Terapia a Seduta Singola: Terapia al Bisogno
Nuovi bisogni nel nostro tempo
Cercando nel vocabolario il significato della parola bisogno, possiamo notare che viene dal termine germanico bisundhi che significa lavoro, cura.
Non solo necessità di procurarsi qualcosa che manca, ma impegno e capacità di fare e costruire.
L’idea che fare un percorso di psicoterapia comporti un enorme dispendio di tempo e di denaro si discosta molto dalle nostre vite così smart e rapide.
Il nostro tempo, infatti, è caratterizzato dalla velocità, dall’accelerazione della Storia che pone nuove emergenze, nuove condizioni, nuove scelte da compiere.
Il rischio nel non stare a passo con questo rapido andare è di sentirsi smarriti, senza riferimenti sicuri, e di rinunciare a dare il proprio contributo costruttivo.
Questa velocità ci vede desiderosi di raggiungere traguardi, sogni, oggetti in maniera semplice e immediata. In questo desiderio rientra anche l’attenzione alla salute mentale.
La sfida di poter dare risposta ad un disagio in maniera istantanea è di certo allettante.
Questa sfida impone oggi allo psicologo la ricerca di nuovi strumenti per aiutare le persone nel momento in cui ne hanno bisogno, accompagnandole nel raggiungimento dell’obiettivo di cui hanno bisogno, nel tempo in cui ne hanno bisogno.
L’emergenza pandemica ci ha prepotentemente insegnato che qualsiasi certezza può sgretolarsi. Abbiamo accettato un cambiamento epocale in tempi molto brevi.
Il digitale e la socialità on line si sono rivelati strumenti potenti e alla portata di tutti.
Cena, spesa, acquisti, tutto direttamente sul pianerottolo di casa.
Anche lo psicologo è entrato nelle nostre case, attraverso le sedute on-line ed è più vicino alle nostre necessità.
Il tempo ha rallentato la sua corsa ma il vivere si è accelerato.
Il coronavirus ha ridisegnato una nuova normalità.
Nuovi bisogni, anche nella salute mentale.
Una risposta efficace a queste nuove necessità è data dalla Terapia a Seduta Singola.
Una risposta al bisogno nel momento del bisogno.
Cosa è la Terapia al Bisogno
La Terapia a Seduta Singola mette a disposizione delle persone la possibilità di un numero limitato di incontri. Concentrando il lavoro su ciò di cui hanno bisogno in quel momento.
Talvolta il numero degli incontri può anche essere uno soltanto.
Ciascuno di noi ha dei bisogni.
La possibilità di soddisfarli in un tempo breve, può diventare una grande conquista sia temporale che materiale.
La Terapia a Seduta Singola affonda le sue radici teoriche nel costruttivismo, dando alla persona la possibilità di cercare e costruire nuove realtà e di innescare un cambiamento consequenziale.
Un cambiamento nella percezione di se stessi, degli altri e del mondo.
Un terapeuta al bisogno offre un aiuto immediato ed efficace.
Massimizza tempi e risultati di ogni singolo incontro e lo fa non perdendo mai di vista la persona e le sue necessità.
La persona viene coinvolta in un processo fatto su misura per lei.
Penso alla realizzazione di un abito sartoriale. L’abito sarà cucito sulla persona, seguendo le linee del suo corpo.
Sarà pertanto unico nel taglio e nello stile. Quello stesso abito non potrà calzare a pennello su nessun altro.
Questo farà sentire chi indossa quell’abito, a proprio agio. Comodità e senso di appartenenza, oltre alla soddisfazione di aver partecipato alla realizzazione di un capo fatto su misura.
La partecipazione farà sentire la persona parte attiva di un processo al quale si sentirà profondamente legata.
Costruire insieme rappresenta un elemento di distinzione per il terapeuta nella enorme offerta di professionisti presenti nel mercato della salute mentale.
Per la persona invece costituisce una linea guida nella scelta tra i tanti servizi offerti.
Un servizio psicologico al bisogno che si adegua ad una società profondamente cambiata.
Una società in cui i bisogni delle persone e le persone stesse sono in continua evoluzione. Non possiamo, come operatori sanitari, restare fermi a guardare.
Pensare che il nostro metodo sia universale e che siano i fruitori dei nostri servizi a doversi adeguare, altro non farà che allontanare da noi i clienti o i potenziali clienti.
Perché scegliere una Terapia a Seduta Singola?
I motivi possono essere molteplici:
- lo psicologo ha un ruolo diverso rispetto a quello che culturalmente hanno in mente le persone.
Non è colui che risolve i problemi.
Non ha nessun superpotere o pozione magica.
Semplicemente aiuta a risolvere un problema, tenendo conto di diversi obiettivi e proponendo al cliente diverse possibilità.
Tra queste verrà poi individuata, in un processo di co costruzione, quella più calzante sulla persona.
Il tutto all’interno di un servizio capace di sposare le logiche e le nuove tendenze del nostro tempo, per andare incontro alle esigenze di costi e di tempi di ciascuno.
- uno psicologo può sbloccare la persona, avviando un processo di cambiamento.
Tale processo avrà il potere di innescare un meccanismo a catena.
Un piccolo passo, richiamerà a sè altri passi fino a raggiungere la meta finale.
La richiesta è quella che lo psicologo aiuti a premere il tasto di avvio, dia la spinta giusta affinchè la persona continui da sola il percorso e diventi artefice del proprio cambiamento.
- Rivolgendoti ad uno psicologo puoi dare una nuova chiave di lettura del problema.
Questo permetterà un cambio di prospettiva e la possibilità di intravedere nuove soluzioni.
Il parere dell’esperto viene ricercato per comprendere meglio e tranquillizzarsi rispetto ad una determinata situazione.
- lo psicologo offre uno spazio all’interno del quale sentirsi liberi di esprimersi. Senza critica o giudizio.
La ricerca di un momento per liberarsi di pensieri, emozioni, preoccupazioni.
L’idea di una terapia al bisogno può sembrare forte e rivoluzionaria ma in realtà la applichiamo in tanti ambiti della nostra vita.
Lo facciamo senza accorgercene.
Andiamo dall’oculista perché ci dia una nuova prescrizione di lenti, dal momento che notiamo di non vedere bene da lontano.
Oppure dal gommista per sostituire la ruota bucata.
O ancora dal dentista per curare una carie.
Funziona così anche per i bisogni psicologici.
Certo ci saranno situazioni che necessiteranno di tempi maggiori, ma allo stesso tempo ci saranno problemi risolvibili in tempi brevi.
A fare la differenza sono sia la persona con le sue risorse che lo psicoterapeuta con la sua capacità di porre al centro la persona.
E se dovessi aver bisogno “al bisogno” di un professionista formato in Terapia a Seduta Singola, ogni Martedì dalle 18:00 alle 20:00 gli psicologi del team “One session” sono a tua disposizione per una sessione gratuita di consulenza psicologica a seduta singola di 30 Minuti.
Per maggiori informazioni, puoi inviare una email a info@onesession.it o visitare la nostra pagina FB OneSession.it
Riferimenti bibliografici
Cannistrà F., Piccirilli F. (2021). Terapia Breve Centrata sulla Soluzione. Roma: EPC Editore
Psicologa, Mediatrice Familiare, Esperta in Scienze Forensi
Perché mi capita sempre la stessa cosa?
Ti è mai capitato di sentirti “intrappolato” nel tuo problema?
Hai mai provato la sensazione che, per quanti sforzi tu possa fare, ti capiti sempre la stessa cosa?
Se hai risposto sì, forse è perché per affrontare le tue difficoltà stai mettendo in atto una tentata soluzione disfunzionale.
Quando la soluzione è il problema
Il concetto di Tentata Soluzione Disfunzionale è stato elaborato intorno agli anni ’70 dal Mental Research Institute di Palo Alto.
Questo gruppo di terapeuti si mise a studiare cosa fanno le persone quando devono affrontare un problema: ovviamente, cercano un modo per risolverlo.
Essi si accorsero, però, che spesso è proprio ciò che facciamo per migliorare una situazione a mantenerla uguale, se non addirittura a peggiorarla!
“Ma perché dovrei continuare a ripetere un comportamento che non mi aiuta?” ti starai chiedendo.
Perché la nostra mente funziona in modo schematico! Quindi, ogni volta che ci troviamo di fronte ad un problema e dobbiamo trovare una soluzione, tendiamo ad avere comportamenti che in passato hanno funzionato, generalizzandoli. Questo permette un gran risparmio a livello di energie cognitive: è molto più facile utilizzare un vecchio stratagemma che si è rivelato funzionale piuttosto che tentare nuove strade. (Nardone, 2013)
Schemi troppo rigidi
Il problema nasce quando la soluzione che in passato ha funzionato non si adatta alla situazione presente e non risolve il problema.
Che facciamo in quel caso?
Crediamo di non aver insistito abbastanza, di non aver applicato la soluzione nelle giuste dosi e quindi reiteriamo l’applicazione degli stessi schemi rigidi senza interrogarci sulla loro reale efficacia. Col fine di mantenere le cose come stanno, o di peggiorarle. (Watzlawick et al. 1974)
Facciamo un esempio
Maria teme i luoghi affollati, quindi li evita o, se proprio deve andarci, chiede di essere accompagnata.
Evitare e affidarsi all’aiuto altrui sono tentate soluzioni disfunzionali tipiche di chi soffre di stati ansiosi.
Evitare la situazione ansiogena avrà un effetto all’apparenza tranquillizzante per Maria. Dall’altra, però, è come se si stesse inviando da sola il messaggio che alcune situazioni sono troppo grandi per lei, o troppo minacciose. Allo stesso modo, chiedendo l’aiuto altrui, si racconterà di non essere in grado di potercela fare da sola.
Replicando queste soluzioni, che all’apparenza la preservano dagli stati d’ansia tanto temuti, Maria non fa altro che accumulare tensioni e messaggi negativi, con l’esito di esacerbare il suo problema.
Cosa fare quindi?
Quando le circostanze cambiano, è necessario adattarci e creare nuovi modi di affrontare le situazioni. Applicare vecchie soluzioni a nuovi problemi può venire spontaneo. Quando però notiamo che le modalità con cui affrontiamo la situazione non la migliorano, è bene interrogarsi sulle soluzioni che si stanno usando, per bloccare quelle disfunzionali e sostituirle con altre più efficaci.
Il team di Onesession è composto da psicologi formati in Terapia a Seduta Singola, che possono aiutarti ad individuare queste soluzioni disfunzionali e a trovare delle strategie di risoluzione del problema più adeguate.
Da questo mese di settembre, per un periodo limitato, ogni martedì dalle 18 alle 20 i terapeuti del nostro team One Session terranno degli incontri gratuiti aperti a tutti utilizzando la Terapia a Seduta Singola. Contattaci per maggiori informazioni https://www.onesession.it/
Riferimenti bibliografici
Nardone (2013), Psicotrappole, Ponte delle grazie
Watzawick, J.H. Weakland, R. Fisch (1974), Change, sulla formazione e la soluzione dei problemi, Casa Editrice Astrolabio, Roma
Il mio lavoro è orientato al futuro e alla valorizzazione delle risorse delle persone che si rivolgono a me, in ottica di totale collaborazione.
Fai sempre più fatica a prendere sonno? Ecco per te 10 + 1 consigli naturali contro l’insonnia!
Ti giri e ti rigiri nel letto senza riuscire a prendere sonno? La testa rimugina sempre sugli stessi pensieri e non c’è modo di cacciarli via? Hai provato perfino a contare le pecore: “Una pecora, due pecore, tre pecore e così via” ma niente, non funziona. Le ore passano e tu non prendi sonno.
Oppure ti capita di svegliarti nel bel mezzo della notte o troppo presto al mattino e non riuscire a riaddormentarti in nessun modo? Il tuo sonno è sempre molto leggero e di scarsa qualità. Quando ti svegli ti accorgi di non essere mai totalmente riposato. Ti senti la testa pesante, affaticato, insofferente, quasi più stanco di quando sei andato a dormire.
Dormi sempre di meno, ormai le tue ore di sonno si sono ridotte a 3 o 4 per notte da più di un mese, con una conseguente compromissione delle attività giornaliere. Non riesci a rimanere concentrato a lavoro, non hai le forze per andare in palestra, coltivare i tuoi hobby o uscire con i tuoi amici. Insomma sei stanco per qualsiasi cosa.
Tranquillo!
L’insonnia è molto comune e nella maggioranza dei casi è la più semplice da curare senza farmaci. Infatti prima di intraprendere qualsiasi terapia, cerca di individuare la causa responsabile della tua insonnia.
Mi raccomando! Non ricorrere assolutamente subito ai farmaci e soprattutto senza una prescrizione medica. Non sempre l’insonnia necessita di farmaci per essere curata e in quei casi il loro utilizzo potrebbe solo comportarti altri problemi.
Ricorda che la somministrazione smodata e sregolata di farmaci contro l’insonnia può creare dipendenza, sonnolenza diurna, eccessiva sedazione, riduzione delle capacità cognitive, amnesia anterograda, pericoli durante l’uso di veicoli e macchinari. Pertanto ti consiglio di non assumere questi farmaci oltre il termine stabilito dal tuo medico nel caso in cui li avesse ritenuti necessari.
Se invece hai già verificato che la tua insonnia non è associata ad uno specifico disturbo, allora probabilmente la causa potrebbero essere alcune tue abitudini di vita quotidiana che senza rendertene conto vanno a interferire con il sonno.
In tal caso puoi cominciare a modificare queste tue “cattive” abitudini, seguendo questi 11 consigli che ti riporto qui di seguito:
1) Impara a rilassarti, magari aiutandoti con un bagno caldo prima di andare a dormire o praticando yoga o corsi di rilassamento. Lo stress e l’ansia incidono molto sulla qualità del sonno;
2) Concentrarti su qualcosa di piacevole, cercando di allontanare le preoccupazioni della giornata;
3) Regolarizza i tuoi orari, alzati presto al mattino e vai a dormire entro la mezzanotte;
4) Riduci il più possibile la nicotina, l’alcool e l’uso di bevande eccitanti come: caffè, tè, bibite a base di guaranà, matè o ginseng e anche la cioccolata soprattutto prima di andare a dormire;
5) Non dormire durante il pomeriggio. Nonostante i pisolini pomeridiani ti sembrano una buona soluzione, possono ripercuotersi negativamente nel sonno notturno ostacolando l’addormentamento;
6) Evita di utilizzare il computer o altri dispositivi luminosi prima di metterti a letto, forse non lo sai ma fanno attivare ulteriormente il tuo cervello rendendo il sonno irrequieto;
7) Segui una sana alimentazione, assumendo cibi sani e leggeri e prediligendo soprattutto cibi ricchi di magnesio come: mandorle, crusca, arachidi, riso integrale, nocciole e lenticchie. Evita il consumo di alimenti troppo difficili da digerire come fritti e cibi ricchi di grassi soprattutto prima di andare a letto così da non appesantire la digestione;
8) Non andare immediatamente a letto dopo il pasto serale ma fai passare almeno un paio d’ore così da non andare a dormire mentre sei in digestione;
9) Pratica attività fisica in modo costante, utile sia per scaricare lo stress che per produrre endorfine;
10) Assumi la melatonina, una sostanza naturale che produce il nostro corpo e che serve a regolarizzare il ciclo sonno-veglia ma che tende a diminuire quando si dorme poco;
11) Invece di ricorrere ai farmaci prova a utilizzare dei rimedi naturali che puoi trovare in erboristeria come i Fiori di Bach oppure tisane e infusi che contengono piante rilassanti come Camomilla, Melissa, Passiflora, Tiglio e Valeriana.
Di suggerimenti c’è ne sono diversi ma intanto prova ad iniziare con questi, e se ti accorgi che il tuo problema non è ancora risolto, allora prova a rivolgerti ad un terapeuta che ti aiuterà a scoprire per quale motivo non riesci a dormire bene.
Non servono terapie interminabili, in molti casi si è osservato che anche dopo una singola seduta di terapia, è possibile ottenere degli ottimi risultati. Non aspettare ancora per contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito onesession.it, il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
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Metti uno STOP al lavoro! 4 buoni motivi per andare in vacanza
Fa caldo, sudi, quasi fai fatica a respirare, ti sventoli di continuo con i fogli che tieni in mano mentre lavori, sbuffi. Si, è arrivata l’estate e in ufficio è senza dubbio più faticoso lavorare. E oltre al caldo si fa sentire anche la stanchezza di un intero anno lavorativo.
Per fortuna che insieme al caldo afoso è arrivato anche il tempo delle ferie. E’ finalmente ora di andare in vacanza!
Dopo un intero anno a lavorare, un anno tra scadenze da rispettare, incontri di lavoro, progetti da terminare, cambiamenti da apportare, idee da scartare, colleghi da gestire e tensioni da appianare, è finalmente giunto il momento di staccare la spina.
Si, lo stress comincia ad essere difficile da controllare. La testa sta per andare in tilt, ti serve di rallentare, ti serve proprio una vacanza tra relax e bagni rinfrescanti. Puoi partire con la tua famiglia o magari con gli amici, puoi andare al mare o in montagna, insomma ogni posto va bene purchè ti permetta di ricaricarti.
Quindi cosa aspetti, prepara la valigia!
Non sarai mica anche tu, una di quelle persone che non riesce mai a staccare veramente dal lavoro e a godersi a pieno le vacanze per rilassarsi e ricaricare le energie?
Magari parti per le vacanze ma tra tablet, cellulare e computer sei sempre in contatto con l’ufficio, magari ti avvantaggi il lavoro perché hai paura di rimanere indietro o ancor peggio ti senti in colpa a volerti rilassare quando sarebbe più giusto che lavorassi.
In tal caso, ti voglio dare 4 buoni e soprattutto sani motivi per dire stop al lavoro e andare serenamente in vacanza:
- Se non ti concedi una pausa per rilassarti, la tua vista e la tua mente che magari solitamente tieni per ore fisse davanti il computer, potrebbero portarti forti mal di testa e un abbassamento della vista.
- Dedicarti del tempo lontano dal lavoro e soprattutto dallo stress, ti sarà fondamentale per poter pensare in modo creativo e strategico e poter così aumentare la produttività. La creatività e la produttività, infatti, se non dai modo al cervello di ricaricarsi tenderanno a diminuire.
- Lo sai che uno dei peggiori nemici delle tue relazioni affettive è proprio lo stress? Quest’ultimo infatti, non porta solo stanchezza mentale ma anche stanchezza fisica, con una conseguente perdita di energia che ti indurrà a non voler uscire e trascurare perfino le persone care, come parenti e amici. Quindi una vacanza tra relax e amici ti farebbe bene non solo perché ti permetterebbe di rilassarti ma anche perché ti consente di socializzare con le persone a cui sei legato e che sembra non hai mai tempo di vedere.
- Per ritrovare la concentrazione e calmare i nervi, non è per forza necessario che tu vada in vacanza in posti lontani, puoi “staccare” un po anche rimanendo a casa tua.
Se non hai voglia di partire, infatti, puoi rimanere semplicemente a casa e magari dedicare il tuo tempo ai tuoi hobby o perché no, alla pratica del training autogeno e della meditazione.
Queste “tecniche” di rilassamento potranno esserti utili non solo durante le vacanze, ma soprattutto quando torni a lavoro. Ti permetteranno infatti di scaricare la tensione giornaliera durante le piccole pause quotidiane migliorando, così, la tua concentrazione e trovare nuovi spunti e idee.
Come hai visto, partire per una bella vacanza, non serve soltanto per ridurre i livelli di stress ma anche per innalzare i tuoi standard produttivi. Fare una pausa assume così un doppio valore funzionale, fisiologico e psicologico, permette al cervello di fermarsi un attimo per riprendere a lavorare con più grinta e aiuta la mente a esplorare nuovi percorsi motivazionali.
Quindi non né guadagni solo tu, ma anche il tuo lavoro.
Allora! Ti ho convinto? Parti sereno o nella valigia non puoi proprio fare a meno di mettere computer, tablet e tutto ciò che potrebbe servirti per lavorare?
Se ti accorgi di non riuscire mai a staccare veramente dal tuo lavoro, prima che possa diventare un problema vero e proprio, sempre se già non lo sia, prova a contattare un terapeuta che ti aiuti a scoprire se questa tua incapacità di staccare la spina, non nasconda altro.
Basta fare vacanze dove ti rilassi solo apparentemente mentre con la testa e forse anche con il corpo stai ancora lavorando. Anche tu meriti di farti una vera vacanza!
Non servono terapie interminabili, vedrai che già dopo una singola seduta di terapia, potrai ottenere degli ottimi risultati. Non aspettare ancora per contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito www.onesession.it, il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
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Pensi di soffrire della Sindrome da Burn-out? Scopriamolo subito!
Sei un infermiere, un medico, un assistente sociale o un operatore di un ospedale psichiatrico? Be, in tal caso immagino che la tua professione ti piaccia molto, essendo rivolta ad aiutare gli altri, vero?
Certo non deve essere semplice occuparsi di pazienti cronici, incurabili o morenti, oltre ovviamente a di quei malati che hanno una prognosi meno grave!
E’ un pò di tempo che sei irrequieto, stanco fisicamente e mentalmente. Ti senti esaurito, hai cominciato a mollare i tuoi hobby, i tuoi amici, a diventare apatico e a non voler più uscire. Ti senti svuotato e non riesci a reagire!
La notte non dormi bene, soffri di insonnia da un bel pò di tempo ormai, e questo, ovviamente, non contribuisce positivamente alla tua situazione, dato che la mattina ti svegli sempre stanco e nervoso. All’improvviso durante la giornata si presenta tachicardia, forti mal di testa e nausea.
Con il tempo ti sei accorto che questi sintomi ti hanno portato ad uno stato depressivo, ad avere una bassa stima di te stesso, al senso di colpa e alla sensazione di fallimento per non riuscire ad essere all’altezza delle aspettative che hai sempre avuto rispetto il tuo ruolo lavoro.
Così è sorta la rabbia, il risentimento rispetto l’ambiente di lavoro, una forte resistenza ad andarci e una forte difficoltà nelle relazioni con gli utenti perché non riesci a garantirgli un servizio adeguato e rispondere opportunamente alla loro richiesta.
Hai cominciato ad isolarti dagli altri con cui lavori, ad essere sospetto e paranoico, cinico e apparentemente indifferente a quello che accade a lavoro. Non sai perché, è così e basta!
Si! Credo proprio che stai sperimentando una forte situazione di stress lavorativo conosciuta come Bourn-out!
Il burn-out è uno stato di esaurimento emotivo, mentale e fisico causato prevalentemente da uno stress lavorativo prolungato ed eccessivo. La persona che lo vive, si sente sopraffatta e svuotata emotivamente. Tende a perdere motivazione e interesse per il lavoro che ricopre, presenta una perdita delle energie e una sensazione di impotenza che aumenta sempre di più.
Questa sindrome è stata osservata per la prima volta negli Stati Uniti nelle persone che svolgevano diverse professioni d’aiuto, come: medici, infermieri, medici, assistenti sociali, poliziotti, insegnanti, operatori di ospedali psichiatrici, ecc.
Ad oggi, non esiste una vera e propria definizione condivisa universalmente del termine burn-out, pertanto, Cherniss (Cherniss,1986) con il termine “burn-out syndrome” definiva la risposta di un individuo ad una situazione lavorativa percepita come stressante e nella quale non disponeva di risorse e di strategie comportamentali o cognitive adeguate a fronteggiarla.
Maslach (Maslach C., Leiter P.,2000) riteneva invece che il burn-out è un insieme di manifestazioni psicologiche e comportamentali che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente e che possono essere raggruppate in tre componenti: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale.
Indipendentemente dalla definizione, ciò su cui si è d’accordo, è il fatto che gli effetti negativi del burn-out non coinvolgono soltanto te, ma anche le persone a cui offri un servizio inadeguato ed un trattamento poco umano, e ciò, forse non ci hai pensato, potrebbe mettere a rischio il tuo posto di lavoro per non parlare poi del fatto che potrebbe indurti all’abuso di alcol o di farmaci.
Se ti sei riconosciuto nella sindrome da burn-out, non sentirti in colpa, a determinarne l’insorgenza, infatti, non concorrono solo gli aspetti individuali, ma anche i fattori socio-ambientali e lavorativi e i fattori socio-organizzativi come le aspettative connesse al ruolo che si ricopre, le relazioni interpersonali, le caratteristiche e l’organizzazione stessa del lavoro che si ricopre.
Smetti con i sensi di colpa e prova piuttosto a uscire da questa situazione di forte malessere!
Se pensi che sola non puoi farcela, non esitare a contattare un terapeuta che potrà aiutarti a reagire, affrontare e soprattutto a gestire questa situazione, evitando di aggravare ulteriormente il tuo stato di esaurimento emotivo, mentale e fisico. Ricerche hanno dimostrato che, spesso, anche con una singola seduta di terapia, puoi ottenere ottimi risultati.
Contatta quindi uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola
cercando sul nostro sito www.onesession.it , il terapeuta che ti è più vicino
e soprattutto più adatto alle tue esigenze.
Bibliografia:
Cherniss, C. (1986). Different weys of thinking about burnout. In E Seidman & J. Rappaport (Eds.) Redefining social problems. New York: Plenum, 217-229.
Maslach, C., Leiter, P. (2000). Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione la lavoro. Centro studi Erickson.
Disturbo da accumulo: non butto via mai niente
Quante volte ti sarà capitato di comprare delle cose inutili, di cui magari ti sei liberato poco tempo dopo, perché hai capito che in fondo non ti servivano. Souvenir, gadget, pupazzi, portachiavi: quanti acquisti si possono fare! Nella normalità, tuttavia, ci si mette poco a rendersi conto se un oggetto è inutile o meno. E prima di accumularne in casa centinaia e centinaia, si cerca di trovare ad essi un nuovo impiego: il più delle volte, per “liberare spazio”, gli oggetti vengono buttati o regalati.
Tutto ciò non accade in chi soffre di un disturbo da accumulo. Queste persone, infatti, non solo si procurano innumerevoli oggetti, spesso inutili, ma il più delle volte non riescono a separarsene. Il disturbo da accumulo, pertanto, detto anche disposofobia, porta ad accumulare di tutto, al punto da ingombrare ogni spazio di vita quotidiano.
Caro oggetto, non riesco a separarmi da te
Il disturbo di accumulo è una patologia che si caratterizza per la tendenza ad accumulare oggetti in maniera patologica. Secondo i principali manuali diagnostici è definito come l’impossibilità di liberarsi di un gran numero di beni, apparentemente inutili, che finiscono per ingombrare gli spazi vitali, tanto da precludere le attività di vita quotidiana. Tale comportamento, per essere definito patologico, deve però comportare un disagio clinicamente significativo.
L’accumulo può essere limitato ad alcuni oggetti o, indistintamente, essere rivolto a tutto ciò che passa sotto tiro. Nel primo caso la persona è portata a “collezionare” solo un certo tipo di cose, come giornali, vestiti o addirittura animali. Nel secondo, invece, si accumula di tutto: carte, coperte, riviste, bollette scadute, portapenne. Proprio di tutto. Tra la persona e ogni singolo oggetto, comunque, si creerà un legame talmente forte, che sarà impossibile da interrompere.
L’impossibilità di separarsi da ciò che si è accumulato, secondo Steketee, sussiste per tre principali motivi. Il primo attiene a ragioni di tipo affettivo. Hai presente l’amore che tiene legate due persone? E’ proprio quello che prova l’accumulatore nei confronti di ogni oggetto: come potrebbe mai liberarsene?
Il secondo, invece, fa riferimento a motivazioni strumentali. L’oggetto, ovvero, potrebbe tornare sempre utile, anche quando non ha nessuna utilità. L’accumulatore riesce a trovare un’utilità anche a un fermaglio per capelli rotto! Perché buttarlo, quindi?
Infine, il terzo motivo rimanda a ragioni estetiche o intrinseche. Qualsiasi oggetto di cui l’accumulatore è entrato in suo possesso è bello, utile e dunque vale la pena conservarlo perché “non si sa mai”.
Perché si accumula in maniera patologica
Alla base di un disturbo da accumulo vi è in genere una pregressa storia traumatica. La persona, ovvero, ha sviluppato il comportamento di accumulo come reazione disfunzionale a qualcosa che in passato ha vissuto come negativo. Negli oggetti, pertanto, ritrova paradossalmente quel conforto o quella serenità affettiva che in passato è mancata.
Per spiegarmi meglio, voglio richiamarti alla mente quei pantaloni che, a livello delle ginocchia hanno delle toppe, perché col passare del tempo, si sono usurati. Ora immagina che anziché una toppa, nel pantalone siano presenti un’innumerevole quantità di strappi e buchi. Se paragoniamo il pantalone alla vita di una persona e gli strappi ai traumi vissuti, gli oggetti di chi soffre di disposofobia sono proprio le toppe che servono per nascondere quei buchi/traumi. Ma quei buchi sono talmente numerosi, che gli oggetti necessari per poterli nascondere saranno infiniti! Ed è qui che nasce il bisogno di accumulare.
In un certo senso, e a ragione, il disturbo di accumulo ricorda il disturbo ossessivo compulsivo, in quanto il gesto di accumulare è paragonabile proprio a una compulsione. Probabilmente, dietro quel gesto, vi è il desiderio di placare un’ansia sottostante piuttosto viva che, nel tempo, si è, anch’essa, andata accumulandosi.
Conseguenze: è possibile uscirne?
E’ facile immaginare a che tipo di conseguenze possa portare un disturbo da accumulo, anche se queste ultime dipendono certamente dal livello di gravità della patologia. Tra le principali conseguenze vi è sicuramente un isolamento sociale più intenso e la rottura della maggior parte delle relazioni.
Alle relazioni, d’altronde, l’accumulatore preferisce i propri oggetti: senza di essi, in fondo, si vedrebbero tutti i buchi del proprio pantalone! Piuttosto che separarsi dalle proprie collezioni, quindi, l’accumulatore preferisce separarsi dalle persone.
Potranno emergere anche importanti problemi di salute o finanziari, in quanto l’accumulare diverrà col tempo un’attività che invaderà ogni spazio di vita dell’individuo. Persino le attività più semplici, come lo spostarsi da casa, potranno divenire complesse. Qualsiasi spostamento, infatti, sarà sempre difficoltoso, poiché la persona sarà tentata di fermarsi più volte per raccogliere qualsiasi tipo oggetto.
Da un punto di vista psicoterapeutico è possibile fare qualcosa, almeno per ridurre l’incidenza che il disturbo può avere nella vita di tutti i giorni. Molte terapie hanno sviluppato, in questa direzione, protocolli di successo. L’obiettivo, in genere, è quello di ridurre il comportamento di accumulo a un più semplice atteggiamento “collezionista”, ridando alla vita il significato che merita e dislocando gli affetti dagli oggetti alle persone.
Nell’ambito della terapia breve, ad esempio, si inizierebbe il processo di cura invitando il paziente a distaccarsi, gradualmente, dall’oggetto emotivamente più piccolo, ovvero quello affettivamente meno significativo. Successivamente si arriverà a tutti gli altri, elaborando a poco a poco i possibili traumi che gli oggetti accumulati nascondono.
Tale processo, in casi meno gravi, potrebbe essere avviato e risolto anche all’interno di una terapia a seduta singola: in questo caso, però, l’intervento sarà più incisivo, e cercherà di modificare sia il comportamento di accumulo, sia il significato che si nasconde dietro quest’ultimo.
Bibliografia
Mancini, F., Perdighe, C. (2015). Il disturbo da accumulo, Raffaello Cortina, Milano.
Steketee, G. (2010). A brief interview for assessing compulsive hoarding: The Hoarding Rating Scale-Interview, Psychiatry Research, 178, 147-152.
Mobbing: violenza psicologica a lavoro
Non ce la fai proprio più, sei stanco fisicamente e psicologicamente, vorresti quasi ti venisse la febbre piuttosto che andare a lavoro, eppure, una volta ti piaceva!
Ora, ogni mattina non appena suona la sveglia, con la luce del giorno ecco che arriva anche l’ansia e il mal di stomaco. Andare a lavoro ormai è diventato troppo pesante. In azienda, il tuo capoufficio non si regola proprio, si rivolge a te sempre attraverso critiche, calunnie e con un comportamento aggressivo e vessatorio.
Sembra faccia di tutto per emarginarti, sembra proprio c’è l’abbia con te!
Ti ha spostato da un ufficio all’altro quasi senza avvertirti, ti ha affidato compiti dequalificanti e ti mette sistematicamente in ridicolo di fronte a clienti, colleghi e superiori. Sopporti da tanto e ancora ti chiedi quale sia lo scopo di tali comportamenti e perché si comporta in questo modo con te. Hai sentito parlare tanto di Mobbing e ti stai chiedendo se ne sei o no una vittima?
Allora vediamo un attimo, se per esempio, il tuo capoufficio arriva in ritardo a lavoro, nervoso e arrabbiato perché gli hanno tamponato l’auto nuova mentre veniva in ufficio, e quando arriva tutto trafelato, tu gli riferisci subito un problema lavorativo o che deve fare una telefonata a un cliente indigesto, allora in questo caso è praticamente sicuro che verrai trattato male e ti farà sentire umiliato e ferito.
E’ vero! Dovrebbe controllarsi perché non è colpa tua se lo hanno tamponato, però diciamo che comunque, questo suo modo di fare aggressivo e sicuramente poco piacevole da subire, fondamentalmente è legato a un fattore situazionale, che in questo caso è l’auto tamponata, ma potrebbe essere per esempio: una giornata storta, problemi privati, un forte mal di testa, o altro, e quindi i modi fastidiosi che ne derivano sono molto sporadici e non possiamo parlare di Mobbing.
Se invece, il comportamento da prepotente del tuo capoufficio è una vera e propria abitudine, le critiche, le umiliazioni e l’aggressività nei tuoi confronti sono ormai quotidiani e durano già da parecchio tempo, allora possiamo parlare di Mobbing.
Il Mobbing infatti si manifesta con una serie di azioni aggressive, che vengono messe in atto dal “mobber” in modo sistematico e si ripetono per un lungo periodo di tempo, con lo scopo ben preciso di danneggiare una determinata vittima o il “mobbizzato”.
Il mobbizzato viene assalito e aggredito intenzionalmente da questi mobber che fanno di tutto per distruggerlo a livello sociale, professionale e ovviamente psicologico, portandolo all’isolamento e all’emarginazione.
Qual’è il loro scopo? Può essere vario, ma sicuramente sempre distruttivo. Un mobber potrebbe volerti eliminare perché sei divenuto in qualche modo “scomodo” e con il suo comportamento non cerca che indurti a dare le dimissioni o di provocare un tuo licenziamento.
Se ti sei riconosciuto nel mobbizzato, non vergognarti a chiedere aiuto. Lo sai che nei casi più gravi il tuo capoufficio potrebbe addirittura arrivare a sabotarti il lavoro e ad azioni illegali? Quindi cosa aspetti a fare qualcosa?
E’ importante tu richieda un supporto di tipo sociale e di tipo legale e che ti rivolga a un terapeuta che possa aiutarti a riprenderti a livello psicologico lavorando su tutti quegli aspetti negativi generati in te dal mobbing, come: la vergogna, la disistima, il fatto di sentirti umiliato, di esserti ritirato nella solitudine ma anche per poter gestire tutta la rabbia provocata dai comportamenti subiti dal tuo capoufficio.
Se non vuoi che la tua condizione peggiori, cosa ne dici di chiedere subito aiuto a un terapeuta? Ti sembrerà strano, ma ricerche hanno dimostrato che spesso, anche con una singola seduta di terapia, imparando a recuperare e utilizzare le tue risorse potrai lavorare su tutti questi aspetti che ti ho appena riportato e vedrai che il tuo capoufficio non riuscirà più ad avere la meglio su di te!
Contatta uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito www.onesession.it, il terapeuta che ti è più vicino e soprattutto più adatto alle tue esigenze.
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I no che aiutano a crescere: quando la crescita passa attraverso il divieto
Il “dire di no” è un modo che un genitore ha per far crescere e sviluppare il proprio figlio. Il “no” infatti è sinonimo di divieto, ma anche di regole e di disciplina. Porre dei limiti all’esuberanza dei bambini è talvolta fondamentale per la loro stessa crescita. La psicologa Phillips considera per questo il “no” come un vero e proprio strumento di crescita.
Tuttavia, per far sì che i no fungano da reale aiuto per la crescita, è doveroso dosarli e utilizzarli con parsimonia. Non basta, ovvero, dire di no per far crescere un bambino: bisogna comunicargli anche il significato che si cela dietro quel no. O, quantomeno, farglielo capire.
Il periodo dei no compare durante l’infanzia, intorno ai due anni, e in adolescenza. In entrambi i periodi, sotto una diversa prospettiva, iniziano i primi contrasti tra la genitorialità e i figli.
L’età dei no: l’infanzia e la genitorialità
Durante l’infanzia, il no dei genitori risponde al no dei figli. I bambini, cioè, a partire dai due anni, iniziano a utilizzare l’espressione “no!” per affermarsi e costruire la propria differenziazione. Ovviamente siamo ancora agli inizi del processo di crescita, e i no riguardano, ad esempio, il non voler andare all’asilo, il non voler fare i compiti o il non voler mangiare un determinato cibo.
Talvolta i bambini di quell’età dicono no a tutto, compreso quello che vorrebbero fare, solo per il gusto di sperimentare. Dichiarare l’indipendenza, seppur ancora illusoria, diventa un primissimo modo, così, per affermarsi e assumersi delle leggerissime responsabilità. E’ proprio per tale motivo che le proteste infantili di questa età vanno normalizzate, perché il rifiuto è spesso sinonimo di uno sviluppo mentale corretto.
Il compito dei genitori, in questa delicata fase dell’infanzia, è quello di rispondere ponendo dei limiti e dando delle regole. A quell’età, infatti, il bambino è in preda a una voglia di vivere immensa, si sente “onnipotente” e vuole a tutti i costi fare solo quello che gli piace. E come non dargli ragione!
Una genitorialità salda e responsabile, tuttavia, riesce a porre dei limiti a questa esuberanza ponendo, per l’appunto, dei “no”. Limiti che non devono essere paragonati soltanto a divieti, ma come a delle vie d’uscita per una crescita più sana. E’ come se il bambino si trovasse, a partire dai due anni, a dover percorre da solo una strada piena di bivi e deviazioni. Il compito dei genitori è dunque quello di direzionare il figlio lungo la strada corretta. E per farlo, necessariamente dovrà dire: “No, quello non si fa!”.
Si ma… quali no aiutano a crescere?
Il non dire mai di no, anziché far bene, potrebbe avere delle conseguenze negative nella crescita dei bambini. E’ chiaro, però, che anche dire sempre di no potrebbe avere delle conseguenze altrettanto negative. Rischiando di fare un gioco di parole, pertanto, occorrerebbe darsi dei limiti nel dire di no.
A tal proposito, Phillips ha elencato una serie di no che è doveroso dare ai bambini di due anni per aiutarli a crescere.
- uno di questi è, ad esempio, il vietare ai bambini di dormire sempre in braccio alla madre: si rafforzerebbe l’idea che solo la madre è sinonimo di sicurezza e amore;
- altro no fondamentale riguarda il non dargli sempre cibo quando il bambino piange: gli si insegnerebbe che il cibo è la panacea di tutti i mali e, nel tempo, potrebbero sorgere problemi alimentari.
Non bisogna, inoltre, andare in ansia se il bambino piange o è capriccioso. Spesso in questi casi gli si da un “contentino” per farlo stare buono. In realtà, così facendo, gli si comunica un messaggio di insicurezza, quando lui invece aveva bisogno solo di un po’ di conforto e comprensione. Finirebbe, in definitiva, per non imparare a gestirsi da solo: se i bambini, infatti, non imparano a sforzarsi per ottenere ciò che vogliono, potrebbero non sviluppare mai una sana motivazione interna.
Lo stesso, in un certo senso, vale anche per lo svezzamento. E’ importante dire di no, in questo caso, per permettere al bambino di aprirsi al mondo, e non rimanere legato in un rapporto esclusivo madre-bambino.
Per uguale motivo, altri no che aiutano a crescere sono:
- non farlo/a dormire tutte le notti nel lettone;
- non assecondarlo/a troppo;
- non permettergli di ottenere sempre e subito quello che vuole.
E l’adolescenza?
Al di là dell’infanzia, è inevitabile che i no più duri e oppositivi arrivino anche in un’altra fase delicatissima della vita: l’adolescenza. In questo periodo i contrasti tra genitori e figli sono spesso molto più cruenti, e nascondono significati ben più profondi rispetto a quelli infantili.
Il desiderio di indipendenza e di autonomia nei ragazzi è infatti ben più forte, così come il significato che dietro ad essi si cela. Il no di un adolescente equivale a una ferma opposizione e affermazione della sua individuazione. Se riprendiamo l’esempio della strada di prima con tanti bivi e deviazioni, sarà più difficile, in questo caso, mantenere il ragazzo lungo la giusta via di crescita.
Difficile, ma non impossibile. Esseri bravi genitori, in tale circostanza, significa anche dire di no ai propri figli, pur lasciandoli andare. A volte sono necessarie molte sofferenze e sacrifici, ma il sorriso e la maturità che alla fine della strada il bambino-ragazzo vivrà, sarà di ineguagliabile valore!
Bibliografia
Philipps, A. (1999). I no che aiutano a crescere, Feltrinelli, Milano.
5 consigli per superare una storia finita da poco
Quando una storia finisce, la vita non c’è dubbio cambia, ma la direzione del cambiamento sai da chi dipende? Non vorrei sbagliarmi ma sono sicura dipenda da te! E per far questo è necessario che tu ti metta al primo posto. Ovvio, questo certamente non significa trascurare affetti e doveri, ma magari semplicemente imparare a gestirli in modo diverso.
Quando ci si lascia, in una prima fase è inevitabile e anche giusto soffrire e stare male poiché ciò è necessario per elaborare e accettare l’evento, ma dopo questo primo momento diventa altrettanto essenziale che tu ti rimetta in carreggiata.
Le strade a volte si dividono, le vite cambiano, la quotidianità si trasforma completamente ed è giusto che venga ricostruita partendo da zero, facendo ordine nel caos in cui quasi sicuramente ti senti.
Arriva un momento in cui dovrai essere meno severa con te stessa, in cui dovrai imparare a perdonarti qualche eccesso e a non rimproverarti per eventuali colpi di testa o decisioni impulsive. È il tuo tempo di rivoluzione e di cambiamento, accettalo senza troppi rimorsi e sensi di colpa, non ti faranno che male e certamente non cambieranno le cose al meglio… anzi!
Hai provato quindi a fermarti un attimo e fare mente locale per cercare di capire quali sono le cose che ti potrebbero aiutare a stare meglio in questo momento? Probabilmente si, ma forse fermandoti ti sei accorta che ora non riesci proprio a fare ordine nella tua testa e nella tua vita e quindi a capire cosa ti farebbe bene.
Mi rendo conto e lo capisco benissimo, per questo motivo ho pensato che magari in questo momento di disordine, i 5 consigli che ti ho riportato qui di seguito, possono esserti utili per fare un po’ di chiarezza in questo momento di transito e perché no, magariinvogliarti a ripartire per quella che sarà la tua nuova vita.
1) Per cominciare a ricostruire la tua vita inizia a riarredare la tua casa
Probabilmente quando vi siete lasciati, condividevate una casa e anche se non era così sarà inevitabile vedere ovunque ricordi della vostra storia passata. E allora perché farsi del male? Inizia il tuo cambiamento cambiando casa se ti è possibile o semplicemente sistemandola come ti piace di più.
Non serve spenderci chissà quanti soldi o cambiare tutti i mobili, magari basta spostarli o perché no vedere se puoi dipingerli o trasformarli un po’, magari ti potrebbe divertire. Puoi riverniciare le pareti di un altro colore, cambiare qualche quadro alle pareti, inserire un tocco di colore diverso e andare a spulciare nei mercatini qualcosa che possa personalizzare il più possibile la tua casa.
2) Ridisegnati
Quante volte avrai sentito questa frase: “Quando una donna cambia taglio vuol dire che c’è un cambiamento nella sua vita”. Ebbene si, i capelli nei periodi di cambiamento rappresentano quello che si sta vivendo, e quando si decide di cambiare, di dare un taglio al vecchio, è opportuno rivoluzionare il proprio stile.
Che ne dici di farti quel taglio e quel colore di capelli che ti piace tanto, che hai visto indossato da quella o questa attrice, ma che hai sempre pensato non possa stare bene a te? Fatti qualcosa che non avresti mai pensato di fare veramente, così che guardarti allo specchio diventi una sorpresa, un nuovo piacere, ovvio, non significa che tu debba farlo senza criterio. Per questo magari potresti farti consigliare da un parrucchiere come modificare il taglio così da renderlo più armonioso possibile con il tuo viso.
3) Riallaccia vecchie amicizie
Spesso quando ci si fidanza, alcune donne, tendono a isolarsi un po’, dimenticandosi o trascurando le amicizie, per stare solo con lui. Ok, può anche andar bene nella prima fase, dato che la coppia ha necessità di conoscersi il più possibile per creare un legame più stabile. Ma andando avanti nel rapporto sarebbe meglio ritrovare un equilibrio tra il tempo dedicato al tuo partner e quello per le tue amicizie.
Quindi se anche tu sei sparita dalla circolazione chiudendoti un pò troppo nella tua relazione, smetti di esitare e chiama le “vecchie” amicizie. E’ vero, non è carino farsi vive dopo tanto tempo ma se le tue amicizie sono valide ti perdoneranno, ma che ti sia di lezione per la prossima volta. E nel caso non siano disposte a perdonarti vedrai che il consiglio successivo potrà aiutarti a fartene delle nuove, e chissà magari migliori.
4) Inizia uno sport o coltiva un nuovo hobby
Non fai sport? Sei più da divano? Non c’è problema, hai due scelte: puoi rimanere in casa a piangere sul tuo tanto amato divano e magari davanti una travolgente storia d’amore oppure puoi segnarti a qualche sport. Lo sai che praticare sport oltre che al tuo corpo fa bene anche alla tua mente e al tuo animo? Ti permette di produrre endorfine che ti faranno sentire più positiva, ti aiuta a sentirti più bella, aumenta la tua autostima, ti fa sentire più sicura e determinata, insomma ti rende più forte.
Già pratichi sport? Non c’è problema. In questo caso puoi iniziarne uno nuovo o iniziare qualche altra attività o ancora coltivare un nuovo hobby che ti incuriosisce da tempo ma non hai mai avuto voglia o tempo per concretizzarlo. Ora problemi di tempo non ne hai, quindi niente scuse! Anche io in passato ho praticato molti sport e iniziato a coltivare tanti hobby, ora alcuni li conservo altri rappresentano delle belle esperienze. Prova anche tu, l’importante è che scegli qualcosa che ti faccia tirare fuori il tuo malessere, che ti faccia sfogare e stare bene facendoti sentire veramente viva.
5) Organizza un viaggio
Allora che ne dici? Ti ci vuole tanto per preparare la valigia? Il mondo è grande e ci sono tanti posti da vedere. Le ferie si avvicinano, quindi, che ne dici di organizzare un bel viaggio? Puoi partire con qualche amica o da sola se non trovi nessuno, anche se in tal caso io ti consiglierei un bel viaggio organizzato da qualche agenzia e magari con persone della tua età e ovviamente un itinerario che va incontro alle tue esigenze. Deve essere una vacanza non un martirio!
Probabilmente all’inizio ti sentirai un po’ in dubbio, ma vedrai che non appena troverai la meta e il gruppo che far per te, anche semplicemente pagare e prenotare il tuo posto, ti renderà felice e soddisfatta di averlo fatto. Mi raccomando! Tristezza, dolore e timori lasciali a casa.
Se ti accorgi di non riuscire a mettere in pratica questi consigli o nonostante l’hai fatto stai ancora molto male e non riesci ad accettare la fine della vostra storia, prova ad affidarti ad un terapeuta che può consigliarti cos’altro è più opportuno fare per la tua situazione. Si è osservato che, anche dopo una singola seduta di terapia, avrai la capacità di vedere nuove prospettive su cuitracciare la tua nuova vita.
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9 suggerimenti per superare la paura di volare
Finalmente è arrivata l’estate, avrai sicuramente voglia di staccare la spina da tutto e partire per un posto esotico o comunque lontano, magari con gli amici oppure con la tua dolce metà, vero?
Ti ritrovi a immaginare quanto ti piacerebbe andare in posti incantati, tra natura, spiagge bianche e mare cristallino. Solo a pensarci ti sembra gia di goderti il relax di quei posti meravigliosi che solitamente vedi solo sulle riviste.
All’ improvviso però, non appena pensi che per andare cosi lontano devi prendere l’aereo, ti torna in mente quella brutta esperienza che hai vissuto tempo fa durante un volo, e questo scenario da sogno si trasforma improvvisamente in un incubo.
Ricordi benissimo come ti sei sentito in quel momento!
Forse sarai stato sopraffatto dall’ansia, dall’angoscia, la frequenza cardiaca avrà cominciato ad aumentare, avrai avuto l’impressione di non riuscire a respirare, di svenire, i muscoli ti si saranno irrigiditi, avrai provato un senso di oppressione, paura di morire o impazzire.
Risultato?
Queste sensazioni terribili, ormai da diverso tempo, ti portano a rinunciare ai viaggi che tanto desideri per evitare così l’esperienza di andare in aereo. Sicuramente, sai benissimo che la tua paura di volare viene definita “aerofobia” o “aviofobia”, ma quello che forse non sai, è che a volte non è sufficiente evitare l’aereo, poiché il disagio può cominciare a presentarsi in altri contestilimitando sempre di più la tua vita.
Probabilmente più volte ti sarai chiesto: “Ma perché ho così paura di volare e non riesco a superarla?”. Be, a questa domanda potrei dare molte risposte se ti conoscessi, ma non essendo così, l’unica cosa che posso fare, è darti qualche consiglio per provare ad affrontare la paura di volare già da solo e magari farti quel viaggio che desideri da tanto.
Eccoti 9 suggerimenti che puoi utilizzare prima e durante il volo, per gestire il più possibile la tua paura:
- approfondisci le tue competenze sugli aerei informandoti di come funzionano e sul loro maggiore livello di sicurezza rispetto gli altri mezzi;
- evita di ossessionarti con le notizie sugli incidenti aerei, riportate da giornali e notiziari;
- gran parte dell’essere spaventati dipende dal fatto di non sapere cosa sta per accadere, quindi, preparati ai movimenti e alle sensazioni che sperimenterai durante il volo come per esempio le turbolenze;
- se ci riesci, prenota un posto nella parte anteriore dell’aereo. Questa zona è meno esposta alle turbolenze e puoi rilassarti più facilmente;
- se invece provi fastidio per il fatto che sull’aereo ti senti un pò prigioniero, scegli un posto che si trovi nel lato del corridoio o vicino all’uscita di emergenza;
- pratica degli esercizi di rilassamento capaci di ridurre l’ansia sia nella tua vita quotidiana che durante il volo;
- cerca di non volare solo, ma con qualcuno di fiducia che può aiutarti a distrarti e a sentirti più tranquillo;
- spiega alle hostess la tua paura, la calma e la professionalità con cui hostess e steward affrontano il viaggio potrà esserti sicuramente di aiuto;
- durante il volo prova a distrarti leggendo un libro, guardando un film o ascoltando della musica rilassante. Tutto ciò ti permetterà di distoglierà la mente da ciò che ti preoccupa.
Di suggerimenti c’è ne sono diversi ma intanto prova ad iniziare con questi, e se ti accorgi che il tuo problema non è ancora risolto, allora rivolgiti ad un terapeuta che scoprendo insieme a te cosa nasconde veramente la tua paura, può aiutarti a gestirla senza dover continuare a rinunciare ai viaggetti che da tanto sogni.
Non servono terapie interminabili, in molti casi si è osservato che anche dopo una singola seduta di terapia, è possibile ottenere degli ottimi risultati.
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Leggere, scrivere, calcolare: i disturbi specifici dell’apprendimento
Leggere, scrivere, calcolare. Sono tutte attività che, a partire dal periodo scolastico, appartengono a ognuno di noi e che compiamo quotidianamente, a volte anche in modo inconsapevole. Eppure non per tutti il processo di apprendimento è così facile. I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), infatti, intervengono in età evolutiva e, spesso, comportano notevoli disagi dal punto di vista sociale e psicologico.
Prova a immaginare per un momento di non sapere una parola di tedesco, e tentare ugualmente di farti capire da una persona che parla, però, solo quella lingua. Cercherai in tutti i modi di trovare le parole, ma senza riuscirci. Alla fine, forse, te la caverai con dei gesti, seppur con parecchie difficoltà. E’, in un certo senso, quello che prova e tenta di fare un bambino che soffre di un DSA. In tutti i modi cerca di farsi capire, si sforza, ma non ci riesce. E alla fine, il più delle volte, ci rinuncia. Se fossi al suo posto, dunque, come ti sentiresti?
La specificità dei disturbi dell’apprendimento
I DSA riguardano una specifica cerchia di disturbi o, meglio, di disabilità, che fanno riferimento all’acquisizione della lettura (dislessia), della scrittura (disgrafia e disortografia) e del calcolo (discalculia). La caratteristica dei DSA è proprio la loro specificità. A fronte, infatti, della presenza di un disturbo dell’apprendimento, non sono presenti altre problematiche intellettive. Quando si presenta un DSA, esso riguarderà solo quella funzione o abilità compromessa.
Non possiamo parlare di DSA, in altre parole, se siamo in presenza di un ritardo intellettivo più ampio, o ancora di deficit sensoriali o neurologici più profondi. Alla base vi è principalmente una causa di tipo psicologico. Tutti i DSA si presentano a partire dalle primissime fasi di sviluppo, trovando la loro massima espressione negli anni della scolarizzazione. E’ proprio all’interno della scuola, d’altronde, che le abilità intellettive vengono messe a dura prova. Non sempre, però, un disturbo specifico dell’apprendimento viene notato subito. Il più delle volte, il comportamento del bambino viene scambiato per pigrizia o svogliatezza. La difficoltà di far comprendere il proprio disagio è, peraltro, talmente elevata, che ciò incide profondamente sulla salute psicologica.
La difficoltà di scrivere: disgrafia e disortografia
Forse non lo ricorderai, ma sono sicuro che alle elementari anche tu hai preso numerosi rimproveri per quell’accento che ti eri dimenticato, o per quell’errore grammaticale che avevi commesso, o ancora per quell’apostrofo che avevi tralasciato. Immagina adesso che questi errori ortografici non vengano compiuti per mera distrazione, ma per mancanza di abilità. Tu sai quando devi inserire l’apostrofo, mettere l’accento o la virgola dopo una parola, eppure non riesci a capire quando effettivamente va fatto.
Una frase del tipo “Mia mamma è l’angelo della mia vita” la scriverai “Mia mama e l angelo dela mia vita”. Voto che ti darà la maestra? Zero!
E’ quello che fa di continuo un bambino che soffre di disortografia. Il bambino ha in sé una difficoltà innata nel convertire il suono alla parola scritta, a riportare le regolarità ortografiche, nonché il corretto ordine delle lettere. Lui sa che “mamma” si scrive con la doppia “m”, ma non riesce a renderlo per iscritto. E la disortografia è proprio questo: la difficoltà di scrivere con un’ortografia corretta.
A differenza della disortografia, invece, la disgrafia comporta una scrittura corretta da un punto di vista ortografico, ma graficamente al limite del comprensibile. Il bambino stavolta ha difficoltà a scrivere in modo fluido e chiaro: alterna a lettere piccole, lettere grandi, rendendo le parole e le frasi quasi indecifrabili. In certi casi ciò può avere importanti conseguenze psicologiche, soprattutto se il problema non è stato ancora riconosciuto o diagnosticato.
Prova a pensare di scrivere una lettera d’amore alla donna della tua vita, per la quale hai impiegato ore e ore per scegliere ogni singola parola del testo. La donna, però, una volta ricevuta la tua lettera, non ne riuscirà a decifrare nemmeno una parola. Quanto ci rimarresti male!
Dislessia e discalculia
La dislessia è forse il tipo di DSA più diffuso ed è caratterizzata dalla difficoltà di leggere accuratamente un testo. Il bambino, cioè, ha un’estrema incapacità a riconoscere le lettere dell’alfabeto, nonché a effettuare una corrispondenza tra la grafia scritta e il suono da riprodurre con la voce. Il risultato sarà una lettura spezzettata, difficoltosa e, a volte, incomprensibile.
Chi soffre di dislessia è come se fosse perennemente sotto esame dall’oculista, che da lontano invita il bambino a individuare le lettere su di un tabellone per capire se vede o meno. Solo che, il dislessico non ha alcun problema di vista, ma non riesce comunque a riprodurre o riconoscere quelle lettere e i loro suoni.
Stessa cosa, ma con i numeri, accade nella discalculia. Quest’ultimo è un DSA in cui il bambino ha difficoltà a riconoscere e automatizzare compiti numerici e di calcolo. E non soltanto quelli complessi, ma anche quelli più semplici. La difficoltà si può ripercuotere anche nella semplice lettura dei numeri, proprio come avviene nella dislessia con le lettere, o nel riportare correttamente in forma scritta la loro dicitura.
Si può tornare a leggere e scrivere?
Sarebbe riduttivo ipotizzare o suggerire un percorso di cura che sia adatto a tutti i tipi di disturbi specifici dell’apprendimento. Ogni tipo di disturbo dell’apprendimento, infatti, è in genere collegato a una specifica genesi evolutiva di tipo psicologico o sociale. In tutti i casi, comunque, si è rilevato utile effettuare un intervento di tipo multidisciplinare, in considerazione anche del fatto che più tempestivamente si interviene, più il DSA tenderà a risolversi spontaneamente con l’età.
Riabilitazione logopedia, intervento psicopedagogico, percorso terapeutico e psicologico sono solo alcune delle strategie che è necessario seguire se si vogliono ottenere buoni risultati. Spesso, d’altronde, il vero problema non è il bambino in sé, ma le concause di tipo psicologico, familiare o sociale a cui è o è stato sottoposto.
Bibliografia
Cornoldi, C. (2007). Difficoltà e disturbi dell’apprendimento, Il Mulino, Bologna.
Fobia specifica: ho terrore di quella cosa lì, ma non so perché
“Aiuto, aiuto c’è un ragno!”…“Che paura, che paura c’è un gatto!”…“O caspita, un cane…oddio un cane…mi sale l’ansia!”.
E si potrebbe continuare all’infinito. Se sproporzionate rispetto alla realtà, le paure per i ragni, gatti, temporali, cani, insetti, uccelli, aghi o altro tipo di oggetti, sono definite col termine di fobie specifiche. In fondo, ti sei mai chiesto che motivo c’è di aver paura di un ago o di un piccolo ragnetto? Eppure, c’è chi prova un profondo terrore al solo pensiero.
Se penso a quella cosa là, mi viene il panico
Per parlare di fobia specifica, dobbiamo riferirci a una paura illogica, irrazionale ed eccessivamente elevata nei confronti di un determinato oggetto, animale o situazione. Se si trova di fronte allo stimolo ansiogeno, la persona non resiste, vuole scappare, prova un terrore vero e proprio, anche quando non c’è motivo. Oltre ad essere sproporzionata e irrazionale, nella fobia specifica la paura è anche incontrollabile, porta all’evitamento sistematico della situazione e influenza negativamente la vita quotidiana della persona.
La questione centrale, però, rimane il fatto che, per parlare di fobia, la paura deve essere provata nei confronti di uno stimolo innocuo. In altre parole, non siamo in presenza di una fobia se il terrore è vissuto di fronte a uno stimolo realmente pericoloso. Chi non ha paura di un leone? Quasi nessuno. Ma se quel leone lo vedi in un ragno, un ago, un oggetto o una situazione particolare, e hai una reazione simile a quella che avresti di fronte a un leone vero e proprio…bè, allora soffri sicuramente di una qualche forma di fobia specifica.
Il terrore che si prova in queste situazioni di eccessiva ansia, si esprime anche attraverso sintomi fisiologici ben circoscritti, come tachicardia, vertigini, diarrea, sensazione di soffocamento, tremore o sudorazione eccessiva. Nel momento acuto della fobia, inoltre, il primo istinto è sempre scappare e fuggire altrove. Torna a pensare per un attimo al leone: se te ne ritrovi uno davanti all’improvviso, d’istinto cosa fai? Fuggi! E senza perdere nemmeno troppo tempo! Ecco, chi soffre di una qualsiasi forma di fobia, fugge (ed evita) qualsiasi cosa gli ricordi lo stimolo ansiogeno.
Sì ma…che tipo di fobia?
Devi innanzitutto differenziare le fobie specifiche da quelle generalizzate (agorafobia e fobia sociale). Queste ultime, infatti, riguardano un ampio spettro di situazioni, mentre la fobia specifica si ha solo in un determinato tipo di circostanza.
Un primo gruppo di fobie specifiche fa riferimento agli animali (ragni, uccelli, piccioni, insetti, cani, gatti…). Un altro gruppo, invece, racchiude quelle provate verso gli ambienti naturali, come la paura per i temporali, per le altezze, del buio o dell’acqua. Un altro gruppo ancora racchiude le fobie del sangue, delle iniezioni e delle ferite: pensa a quanto può essere invalidante questo tipo di fobia per un infermiere o un medico! Infine abbiamo quelle “situazionali”, dove è una specifica circostanza a causarle: ad esempio un tunnel, un ponte, un ascensore, guidare o volare.
E’ chiaro però che i tipi di fobie non si esauriscono soltanto a queste tipologie: pensa che c’è chi ha paura persino del proprio corpo, o di una parte di esso, o addirittura dei medicinali, o della polvere! Qualunque cosa può dare origine a una forma di fobia.
Cosa c’è dietro a una fobia specifica
Chi soffre di una fobia, spesso si chiede: perché? Il ché vuol dire, ad esempio: perché ho questa maledetta paura dei ragni? Rispondere a questa domanda non è facile. C’è chi sostiene che il tipo di fobia nasca da un significato inconscio errato che è stato dato, nel corso della vita, a quel particolare tipo di animale o di oggetto. C’è chi invece sostiene, al contrario, che l’inconscio non c’entra nulla, ma che è questione di condizionamento. Durante l’esistenza, ovvero, la mente ha appreso involontariamente che un oggetto o una situazione è eccessivamente pericolosa, quando in realtà non lo è. Tale condizionamento viene mantenuto inalterato nel tempo fino a dare origine alla fobia. La genesi è comunque sempre la stessa: un’errata interpretazione di qualcosa.
Ti invito a tirare fuori ancora il leone di prima. Hai presente quell’immagine, piuttosto famosa, in cui c’è un gatto che si guarda allo specchio e nello specchio, anziché vedere se stesso, vede un leone? Bé è un po’ quello che succede a chi sviluppa una fobia: vedere, a un certo punto della vita, qualcosa che va oltre la realtà, che sia all’interno di un ragno, di un cane, della pioggia che cade o della polvere che si annida. Da quel momento in poi esisterà solo il leone!
La scorciatoia per vincere le fobie
La paura è un’emozione adattiva: avere paura di un cane feroce, di un serpente o di un forte temporale mentre siamo in bici, è assolutamente normale. Ma se tale paura si estende anche a un cucciolo di cane, a un ragno piccolo e indifeso o ti condiziona nel prendere un semplice autobus, allora è evidente che c’è qualcosa che non va.
Se la tua fobia ha un’incidenza sulla tua vita e ti condiziona, c’è una via per superarla. Se, ad esempio, sei un infermiere e hai paura del sangue, oppure sei un autista e hai paura del trasporto pubblico, o sei un pilota e all’improvviso ti prende la fobia di volare: non demordere, c’è sempre una soluzione.
Rispetto ad altri problemi, in psicoterapia il trattamento della fobia, se non ci sono altri disturbi psicologici sottostanti, è relativamente facile. A volte può bastare una semplice sequenza di sedute, altre volte una sola sessione di terapia a seduta singola. L’obiettivo è comprendere da cosa è stata scatenata la fobia e come è possibile porvi rimedio. Portare, ovvero, quella paura che si prova di fronte allo stimolo ansiogeno dall’essere “eccessiva e irrazionale”, all’essere “normale e adattiva”. Immagina, ad esempio, quanto sarà bello ricominciare a indossare le ali, una volta che la fobia di volare sarà andata via!
Bibliografia
Cannistrà, F., Piccirilli, F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche, Giunti, Milano.
Nardone, G. (2012). Oltre i limiti della paura, Bur, Milano.
Baby blues: significato senso ed origine
Per tutte le neomamme dare al mondo un figlio rappresenta un evento davvero importante. In un modo o nell’altro, dopo il parto, una donna non sarà più la stessa. Non tutte le neomamme, però, riescono ad adattarsi subito a questi indubbi cambiamenti psichici e fisiologici. E’ in questi casi che può presentarsi il baby blues (o maternity blues): un disturbo transitorio di lieve entità, da non confondere con la più grave depressione post partum.
Baby blues: la riorganizzazione della neomamma
Il termine baby blues fu coniato da Winnicott, famoso pediatra e psicoanalista inglese, per definire quel disturbo di lieve entità che colpisce il 70 % delle neomamme a seguito del parto. In genere è temporaneo, dura fino a un massimo di due settimane, ed è caratterizzato dai seguenti sintomi: facilità al pianto (immotivato), eccessiva tristezza, irritabilità, senso di inadeguatezza, ansia e paure eccessive nei confronti del neonato. Talvolta si possono presentare anche disturbi del sonno e dell’appetito.
Per capire il baby blues ti richiamo alla mente un trasloco. Ne hai mai fatto uno?
Un trasloco inizia nel momento in cui decidi di abbandonare la tua vecchia casa, per andare ad abitare in una nuova. Per poterlo fare smonti i mobili e incarti tutti gli oggetti che hai in casa vecchia, per poi portarli e accatastarli tutti all’interno della casa nuova. Quando hai finito questa fase, ti ritrovi dentro la nuova abitazione con tutti i pacchi in disordine: per poter iniziare a vivere dentro la tua nuova casa, pertanto, dovrai ordinarli, scartarli, nonché rimontare mobili, oggetti e via dicendo. Ti potranno prendere sensazioni di sconforto, disorientamento, irritabilità e, a volte, malinconia. Per quanto possa essere bella la tua nuova casa, all’inizio non sarà facile abituarvisi, soprattutto se hai passato nella tua vecchia abitazione molti anni della tua vita.
E’ proprio quello che accade alle neomamme con il baby blues!
Devono abituarsi a una nuova situazione (aver partorito un figlio) che implica un totale riadattamento psicofisiologico, paragonabile a mille traslochi messi assieme. Durante questo processo, il baby blues è il minimo che possa capitare. Tuttavia, una volta riordinati “tutti i pacchi” e “rimontati tutti i mobili” nella “nuova casa”, la tristezza e la deflessione dell’umore andranno diradandosi, per godere in pieno, alla fine, della nuova condizione: l’avere avuto uno splendido bambino.
Baby blues: normalità o sintomo di depressione?
Il baby blues rappresenta una fase del tutto normale del periodo post partum della madre. Le reazioni psicologiche sono la conseguenza di un’altrettanto normale reazione fisiologica che si genera nelle neomamme a seguito del parto. Quando una donna da alla luce un bambino, infatti, ha un brusco calo ormonale degli estrogeni, a cui segue spesso stanchezza fisica e irritabilità, nonché gli stessi sintomi del baby blues. Solamente nel caso in cui il baby blues si protragga per molto tempo e l’entità dei sintomi diviene più preponderante, allora bisognerà preoccuparsi. In questo frangente, il baby blues preannuncerà probabilmente l’arrivo di una vera e propria depressione post partum.
A differenza del baby blues, la depressione post partum esordisce entro sei mesi dalla nascita del bambino. Ha gli stessi sintomi del baby blues, ma in una forma molto più gravosa e con presenza di senso di colpa e depressione, che invece mancano nel baby blues.
L’allarme deve scattare quando i classici sintomi del baby blues compromettono significativamente le varie attività sociali e quotidiane della donna. In poche parole, riprendendo l’esempio del trasloco, se nel baby blues i sintomi rappresentano semplicemente il periodo di adattamento alla “nuova casa”, nella depressione post partum tale tentativo di adattamento tenderà a protrarsi all’infinito (e con scarsi risultati). La donna, ovvero, non si rassegnerà alla nuova condizione e vorrà tornare a vivere nella vecchia casa (pur non essendo più possibile), aggravando di conseguenza la propria sintomatologia.
Cosa fare in caso di baby blues?
Il baby blues non prevede per la verità uno specifico trattamento medico o psicologico, proprio perché è considerato una manifestazione normale, di breve durata e tendenzialmente senza conseguenze. In genere il sostegno del partner, il sostegno della famiglia e una calda vicinanza emotiva sono sufficienti per risolvere e superare il periodo complicato. In ogni caso, seppur il baby blues non abbia conseguenze nella maggior parte dei casi,richiedere supporto può soltanto essere di aiuto.
D’altronde, chi non vorrebbe essere aiutato, durante un trasloco, nel trasportare un po’ di pacchi e mobili dalla casa vecchia a quella nuova? Uno psicologo, quindi, potrà magari darti il sostegno necessario per fare in modo che il baby blues non evolva in qualcosa di più serio. Solo quando i sintomi tendono ad aggravarsi e prolungarsi, infatti, è doveroso rivolgersi a uno psicologo o psicoterapeuta.
Probabilmente, vi sono cause più profonde che provocano il disturbo, che vanno oltre l’evento del parto e della nascita del figlio. In questo caso, se la sintomatologia non è ancora abbastanza grave, potrà bastare anche una psicoterapia a seduta singola per risolvere la problematica. E una volta risolta, alla neomamma non resterà altro che godersi la sua “nuova casa”: gli occhi, il respiro, la vita e il futuro del proprio figlio.
Bibliografia
Stern, D., Stern, N. (2017). Nascita di una madre. Come l’esperienza della maternità cambia una donna, Mondadori, Milano.
Winnicott D.W. (1956). La preoccupazione materna primaria. In Winnicott, D.W., Through Paediatrics to Psycho-Analysis. Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.
Winnicott D.W. (1987). I bambini e le loro madri, Cortina, Milano.
Emozioni: nella teoria le conosci, ma nella pratica sei sicuro di saperle riconoscere?
Cosa proveresti se ricevessi una bella notizia? E se dovessi affrontare un’operazione al cuore? E invece quando litighi con un tuo amico, mangi un cibo che non ti piace, ricevi una brutta notizia o un regalo inaspettato, che emozioni proveresti in tutte queste situazioni?
La tua risposta a queste domande forse potrebbe essere gioia, paura, rabbia, disgusto, tristezza e sorpresa. Dico “potrebbe” perché ovviamente come ben saprai, la stessa situazione o evento può provocare emozioni diverse a seconda della persona che la sperimenta.
Queste emozioni sono innate e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite primarie ovvero universali. Leemozioni secondarie, invece, sono quelle che hanno origine dalla combinazione delle diverse emozioni primarie e si sviluppano con la crescita di una persona e dalla sua interazione sociale.
Tra le emozioni secondarie troviamo: l’allegria, la vergogna, l’ansia, la rassegnazione, l’invidia, la gelosia, l’offesa, il rimorso, la speranza, il perdono, la nostalgia e la delusione. Queste emozioni sono più complesse delle primarie poiché hanno bisogno di più elementi esterni o pensieri eterogenei per essere attivate.
Ma te già le sai queste cose vero? Sicuramente nella teoria, sarai molto preparato relativamente il tema delle emozioni ma sei sicuro di essere capace a riconoscerle? Te lo chiedo perché sono molte le persone che hanno difficoltà a riconoscere le emozioni, e anche a esprimerle ed elaborarle correttamente.
Certo, sarebbe bello se a scuola oltre ad insegnare a scrivere, a leggere e a contare ci insegnassero anche cosa sono le emozioni e come si gestiscono, oppure sarebbe bello avere un manuale per interpretare le proprie emozioni, ma purtroppo non è così, nonostante giocano un ruolo fondamentale nella nostra vita.
Se impari a dedicare più tempo e attenzione alle tue emozioni, se ti alleni a riconoscerle non solo in te stesso ma anche negli altri, se impari a gestirle per orientare bene i tuoi comportamenti, puoi migliorare la qualità della tua vita, l’efficacia delle tue azioni e le relazioni sociali che coltivi ogni giorno e imparare, inoltre, a estrarre le migliori risorse non solo da te stesso ma anche dalle persone con cui ti relazioni.
Ti piacerebbe vero?
Si! Sarebbe grandioso imparare a vivere un’esistenza al pieno delle tue potenzialità e in maggiore sintonia con chi hai intorno.
Pensa che per fare questo, è necessaria solo una cosa… che tu sappia riconoscere le emozioni e dargli un nome. Si proprio così, devi solo riconoscere le tue emozioni.
Pensi di essere capace? Lo so, non è semplice. Questo perché il modo in cui percepisci il mondo, lo interpreti, lo valuti e lo immagini, modella le tue emozioni. Il rapporto che esiste tra i tuoi pensieri e le tue emozioni, il modo in cui interpreti la realtà e attribuisci un significato agli eventi influenza enormemente i tuoi stati d’animo e quindi i tuoi comportamenti.
E’ importante che tu sia consapevole delle tue emozioni e che tu sappia dargli un nome per impararle a gestire e per comunicarle anche agli altri, ma effettivamente non è sempre facile utilizzare il termine adeguato per indicare lo stato d’animo che proviamo in un determinato momento.
E’ proprio per questo che chi fa difficoltà a riconoscere le proprie emozioni, non solo non può gestirle e rischia quindi di mettere in atto comportamenti inappropriati e di relazionarsi con difficoltà con gli altri, ma potrebbe anche sviluppare sintomi somatici.
Se ti sei accorto di avere difficoltà nel riconoscere le emozioni e quindi a gestirle e questo ti sei accorto crea dei problemi nella tua vita, rivolgiti ad un terapeuta che possa aiutarti a farlo. Pensa, in alcuni casi, si è visto che già dopo una Singola Seduta puoi ottenere dei risultati inaspettati.
Cosa aspetti quindi a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito www.onesession.it , il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
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4 consigli pratici per superare la tua paura di guidare
Ormai sono diversi mesi che esci solo per andare a lavoro perché fortunatamente ci puoi arrivare a piedi, poi il resto del tuo tempo lo trascorri tra le mura di casa o al massimo fai delle brevi uscite per il paese. Ti limiti a uscire per fare la spesa al supermercato vicino casa tua o per recarti ogni tanto in qualche altro negozio vicino.
Insomma, fondamentalmente vai, dove puoi arrivare a piedi!
Ti allontani dalla tua zona solo se qualche tuo amico ti viene a prendere per uscire o per scarrozzarti da qualche parte, perché tanto tu la macchina proprio non la prendi, nonostante hai la patente.
Preferisci scomodare gli altri per farti portare in giro, piuttosto che cercare di superare la tua paura di guidare o anche l’ansia e l’agitazione che sorgono in te al solo pensiero di provarci.
Quasi quasi sembra che non ti interessi poter diventare un peso per gli altri!
La tua paura ormai è decisamente invalidante e condiziona la tua esistenza da almeno sei mesi. Pur avendo conseguito la patente di guida, non riesci proprio a guidare.
Non riesci a gestire quella persistente sensazione di ansia che si presenta ogni volta che tenti di metterti alla guida. Il tuo battito cardiaco aumenta, come anche la sudorazione delle mani, la tua respirazione diventa più affannosa e a volte forse provi addirittura una sensazione di nausea e vertigini.
Senti di non potercela fare, non ci riesci!
L’ansia e le aspettative negative ti frenano, ti bloccano non appena sali in macchina e provi a guidare. Più volte forse hai provato, fallendo e la domanda che ti sarà passata per la testa sarà stata: “Ma ci sarà qualche rimedio per superare questa mia paura?”.
Sicuramente saprai già benissimo che la tua paura ha un nome, si chiama amaxofobia o più raramente anche motorfobia, e consiste nella paura persistente e anormale di trovarsi in un veicolo o condurlo.
In alcuni casi colpisce solo per brevi periodi, mentre in altri può durare per tantissimo tempo. Comunque sia è una fobia checolpisce molte persone.
Tu sei una di quelle?
Se soffri di questa fobia sicuramente proverai sentimenti di disagio, ansia e nervosismo che a volte, spero non ancora nel tuo caso, possono addirittura causare dei veri e propri attacchi di panico.
Forse ti sarai chiesto: “Ma perché ho paura di guidare?”.
Be, le cause per cui può presentarsi l’amaxofobia possono essere diverse.
Per esempio può presentarsi in periodi della tua vita in cui sei più vulnerabile e più soggetto a stati d’ansia, può essere quindi la manifestazione di insicurezze e disagi inconsci. Oppure può verificarsi in risposta a esperienze pericolose vissute in prima persona o a persone a noi molto vicine.
Qualunque sia la causa della tua paura di guidare, ti suggerisco 4 consigli pratici che puoi mettere in pratica da solo e iniziare così a superare questa tua paura.
- Pulisci e “cura” la tua macchina. Portala dal meccanico e accertati che sia tutto a posto. Rendere, infatti, la tua auto un ambiente profumato e sicuro, e quindi prendere confidenza e curare gli oggetti delle nostre paure, aiuta ad affrontarle più facilmente.
- Cerca una zona sicura per riprendere a guidare, come un grande parcheggio, magari negli orari in cui è più vuoto. In questo modo eviterai traffico e situazioni di tensione che potrebbero presentarsi in strada.
- La prima volta che vai nel parcheggio, se non te la senti, non serve che guidi. Stai semplicemente seduto in auto, prendi confidenza con le sensazioni che ti arrivano, prova a metterla in moto e poi a spegnerla.
- Inizia a guidare solo quando te la senti. Inizialmente solo per 15 minuti, poi progressivamente aumenti a 30 minuti, fino poi a guidare per un’ora o quanto vuoi tu. Questo ovviamente vorrà dire fare tantissimi giri nel parcheggio vuoto, e sicuramente ti annoierai un po, ma non preoccuparti, più ti annoierai meglio sarà. Vedrai!
Devi assolutamente “evitare di non guidare”. Ciò rafforza solo la tua paura e la tua ansia. Lo sforzo che devi fare per metterti in macchina è grande, ma è anche fondamentale per superare il tuo problema e riconquistare la tua libertà.
Se nonostante i consigli che ti ho dato, il tuo problema non è ancora risolto, prova ad affidarti ad un terapeuta che può consigliarti cos’altro è più opportuno fare per la tua specifica situazione. In molti casi, si è osservato che anche dopo una singola seduta di terapia, è possibile riprendere a guidare.
Non aspettare a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sito www.onesession.it, il terapeuta più vicino a te e più adatto alle tue esigenze.
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Selfie mania: alla ricerca del like perfetto
Se chiedi a tuo nonno cos’è un selfie, lui probabilmente ti guarderà con uno sguardo stranito. Il selfie, infatti, non è altro che la versione ultramoderna del vecchio autoscatto. La sua moda si è evoluta negli ultimi anni assieme alla tecnologia e a smartphone sempre più sofisticati, al punto da diventare oramai un comportamento comune (specialmente tra i giovani).
Il selfie però non è solo un modo di scattare foto, ma anche di condividere stati d’animo, momenti e quotidianità. E’ la necessità di essere visti e approvati. In casi estremi, può diventare il bisogno di dire al mondo: ci sono anch’io! Come accade nella selfie mania.
Selfie mania: la necessità di farsi foto
E’ piacevole scattarsi ogni tanto una foto da soli, specialmente quando si ha il desiderio di condividere sui social il proprio stato di contentezza. E’ un modo come tanti, d’altronde, per comunicare le proprie emozioni.
Il selfie, tuttavia, a differenza di una comune foto, ha senso solo se associato con una sua pubblicazione e condivisione nei social network. Selfie vuol dire, in breve, farsi notare e approvare: non mi basta che la foto sia venuta bene, voglio che siano gli altri a dirmi che è davvero venuta bene.
Che male c’è in tutto questo? Nessuno, almeno finché questo comportamento di scattare, pubblicare e condividere selfie, nell’attesa di ricevere giudizi e approvazioni, non diventi una routine o un bisogno irrinunciabile. Nel caso della selfie mania, infatti, la necessità di fotografarsi è associata con un senso interiore di insoddisfazione e insicurezza, conseguente a una mancanza di autostima. Il selfie si tramuta in un modo per dire a se stessi e agli altri che io esisto, in una ricerca continua di approvazione che, però, non basta mai.
Hai presente quando mangi le ciliegie? Ne prendi una. Poi un’altra. Poi un’altra ancora. Ti dici: basta così. E invece no, una ciliegia tira l’altra, e alla fine finisci tutto il vassoio, seppur ne vorresti ancora. Nella selfie mania accade la stessa cosa, ma con le foto: è un comportamento virale, irrinunciabile e ripetitivo. Copre illusoriamente quel senso di insoddisfazione con un volto sempre sorridente, alla cui fine del sorriso, però, vi è una profonda sensazione di insicurezza e solitudine.
Tra narcisismo e mancanza di identità
La maggior parte delle persone che sono schiave della selfie mania, secondo uno studio della California State University, presenta tratti di personalità narcisista. Il narcisista è colui che si mostra al mondo in maniera sempre impeccabile e perfetta; è la persona che si nutre di ammirazione e che è in continua ricerca di approvazione da parte degli altri, nonostante provi nei confronti di questi ultimi un senso di superiorità.
L’atteggiamento narcisista, però, nasconde problematiche psicologiche più profonde. Il narcisista si mostra al mondo per quel che non è, pur di nascondere ciò che è realmente. E’ una persona che costruisce attorno a sé una corazza, pur di non far trasparire la tristezza, la solitudine e il desiderio d’amore che cela nel cuore.
Queste caratteristiche si ritrovano in chi soffre di selfie mania. Il selfie, d’altronde, è l’espressione tecnologica della vanità e della moderna ricerca di approvazione. Tutti (o quasi) i patiti del selfie sono fragili, indecisi e solo apparentemente spigliati e sicuri di sé. Sono spesso soggetti immaturi (in genere adolescenti, ma a volte anche adulti) alla ricerca di una propria identità. Con la pubblicazione dei selfie sui social network, i giovani, per mezzo dei “like” altrui, cercano di dare un’immagine perfetta di sé e della propria vita, anche qualora non corrisponda al vero. I like sono approvazioni esterne, da cui nella selfie mania si diventa a tutti gli effetti dipendenti, poiché si andrà alla ricerca del selfie più estremo e originale, pur di riuscire a differenziarsi dagli altri.
Dietro la selfie mania, peraltro, non si nasconde solo narcisismo, che comunque è la causa più frequente e comune. Può esservi anche depressione, voyerismo, dipendenza da internet: la selfie mania potrebbe rappresentare solo la punta dell’iceberg di un problema psicologico più profondo e radicato.
Cambiare la prospettiva del like
Basta fare un giro sui social e la domanda sorge spontanea: siamo tutti affetti da selfie mania? Siamo talmente in tanti a farci selfie! Ebbene no, dietro a un selfie non per forza si nasconde una patologia. La selfie mania si presenta solo se accompagnata da una ricerca pervasiva dell’approvazione esterna attraverso gli autoscatti virtuali.
Per uscirne, l’unica soluzione è quella di ridare dignità alla vita reale, piuttosto che alla vita virtuale. Cambiare, cioè, la prospettiva del like: allontanarsi dai selfie, per immergersi nuovamente nelle vere relazioni sociali. In sintesi, cambiare direzione alla propria vita, ridando valore e autostima a sé stessi.
Un sostegno psicologico o psicoterapeutico è forse la strada più adeguata da prendere. Il più delle volte non bisogna intraprendere un percorso lungo, perché con una psicoterapia breve o a seduta singola puoi già riuscire a cambiare il senso delle cose. In fondo, hai solo bisogno di cambiare la prospettiva da cui guardi il mondo, per fare in modo che quel like non verrà dato più a una foto, ma sarai tu stesso a darlo alla tua vita!
Bibliografia
Di Gregorio, L. (2017). La società dei selfie, Franco Angeli, Milano.
Porsi un obiettivo: è importante per avere un futuro migliore?
Ogni giorno ti svegli per andare a lavoro o non so magari per stare a casa, fai colazione e nel resto della giornata probabilmente vai in palestra per tenerti un po in linea o a fare qualche commissione. La sera a volte esci con gli amici oppure rimani a casa a vedere un filmetto e nei weekend se è bel tempo organizzi un’uscita con qualcuno altrimenti rimani a casa.
Insomma tutto nella norma. Una vita tranquilla la tua, senza pretese, ogni giorno è simile agli altri, ogni giorno la stessa routine.
Ogni tanto provi a porti qualche obiettivo da raggiungere ma non c’è niente da fare, nel momento in cui c’è da mettere in atto i comportamenti necessari per raggiungerlo, compare sempre la tua inclinazione a rimandare, a procrastinare i tuoi compiti.
Forse ti sei reso conto di non essere capace a fare sacrifici oggi per ottenere qualcosa che forse arriverà un domani? Vorresti sempre tutto e subito?
E’ già, funziona così quando siamo piccoli!
Da bambini cerchiamo l’immediato soddisfacimento dei nostri bisogni e dei nostri desideri e solitamente, i nostri genitori sono lì pronti a soddisfarli subito. Ma crescendo, ci accorgiamo che non basta chiedere per ottenere, che ci viene chiesto di fare cose che non ci piacciono, che spesso dobbiamo aspettare per ottenere qualcosa o dobbiamo faticare per ottenere quello che vogliamo.
Crescendo, ti sarai reso conto, che spesso per raggiungere gli obiettivi futuri per te importanti, devi rinunciare a qualcosa che ti piace del presente, tralasciarlo un po, metterlo da parte, e per giunta senza sapere se il futuro ti darà veramente quello che desideri.
Certamente ci sarà qualcuno capace di apprezzare e vivere con intensità il presente mentre si prepara e agisce per raggiungere il suo obiettivo nel futuro. Ma non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti la stessa motivazione e capacità di affrontare lo stress legato al raggiungimento di un obiettivo.
Lo sai però, che porsi una meta, avere un obiettivo da perseguire, è ciò che viene considerato l’aspetto fondamentale per garantire una forte motivazione e una maggiore capacità di sopportazione delle difficoltà e dello stress che incontriamo?
L’obiettivo che decidi di prefiggerti, rappresenta infatti la benzina che motiva le tue azioni, ma anche ciò che ti permetterà digestire meglio la sofferenza fisica o psicologica che probabilmente incontrerai per raggiungere il tuo obiettivo, poiché ti consentirà di attivare tutte le tue risorse per sopportarla meglio.
Porti degli obiettivi è fondamentale per riuscire ad immaginarti un futuro migliore, per motivare te stesso a cambiare l’opinione che hai di te e trasformare la tua idea di futuro in realtà.
Il processo mentale che ti porta a stabilire gli obiettivi e quindi la meta da raggiungere, ti aiuta sia a lungo termine che a breve termine. Infatti, da una parte ti aiuta a scegliere dove vuoi arrivare nella vita e dall’altra su quali compiti dovrai concentrarti nel presente, a quali risorse ricorrere e come organizzare il tuo tempo per limitare le distrazioni e poter raggiungere la meta finale più facilmente.
Una volta stabilito l’obiettivo finale, ti sarà utile stabilire degli obiettivi intermedi, che ti permetteranno di misurare ogni piccolo traguardo che raggiungi, e quella che sarebbe potuta sembrare una meta lontana e difficile da raggiungere, diventa invece la fonte della tua soddisfazione e dei tuoi progressi.
Ponendoti piccoli obiettivi un po alla volta, e raggiungerli con il piano d’azione che ti sei pianificato, permette quindi di aumentare la fiducia in te stesso, facendoti riconoscere le tue abilità e le tue competenze.
Non rimanere focalizzato solo sul presente e non limitarti a sognare il futuro!
Decidi la strada più adatta da intraprendere per raggiungere la tua meta, e se hai paura di sbagliare, se sei indeciso sugli obiettivi o non sai quali azioni mettere in atto per raggiungerli, contatta uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola, cercando sul nostro sito www.onesession.it , quello più vicino a te e soprattutto più adatto alle tue esigenze.
In molti casi, una Singola Seduta è risultata sufficiente per definire non solo l’obiettivo da raggiungere, ma anche per pianificare il piano d’azione necessario al raggiungimento dell’obiettivo stesso.
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Paura del fallimento: ciò che non mi uccide, mi fortifica?
E’ tutto pronto per la partenza. Sei in prima fila e potrebbe essere la gara della tua vita: qualora riuscissi a vincerla, ti consacreresti campione del mondo. I semafori si accendono, manca poco al via, ma all’improvviso sei assalito dai dubbi: “E se non riuscissi a portare a termine la gara? e se non arrivassi primo? quale tremenda delusione sarà! No, no, meglio rinunciare e non partire, piuttosto che correre il rischio di perdere!”. E così, alla fine rimani fermo sulla griglia di partenza, senza nemmeno partecipare a quella che poteva essere davvero la gara della tua vita.
Quello che ti ho appena descritto ha un nome: paura del fallimento. E’ un tipo di paura che attanaglia la mente, la blocca e la immobilizza di fronte a qualsiasi prova dell’esistenza.
So già che non raggiungerò l’obiettivo
La paura del fallimento è quel pensiero debilitante e ricorrente che subentra in tutti coloro che hanno paura di non riuscire a realizzare qualcosa. La persona interessata, per il solo timore di fallire, interrompe qualsiasi azione sia destinata al raggiungimento dei propri obiettivi. La paura di non riuscire è così tanta, che alcune volte finisce persino per non provarci nemmeno!
La paura di fallire implica importanti stravolgimenti dal punto di vista psicologico. Oltre all’immobilizzazione nei confronti della vita e delle scelte che si operano, crea dentro la persona un profondo senso di sfiducia. Quest’ultimo, a lungo andare, determinerà una considerevole disistima nelle proprie capacità, un giudizio negativo di sé e una profonda sensazione di disfatta di fronte a qualsiasi scelta ci sarà da compiere.
Ci sono alcuni precisi sintomi della paura del fallimento tra cui, oltre la bassa autostima e fiducia (“Non sarò mai capace di superare questo esame”), il rifiuto categorico a provare esperienze nuove, il procrastinare e la tendenza al perfezionismo (“Non riuscirò mai a fare quella cosa come vorrei, per cui non ci provo nemmeno”).
Con queste caratteristiche, il circolo vizioso della paura di fallire inibirà la persona in ogni campo della vita, da quello lavorativo a quello sociale. Piuttosto che dare adito a nuovi progetti, ci si accontenterà di quel che si ha, perché un eventuale fallimento della novità sarebbe una delusione troppo grande da dover digerire.
Le possibili cause: mancanza di fiducia
E’ difficile conoscere con esattezza quali possano essere, in generale, le cause della paura di fallire.
Dall’esperienza clinica se ne possono ricavare alcune più frequenti. Partendo dall’esperienza più precoce, una delle possibili è l’aver avuto genitori critici e poco supportivi.
I genitori critici non supportano né incoraggiano il proprio figlio nel raggiungimento degli obiettivi (qualunque essi siano, dal più semplice al più complesso). Ciò vuol dire che, spesso, si sostituiscono a lui nelle scelte, lo umiliano in pubblico (anche solo verbalmente) e non riconoscono né apprezzano i traguardi da lui raggiunti. Questo comportamento genitoriale, messo in atto spesso in modo inconsapevole, crea nel bambino un sentimento negativo, di sfiducia e di scarsa autostima nelle proprie capacità. Sensazioni che lui si porterà dietro anche da adulto, il ché, nel migliore dei casi, alimenterà la vera e propria paura del fallimento.
Un’altra possibile causa del timore di fallire è l’aver vissuto un evento traumatico.
Con evento traumatico si intende un’esperienza particolarmente dolorosa o umiliante che ha segnato la nostra vita. Un’esperienza traumatica, nell’ambito del fallimento, potrebbe essere, ad esempio, l’aver fatto una pessima figura in pubblico, durante una presentazione, oppure l’aver ricevuto un’importante umiliazione durante una prestazione sportiva.
La persona, scottata dalle emozioni negative vissute, sarà portata a evitare qualsiasi situazione che le ricorderà quella originaria, pur di non rischiare di riprovare le stesse sensazioni negative.
Fallimento: ciò che non mi uccide, mi fortifica!
Qualunque sia la tua storia personale, a tutto c’è un rimedio! Devi solo provare a vedere il fallimento in maniera non del tutto negativa, ma come un’occasione di crescita e di apprendimento. Vedendolo sotto questa prospettiva, esso potrà farti meno timore.
La paura di fallire, infatti, fa parte della vita di tutti: chiunque si è confrontato con una qualche forma di fallimento, prima di arrivare alla vita adulta. Vuoi per un amore non corrisposto, vuoi per un lavoro andato male o per una semplice amicizia interrotta. Il fallimento è, in fin dei conti, un modo per imparare dall’esperienza, per fortificarci e diventare adulti più sani e coraggiosi. Rinunciare a priori è, invece, indice di malessere.
Per alleviare la tua paura di fallire, quando hai di fronte un obiettivo che vuoi raggiungere, prima di rinunciare del tutto ai tuoi propositi, prova a seguire questi semplici consigli.
Innanzitutto, cambia il tuo punto di vista sul fallimento, come sopra ti ho suggerito di fare. In seguito, analizza tutte le conseguenze possibili che la tua azione potrà avere (a volte è la paura dell’ignoto che fa più timore, piuttosto che il fallimento in sé). Impara quindi a pensare positivo e datti fiducia, magari prefigurandoti lo scenario peggiore di quello che potrà succedere (ti aiuterà ad essere più ottimista!). E infine, fai e impegnati in quello che volevi fare!
Ricorda che la paura del fallimento viene meno solo con l’esperienza. Se reputi, invece, che, nel tuo caso, il timore di fallire sia ben più radicato, affidati a un terapeuta a sessione singola: in una sola seduta potrà cambiare il tuo modo di vedere le cose, nonché sbloccare e inibire molte delle tue paure, per iniziare, così, a non aver più paura!
Bibliografia
Morschitzky, H. (2013). Vincere la paura del fallimento. Superare ansie, timori e sconfitte per tornare a guardare al futuro, Apogeo, Adria.
Mangi senza controllo? Potresti soffrire di Bulimia o del Disturbo da alimentazione incontrollata
E’ inspiegabile!
Ma da un bel po di tempo almeno un paio di volte alla settimana, quando sei solo, immerso nei tuoi momenti di solitudine, anche se non hai fame né appetito, ti ritrovi senza quasi accorgertene, a svuotare il frigo o la credenza mangiando molto velocemente, senza controllo e senza riuscirti a fermare, grandi quantità di cibo arrivando perfino a sentirti spiacevolmente pieno, a provare disgusto verso te stesso, vergogna e un forte senso di colpa dopo ognuna di queste… possiamo definirle abbuffate, giusto?
Forse, più di una volta ti sarà passato nella testa il pensiero di poter soffrire di bulimia essendo tanto diffusa e caratterizzata appunto da abbuffate di questo genere.
E’ vero! Quello che ti accade è molto simile a ciò che accade nella bulimia nervosa, ma nonostante questo, c’è una cosa che forse non hai considerato.
Queste tue abbuffate, fortunatamente, se non sbaglio, non sono seguite dalle pratiche di compensazione. Vero?
Cosa intendo con questo termine? Mi riferisco semplicemente a tutti quei metodi, tipici della bulimia, che servono per cercare di eliminare quello che si è ingerito durante l’abbuffata. Per esempio il vomito auto-indotto, l’abuso di lassativi e diuretici o l’esercizio fisico estenuante.
Non so se a te è accaduto, e onestamente spero di no, ma sicuramente da quando hai cominciato a mangiare in questo modo incontrollato, il tuo peso è aumentato portandoti magari una leggera obesità, e questo perché, ovviamente con il tempo, l’eccesso di calorie che hai introdotto si è trasformato in un aumento del tuo peso portando a peggiorare il tuo stato di obesità se presente o chissà, a malattie cardiovascolari, diabete, apnee notturne e ipertensione arteriosa.
Altro aspetto che differenzia dalla bulimia, in cui invece le persone riescono a mantenere sempre un peso che rientra nella norma e questo perché come ho detto sopra, utilizzano metodi di compensazione.
“E allora cosa mi succede se non si tratta di bulimia?” ti chiederai.
Ti rispondo subito!
Si tratta del Disturbo da alimentazione incontrollata conosciuto anche come BED (binge eating disorder). Ne hai mai sentito parlare?
Il BED è un disturbo del comportamento alimentare molto diffuso, che si presenta a livello clinico proprio con episodi di abbuffate tipici della bulimia nervosa, senza però mostrarne i comportamenti compensatori tipici che ho spiegato prima.
Spesso il BED è una conseguenza dell’anoressia nervosa o della bulimia nervosa ma può scaturire anche da una già presente condizione di obesità o altri problemi personali soprattutto di natura emotiva. Può essere infatti legato ad una scarsa considerazione di sé, al sentirsi goffi e brutti, isolati dagli altri, insoddisfatti del proprio corpo, depressi e sembra di poter risolvere questa situazione soltanto con il cibo, ma il successivo aumento di peso rende ancora più difficile l’integrazione sociale e il disagio di questo soggetti, porta quindi il BED ad avere sempre la meglio su queste persone.
Tranquillo però, non è un problema irrisolvibile!
Se mangi senza controllo, non aspettare ancora per recuperarlo! Con l’aiuto di una buona terapia magari associata ad un supporto dietetico-nutrizionale per correggere le abitudini scorrette e talvolta alla terapia farmacologica, puoi risolvere questo disturbo in poco tempo.
Ti sembrerà strano, ma ricerche hanno dimostrato che spesso, anche con una singola seduta di terapia, potrai ottenere dei buoni risultati e recuperare il controllo su quello che mangi.
Se vuoi essere aiutato, non aspettare a contattare uno dei terapeuti formati in Terapia a Seduta Singola cercando sul nostro sitowww.onesession.it , il terapeuta più vicino e soprattutto più adatto alle tue esigenze.
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La nascita di un figlio
Che c’è di più bello al mondo dell’avere un figlio? Allo stesso tempo, però, cosa c’è di più complesso dell’adattarsi alla venuta di un figlio? All’interno di un solo articolo, forse non riuscirò a spiegarti tutti i meccanismi psicologici ed emotivi sottesi a questo evento. Eppure ti assicuro che sono molti i cambiamenti che vivono una neomamma e un neopapà. Non solo: un figlio porterà con sé importanti mutamenti anche nella coppia genitoriale.Analizziamone i principali.
Quello che le mamme non nascondono
Due fattori caratterizzano l’impatto emotivo e psicologico della nascita di un figlio su una madre: la desiderabilità del bambino e la capacità di adattamento al nascituro.
Supponiamo che il figlio sia desiderato e voluto. Normalmente una madre sentirà un senso di appagamento alla sua nascita, ma al contempo diambivalenza emotiva nei suoi confronti. Appagamento perché, al vedere il figlio per la prima volta, una donna si renderà conto di essere diventata davvero “madre”. Dopo mesi passati soltanto a immaginare il bambino, ecco che l’avrà lì davanti a sé, in carne e ossa! E come piange!
Ambivalenza emotiva, invece, perché una neomamma dovrà adesso adattarsi a un nuovo tipo di rapporto. Fino a poco prima della nascita, infatti, la donna viveva con il proprio figlio un rapporto intimo e privato: lo portava, ovvero, nel proprio grembo, lo sentiva parte di sé. Vederlo “fuori di sé” la scombussolerà non poco: dovrà adattarsi al percepirlo come un essere a sé stante, diverso. La neomamma dovrà, in definitiva, cambiare le priorità della sua vita: dal momento della nascita, il figlio dipenderà da lei in tutto e ogni cosa dovrà essere fatta per soddisfare le sue necessità.
Finché la donna non avrà trovato un equilibrio in questo nuovo rapporto col figlio, e non lo accetterà come “diverso da sé”, l’ambivalenza emotiva nei suoi confronti sarà inevitabile. Sembra niente, ma è proprio dal mancato adattamento alla nuova situazione, che possono generarsi molte sofferenze psicologiche. Per citartene solo alcune: depressione, sensazioni di inadeguatezza e di colpa, in certi casi addirittura trascuratezza o rifiuto totale del figlio.
“Mamma, ho bisogno di papà!”
Per capire bene la situazione del neopapà, ti propongo una metafora calcistica. E’ come se la donna fosse in campo dall’inizio alla fine della partita, mentre l’uomo è costretto a giocare solo i primi minuti, per poi stare in panchina finché la partita (la gravidanza) non sarà finita. E allora qual è il suo ruolo? Incitare! Incoraggiare! Sostenere la donna in questo suo lungo viaggio di nove mesi!
Il padre, comunque, dopo il taglio del cordone ombelicale, si inserirà a tutti gli effetti all’interno di quella relazione madre-bambino fino ad allora esclusiva. All’inizio, tuttavia, il rapporto padre-figlio, non sarà così intimo e simbiotico come quello madre-figlio. Nei primi mesi, il ruolo del padre è, in un certo senso, di supporto alla relazione madre-bambino, nella speranza di inserirsi quanto prima tra di loro.
Sarà lui, peraltro, che si occuperà delle cose pratiche, come l’iscrizione all’anagrafe, nell’attesa di trasformare la relazione madre-figlio in una relazione madre-figlio-padre, fondamentale per la crescita del bambino. Il padre giocherà in futuro, infatti, un ruolo vitale nel consentire al figlio di “separarsi” dalla madre e avviarsi, gradualmente, verso la vita adulta.
Il neopapà, di conseguenza, vive più psicologicamente, che fisicamente, la nascita di un figlio. Anche per lui, però, l’adattamento non sarà facile. Nel neopapà, non a caso, subentrano spesso sentimenti di esclusione, estraneità, persino depressione, qualora trovasse difficoltà ad abbracciare questa nuova dimensione del vivere. La nascita di un figlio rappresenta una grande ondata di emozioni e cambiamenti per la sua vita, cui a poco a poco dovrà anche lui adattarvisi.
Donna: non ti riconosco più, uomo
Stai pensando se tutto ciò di cui ti ho parlato può influenzare la vita di coppia? Enormemente! La relazione d’amore tra un uomo e una donna cambia radicalmente con la nascita di un figlio. Tutti i cambiamenti fisici, psicologici e relazionali, cioè, incideranno nella coppia che, al contempo, dovrà adattarsi anch’essa all’arrivo di un “estraneo”. Questo perché il figlio assorbirà molte delle energie e dell’attenzione sia del padre che della madre, specialmente nei primi mesi di vita.
Ci sono coppie il cui sodalizio è tale che l’adattamento alla nuova vita sarà quasi immediato. Altre, invece, avranno bisogno di un sostegno esterno, per riuscirci. Il rischio di cadere in atteggiamenti negativi, di rattristirsi in sentimenti di gelosia (più o meno coscienti) o di esclusione, è sempre dietro l’angolo. Sostegno psicologico di cui si avrà la necessità anche qualora soltanto uno dei due, padre o madre che sia, non sarà in grado di adattarsi alla nascita del figlio.
Qualsiasi evento, pertanto, potrà minare, oltre che la salute psicologica del singolo genitore, anche la salubrità della relazione uomo-donna. Per la coppia la nascita di un figlio è come essere investiti da un’ondata di novità talmente elevata, da cui è difficile ridestarsi subito. La soluzione ideale sarà trovare la strada giusta per accedere a una relazione di coppia che, al suo interno, dia il benvenuto all’immensa gioia e consapevolezza dell’aver messo al mondo un figlio.
Bibliografia
Marinopoulos, S. (2008). Nell’intimo delle madri: luci e ombre della maternità, Feltrinelli, Milano.
Volta, A. (2012). Mi è nato un papà: anche i padri aspettano un figlio, Feltrinelli, Milano.