi giorni ti faranno tornare a avere un rapporto sereno col tuo letto.
- Stai sul letto, a luce spenta, per otto ore esatte, in attesa del suono della sveglia
- Mentre attendi la sveglia non dovrai fare nulla per sforzarti di dormire. Niente conta delle pecore, niente tisana prima di coricarti, niente musica orientale.
- Anche se non avrai dormito per il tempo che ritieni adeguato, non dovrai compensare la mancanza di sonno con sonnellini durante il girono.
Ti accorgerai come, già nel giro di due o tre giorni, il sonno arriverà, e con qualche altro giorno si stabilizzerà definitivamente.
La Terapia a Seduta Singola per l’Insonnia
La Terapia a Seduta Singola è un ottimo metodo per contrastare i disturbi del sonno: un solo colloquio può essere sufficiente e utile per individuare quali comportamenti disfunzionali ti stanno impedendo di dormire quanto e come desidereresti, sostituendoli con comportamenti più sani e funzionali.
Conosci il nostro servizio gratuito di consulenza psicologica a Seduta Singola?
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Riferimenti Bibliografici
Cannistrà, F., Piccirilli, F., (2018). Terapia a Seduta Singola. Principi e pratiche. Giunti Psychometrics
Leonardi, F., Tinacci, F., (2021). Manuale di psicoterapia strategica. 80 tecniche d’intervento. Erickson: Trento
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
Come imparare a dire di no
Vuoi imparare a dire di no?
Prima però ti racconto delle mie vacanze…
Questa estate sono andata a fare un bellissimo viaggio alle Baleari insieme al mio compagno. Una sera, camminando per le vie del centro di Minorca, sono rimasta catturata da un paio di sandali in una vetrina: di istinto, senza neanche guardare l’orologio, sono entrata all’interno del negozio. Con mia grande sorpresa sono stata messa alla porta dalla commessa, che con tono educato ma deciso ha esclamato:“Disculpe, está cerrado!” (trad. “perdonami, siamo chiusi!”). Ricordo come se fosse ieri di essere rimasta basìta, mi sono voltata verso il mio compagno e ho commentato: “ma ci rendiamo conto? Ma solo io se un cliente mi si presenta ad orario di chiusura ufficio lo accolgo lo stesso?” e lui, seraficamente, mi ha risposto: “eh mi sa di sì! Forse potresti imparare a fare come la signora!”.
Ho scelto di iniziare l’articolo di oggi con questo aneddoto di vita vissuta per affrontare un argomento sempre più attuale: la difficoltà che alcune persone hanno a dire di no di fronte alle continue richieste degli altri.
Che cosa significa non saper dire di no?
Immaginiamo di trovarci al lavoro. Siamo alla fine di una lunga giornata, pronti ad uscire finalmente dall’ufficio, quando il capo si palesa sulla porta, con un’espressione allarmata sul viso: “sai, dobbiamo assolutamente fare questa cosa entro domani mattina ma io devo proprio scappare…potresti trattenerti tu oltre l’orario previsto oggi?”
Oppure potremmo ricevere, proprio prima di spegnere il pc, un’email da parte di un nostro cliente. L’oggetto “URGENTE” già la dice lunga sul contenuto: “so di essermi ridotto tardi ma ho assolutamente bisogno di questo preventivo, grazie di inviarmelo entro un’ora!”
Per non parlare di quando nostro figlio, di fronte all’ennesimo elenco di compiti da fare per la scuola, irrompe piagnucolando nel salone e ci chiede: “ti prego mi aiuti? Non mi va proprio di farli!” magari giusto nel momento clou di quel film che stavamo vedendo.
In ognuna di queste situazioni, ci sentiremo come di fronte ad un bivio: dire di sì oppure dire di no alla richiesta che ci è stata avanzata da persone per noi importanti, in un modo o nell’altro.
Scegliere di dire sì spesso è la soluzione d’elezione, per tanti motivi: il primo è sicuramente l’educazione e la sincera volontà di aiutare l’altro, in evidente stato di difficoltà. Fare del bene agli altri, può regalare un piacere che scalda il cuore e fa sentire in pace perché si è fatta “una buona azione”.
Senza contare la speranza di ottenere in cambio la benevolenza dell’altro o una ricompensa per la nostra disponibilità.
Nel caso di un datore di lavoro ad esempio, potremmo ambire ad una promozione: “se dirò di sì e mi fermerò fuori orario, il capo si renderà conto di quanto io sia indispensabile e mi premierà di conseguenza”.
Il nostro cliente magari, di fronte alla nostra tempestiva risposta, probabilmente acquisterà il nostro prodotto e ci sceglierà di nuovo nel futuro.
Nostro figlio infine, apprezzerà di avere un genitore sempre prodigo nel sostenerlo e grazie al nostro aiuto prenderà degli ottimi voti a scuola.
Aspettarsi qualcosa in cambio dei nostri sì, tuttavia, potrebbe aprire la porta a qualcosa di molto diverso dall’altruismo sincero e disinteressato: pur di ottenere l’approvazione degli altri e la loro riconoscenza, potremmo iniziare a dire sempre di sì, non solo quando effettivamente lo vogliamo, ma anche quando preferiremmo fare qualcosa di diverso.
Questo comportamento inizialmente positivo per noi, se ripetuto nel tempo, può quindi diventare un’abitudine problematica.
Gli altri infatti, a forza di chiedere aiuto da noi e riceverlo, potrebbero iniziare a pretenderlo sempre di più. Del resto dal loro punto di vista, se abbiamo detto di sì una volta, potremmo benissimo farlo di nuovo. E ancora, ancora e ancora.
Di conseguenza, noi ci sentiremo obbligati a dire nuovamente di sì, incastrandoci in un loop senza fine. Impossibile a questo punto iniziare a dire dei “no” anche quando vorremmo farlo: il rischio di passare improvvisamente per “i cattivi” della situazione, sarebbe troppo alto e intollerabile.
Quali sono le conseguenze del non riuscire a dire di no?
Potrebbe capitarci di renderci conto che la nostra grande disponibilità è diventata a tutti gli effetti una strada a senso unico. Siamo sempre pronti a dare agli altri, più di quanto diamo a noi stessi e riceviamo.
Anteponiamo i loro bisogni ai nostri e invece di sentirci pieni di gioia per questo, ci iniziamo a sentire svuotati.
Eppure nonostante ciò, non riusciamo proprio a pronunciare quella parola che potrebbe fermare tutto: un semplice “no”.
Il solo pensiero di rifiutarci di dare l’aiuto che ci viene richiesto ed è ormai diventato atteso, ci fa sentire in colpa.
In questi casi, di fronte ad una nuova richiesta, potremmo iniziare a sentire uno strano peso sull’addome, come se avessimo digerito male qualcosa.
Oppure potremmo iniziare ad avere dei pensieri minacciosi che suonano più o meno così: “cosa penserà di me se non lo faccio? Potrebbe giudicarmi una cattiva persona! Rischierò di perdere il posto di lavoro e l’affetto dei miei cari!”.
Con il tempo, dire sempre di sì, diventerà per noi una lama dal doppio taglio.
Lo spazio per noi stessi e i nostri interessi si azzera, il tempo sembra non bastarci mai, il nostro umore peggiora e il nervosismo rischia di farci discutere proprio con le persone che pensavamo di voler aiutare.
E’ necessario imparare a dire di no.
Ma come imparare a dire di no?
Se ci troviamo di nuovo di fronte al bivio e vogliamo provare a fare qualcosa di diverso, possiamo iniziare a riflettere su questa semplice ma potente affermazione: “ogni volta che dico no agli altri, dico sì a me stesso”.
In questa nuova ottica, proviamo ad attribuire anche alla parola no un nuovo significato: non un rifiuto, ma una “nobile obiezione” (Mike Clayton, 2013).
Nobile sia per i modi educati con cui viene pronunciata, sia perché quando si decide di rispondere così, lo si fa con la piena consapevolezza delle proprie motivazioni e delle conseguenze su noi stessi e gli altri.
Infine, proviamo ad introdurre delle piccole violazioni alla nostra tendenza a dire sempre di sì.
Proviamo quindi, di fronte all’ennesima richiesta da parte del nostro capo, a rispondere diversamente: “mi rendo conto della tua necessità, ma oggi ho preso un altro impegno e proprio non ho la possibilità di trattenermi”.
Nel nostro programma di posta elettronica, impostiamo una risposta automatica per ricordare all’utenza gli orari di apertura dell’ufficio.
E al nostro bambino così angosciato dai suoi compiti, proviamo a dire che in questo momento siamo impegnati, ma che potrà iniziare intanto da solo.
Solitamente, di fronte alla nostra porta improvvisamente chiusa, gli altri modificheranno gradualmente il loro atteggiamento nei nostri confronti e diminuiranno le richieste.
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Riferimenti bibliografici
Clayton, M. (2013). Si può dire NO: Sbattersi di meno per ottenere di più. Italia: De Agostini.
Marson, J. (2013). Come imparare a dire di no senza sensi di colpa. Italia: Newton Compton Editori.
Sono una Psicologa iscritta all’Albo A degli Psicologi del Lazio e all’Istituto ICNOS: Scuola di Psicoterapie Brevi Sistemico-Strategiche.
Nel mio lavoro integro le mie competenze multidisciplinari per offrire ai miei clienti soluzioni personalizzate ed aiutarli a raggiungere i propri obiettivi in tempi brevi. Utilizzo la TSS per ottenere il massimo da ogni singolo incontro.
La drunkoressia: bere di più per mangiare di meno
La Drunkoressia è un termine coniato per la prima volta dal “New York Times” nel 2008. Esso descrive un’eccessiva restrizione alimentare aumentando l’assunzione di alcool senza aumentare di peso (CBS News, 2008; Kershaw, 2008; Smith, 2008; Stoppler, 2008).
Attrae molto gli adolescenti e i giovani adulti. La Drunkoressia permette di consumare e/o continuare a consumare grandi quantità di alcool, pur mantenendo, o a volte diminuire, il peso corporeo.
La drunkoressia viene inserita nel DSM-5 tra i disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificato (NAS). L’età di insorgenza è la più varia.
Drunkoressia: l’importanza del contesto sociale
Nella società odierna, in cui forma fisica perfetta e controllo del cibo sono due pilastri fondanti delle abitudini ed attenzioni degli adolescenti, la Drunkoressia ha una grande influenza.
Tale comportamento influenza in particolar modo il sesso femminile, in quanto sempre più spesso vi è un ricorso eccessivo all’attività sportiva (Mond et al. 2008), in modo tale da poter bruciare drasticamente quantità eccessive di calorie, agendo cosi sulla riduzione di peso e la percentuale di grasso corporeo (Johnstone and Rickard 2006).
Nel momento in cui l’esercizio fisico viene in qualche modo cancellato o posticipato, la persona è pervasa da forti sensi di colpa (Mond et al. 2008).
Tra criteri diagnostici e sintomi
La Drunkoressia viene considerata nel DSM-5 come un disturbo del comportamento alimentare non altrimenti specificato (NAS).
I criteri diagnostici sono molto simili a quelli dell’anoressia nervosa: alimentazione selettiva, digiuno, ossessività per la magrezza.
Tale disturbo può insorgere a qualunque età, come nella maggior parte dei disturbi del comportamento alimentare. L’età della prima diagnosi negli ultimi anni si è abbassata da 15 a 9 anni.
I sintomi tipici riscontrati sono simili ad a quelli di un’intossicazione da alcool: Cefalea, sonnolenza, nausea, calo dell’attenzione, vomito e nei casi più gravi coma etilico.
Segnali d’allarme: Come riconoscere i comportamenti specifici
Diversi sono i comportamenti che possono destare allarme verso tale patologia:
- saltare i pasti, evitando così di assumere troppe calorie compensando l’apporto calorico dovuto dal consumo di bevande alcoliche,
- un eccessivo esercizio fisico, comportamento atto a compensare le calorie assunte dal bere
- assumere una quantità eccessiva di alcol al fine di avere la nausea e vomitare (Chambers 2008).
Il concetto di drunkoressia si compone quindi di tre dimensioni distinte: l’uso o abuso di alcol, disturbi alimentari e attività fisica.
Conseguenze fisiche tra comorbilità e patologie associate
La drunkoressia si accompagna molto spesso con la bulimia o anoressia. La persona arriva ad indursi il vomito per potersi disfare delle calorie in eccesso.
Altre volte non è presente nessun altro disturbo alimentare associato.
Diverse le patologie mediche associate alla drunkoressia a carico di vari organi: dall’apparato cardiovascolare, al sistema nervoso centrale, al fegato e l’apparato gastrointestinale. Denutrizione e anemia sono i sintomi fisici più frequenti. Carenza di vitamine e minerali creano reazioni fisiche come il collasso dell’organismo.
L’abuso di alcool può causare cirrosi epatica. La persona con drunkoressia considera le bevande alcoliche come un sostituto della dieta sana ed equilibrata. La gran quantità di alcool ingerita porta ad anestetizzare la fame.
Dalle cause ai fattori di rischio
L’insorgenza della drunkoressia è causa di un’adesione a modelli sociali e stereotipati di magrezza, difficoltà familiari o predisposizione individuale. All’origine della drunkoressia vi sono fattori biologici, psicologici, ambientali e culturali.
La drunkoressia se non trattata precocemente ed in modo adeguato tende a cronicizzarsi. Il suo decorso può essere caratterizzato da miglioramenti e successive ricadute. Molteplici fattori portano all’aggravarsi della sintomalogia come le complicanze mediche, il sottopeso e la scarsa motivazione al cambiamento.
Drunkoressia: Prevenzione e trattamento
Importante per una buona prevenzione è l’educare gli adolescenti al contrasto della cultura dello “sballo”. È fondamentale che i genitori o persone vicine ne possano individuare i primi segnali di allarme. Non è facile il lavoro con chi è affetto da drunkoressia, come d’altronde per qualsiasi altro disturbo del comportamento alimentare. Si rimanda per la buona riuscita del trattamento ad interventi di psicoterapia individuale e/o di gruppo. (Larimer, M. E., & Cronce, J. M. 2002)
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Riferimenti Bibliografici
CBS News (2008). Drunkorexia: Health dangers for women. Retrieved on May 25, 2009
Chambers, R. (2008) Drunkorexia. Journal Of Dual Diagnosis 4, 414-416.
Johnstone, J.R. and K.M. Rickard (2006) Perceptions of college women with disordered eating and exercise patterns. Social Behavior & Personality: An International Journal 34, 1035-1050.
Kershaw, S. (2008, March 2). Starving themselves, cocktail in hand. New York Times.
Larimer, M. E., & Cronce, J. M. (2002). Identification, prevention, and treatment: A review of individual-focused strategies to reduce problematic alcohol consumption by college students. Journal of Studies on Alcohol, 63(Suppl.14), 148-163.
Mond, J., T. Meyers, R. Crosby, P. Hay and J. Mitchell (2008) Excessive exercise and eating-disordered behaviour in young adult women: further evidence from a primary care sample. European Eating Disorders Review 16, 215-221.
Smith, R. (2008). Drunkorexia slimmers skip means for alcohol. Daily Telegraph. Retrieved on May 25, 2009
Stoppler, M.C. (2008). Drunkorexia, manorexia, diabulimia: New eating disorders? MedicineNet. Retrieved on May 25, 2009.
Psicologa clinica e della riabilitazione, psicoterapeuta in formazione. Ho conseguito un Master in psicodiagnostica clinica e forense. Lavoro come libera professionista e collaboro con un centro di psicologia( Alternativamente) nella provincia di Roma. Sono mamma di tre bambini.